Storie dall’Afghanistan: il ritorno dei Talebani e la fuga di Reha Nawin in Italia
Siamo arrivati a Kabul tre mesi prima dell’arrivo dei Talebani. Noi, che venivamo da Takhar, ci siamo accorti presto che la situazione stava peggiorando e che a breve la guerra sarebbe arrivata anche nella capitale. I Talebani, dai distretti rurali dove erano rimasti rintanati fino ad allora, avevano cominciato ad attaccare e conquistare le città:
abbiamo capito, probabilmente prima di altri, che avrebbero riconquistato tutto. Infatti in soli 11 giorni hanno preso 24 città
Arrivati a Kabul ho cominciato subito a chiedere sostegno a COSPE per riuscire a uscire dal Paese o con programmi di emergenza di ambasciate straniere, come quella del Canada, o con borse di studio e programmi di lavoro all’estero. Era giugno e da fuori non si percepiva davvero il pericolo imminente che stava incombendo sull’Afghanistan. Questo “anticipo” però ci ha permesso di rientrare tra i primi nelle famigerate “liste” di agosto, ovvero l’elenco delle persone in pericolo di vita che dovevano essere evacuate immediatamente dopo l’arrivo dei Talebani.
Avevamo tutto: i documenti, le lettere di presentazione, le valigie pronte. Di cosa avevamo paura? Del fatto che mi riconoscessero, che mi venissero a cercare proprio per il mio lungo lavoro con le ONG straniere come attivista
Del resto ero già stata spiata, minacciata, molestata… ora poteva solo andare peggio. Temevo per la mia vita e quella della mia famiglia. Dopo il 15 di agosto è stato chiaro che l’unica soluzione era la fuga.
Sono stati giorni difficili. Pensare di salutare i miei cari e il mio Paese, forse per sempre, affrontare l’ignoto, scappare come topi, quando sai che sono loro, gli altri, i terroristi, che dovrebbero sparire… è doloroso. Tristezza e rabbia sono stati i sentimenti che mi hanno accompagnato durante tutta questa vicenda. Sentivamo che era diverso anche dall’esilio in Pakistan. Sento tuttora che è diverso. Più definitivo. Ma abbiamo pensato: “o la vita o la morte”.
Il 24 di agosto, in accordo con COSPE e con il gruppo degli ex collaboratori e collaboratrici dei progetti, abbiamo deciso di muoverci verso l’aeroporto
Le strade erano quasi tutti blindate e chiuse dai Talebani, abbiamo visto scene di violenza ai checkpoint e abbiamo cercato altri varchi, liberi, fino ad arrivare sotto le mura dei gate dell’aeroporto. Siamo stati due giorni e due notti in attesa di entrare. Tutti hanno visto, in tv, in che condizioni eravamo, ma stare lì era diverso. Atroce. Per noi che le abbiamo vissute sono ore terribili da raccontare e anche da ricordare. Provo solo molto dolore. Folla, gente disperata, urla, puzzo, terrore. E ancora mi sogno di essere lì nell’acqua, di fronte a un cancello che non si apre e di girarmi e di non trovare più i miei figli e mio marito. Persi. Per fortuna non è andata così.
Siamo stati due giorni con i piedi in un torrente fetido, senza bere né mangiare, camminando su altre persone, vedendole cadere e, in alcuni casi, vedendole morire calpestate
Noi eravamo un gruppo di circa 60 persone - la famosa lista -, abbiamo cercato di stare sempre unite, in fila con le mani l’uno sull’altro. E in bambini in collo o in spalla per non farli cadere in acqua. Io sono svenuta un paio di volte e lo stesso mio marito. Mia figlia grande a un certo punto è caduta nel torrente. Qualcuno l’ha tirata su. Dopo 48 ore così, mentre molti cominciavano a cedere, siamo riusciti a entrare dal varco degli italiani.
Avevamo tutti il segno P/ e dei fazzoletti con scritto COSPE. Il “capogruppo” è riuscito a entrare per primo e poi con i militari italiani è venuto a riconoscerci nella folla.
Mentre entravo nel gate una signora mi si è attaccata ai piedi e mi tirava. Mi tirava. Voleva entrare con me. L’ho dovuta staccare a forza. Ma ho visto la disperazione nei suoi occhi come in quelli di tutti quelli che sono rimasti, sapendo che quello era uno degli ultimi giorni per tentare la fuga
Dopo mezzora dal nostri ingresso, c’è stato l’attentato, esattamente dove eravamo noi. Quella è stata la fine della speranza. Anche molti dei miei compagni di lista non ce l’hanno fatta. Sono rimasti fuori tra sangue e cadaveri e poi sono tornati a casa.
Mia figlia oggi, se le parlo dell’Afghanistan, mi dice solo: mamma, non torniamo in quella strada
(Segue)
Le altre puntate della storia di Reha Nawin:
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A cura di Pamela Cioni. Un progetto editoriale di The Wom / Mondadori Media in collaborazione con la campagna "Emergenza Afghanistan" di COSPE.