Storie dall’Afghanistan. La vita, la fuga e le speranze di Reha Nawin, attivista fuggita dai Talebani
Sono Reha Nawin, ho 37 anni e sono nata a Kabul. Oggi mi trovo a Firenze dopo essere fuggita dai Talebani che nell’agosto scorso hanno ripreso il potere nel mio paese, dopo 20 anni di tregua. Questa che leggerete di seguito è la mia storia. Ed è la storia di tante donne che negli ultimi anni hanno visto una speranza e un futuro migliore rispetto a quello delle generazioni precedenti e che oggi, come me e come le generazioni precedenti, si trovano in esilio. Ma, in parte, è anche la storia di tutte quelle donne che quel giorno del 26 agosto non ce l’hanno fatta ad entrare in aeroporto e sono rimaste in Afghanistan. Loro, come me, hanno sperato e lottato per un paese migliore e oggi si trovano a subire il ritorno di questo gruppo di criminali, integralisti, assassini.
Questa che leggerete di seguito è la mia storia. Ed è la storia di tante donne che negli ultimi anni hanno visto una speranza e un futuro migliore rispetto a quello delle generazioni precedenti
Le mie origini, la guerra civile e un destino da migrante
Quando sono nata, nel 1984, in Afghanistan c’era l’Occupazione sovietica e la guerra con i Mujaeddin. I miei genitori sono originari della provincia di Paktia, non lontano da Kabul, ma in quel periodo si erano già trasferiti nella capitale. Provenivano entrambi da una famiglia povera di origine pashtu ma molto moderna e aperta di vedute. Di solito si dice che i pashtu siano più conservatori - i Talebani sono di questa etnia - ma per mia fortuna loro non lo erano. Per entrambi la vera emancipazione era rappresentata dallo studio.
Mio padre fin da giovane, per non pesare sui miei nonni, si era trasferito in una specie di ostello a Kandahar per diplomarsi come geometra. Mia madre non ha potuto studiare ma ha fatto enormi sacrifici perché lo potessimo fare noi figli. Siamo quattro. Due sorelle e due fratelli: due laureati e uno, il più piccolo, spero lo faccia qui in Italia. Anche sulla religione sono sempre stati molto aperti e non ci hanno mai imposto di pregare. Ci hanno lasciato libertà di scelta.
Purtroppo nei primi anni ’90 dopo la fine dell’Occupazione sovietica, l’arrivo dei Mujaeddin, e poi dei Talebani la vita per noi, come per migliaia di afghani, era diventata impossibile. Anche per questa libertà di vedute, oltre che per motivi economici e di sicurezza. Dopo un breve ritorno a Paktia, i miei hanno deciso di scappare in Pakistan. Erano i primi anni ’90, io ero piccola e l’Afghanistan era in piena guerra civile. Del Pakistan mi ricordo che i miei hanno fatto una vita molto dura. Per fortuna non vivevamo in un campo profughi ma avevamo una casa, nella periferia di Peshawer, però il lavoro non c’era. Eravamo esuli, profughi, come un altro milione e mezzo di afghani che negli anni si sono accalcati in questa terra di confine.
Il Pakistan è simile all’Afghanistan, ma non è il nostro paese, e noi non eravamo nella nostra casa. Mio padre per far mangiare la famiglia faceva di tutto ma guadagnava poco. A un certo punto si è messo a vendere frutta e ricordo che stava fuori tutto il giorno. Ricordo anche di averlo visto svenire dalla stanchezza. E io mi sentivo impotente per non poter aiutare i miei genitori.
Siamo rimasti lì 12 anni, cambiando anche città e spostandoci a Rawelpende, senza però che niente cambiasse. Sono stai per me anni bui di cui ricordo poco. So soltanto che ho avuto la fortuna di cominciare a studiare con la scuola dei rifugiati dell’UNHCR e che quando siamo rientrati a Kabul ero pronta per l’Università. Ero sicura che quello sarebbe stato il mio riscatto e il modo di aiutare davvero i miei. Era il 2005, erano arrivati gli Usa e le forze Nato in seguito all’attentato delle torri gemelle e, in quell’anno, era stato eletto il primo presidente dopo il periodo oscuro dell’Emirato talebano, Hamid Karzai, e i Talebani erano stati respinti ai confini estremi del paese, anche se purtroppo non estirpati.
Per noi, stranieri in terra straniera, fu un momento di grande speranza, sognavamo un paese libero. Tornammo a Kabul. Non sapevo che l’avrei dovuta lasciare di nuovo...
Presto online la seconda parte del racconto di Reha Nawin
(Segue)
Le puntate della storia di Reha Nawin:
A cura di Pamela Cioni. Un progetto editoriale di The Wom / Mondadori Media in collaborazione con la campagna "Emergenza Afghanistan" di COSPE.