È uscito lo scorso 10 novembre Tre volte (Factory Flaws in collaborazione con Border Records), il nuovo album della cantautrice lucchese Adelasia. Nelle dieci tracce che lo compongono, Adelasia sceglie di affrontare un viaggio interiore in cui si guarda dentro senza aver timore del giudizio altrui affidandosi alla produzione e alla collaborazione con Edoardo Baroni, chitarrista e suo attuale compagno di vita.
Tre volte per Adelasia ha avuto una genesi particolare, che lei stessa ci racconta nel corso di questa intervista in esclusiva in cui abbiamo cercato di capire chi è prima di tutto l’artista e dopo chi è la giovane donna che dietro all’artista si cela. Abbiamo così scoperto che, nel suo caso, la linea di demarcazione non esiste: ciò che è musica è vita e ciò che è vita è musica, un binomio che le ha permesso di vincere insicurezze e capire qual è la sua strada.
Una strada, comunque, sempre segnata dall’arte: Giuseppe Loy, il nonno di Adelasia, era un fotografo i cui scatti sono finiti nell’artwork di Tre volte, mentre la nonna Rosetta Loy era un’affermata scrittrice che, vincitrice di vari premi e riconoscimenti, ha pubblicato per Einaudi. E tra le opere pubblicate c’è anche Forse, uscita nel 2016 e di ispirazione per il titolo stesso dell’album di Adelasia.
Intervista esclusiva ad Adelasia
“Adelasia non è un nome d’arte. Si chiamava così la mia nonna paterna: si era ammalata quando stavo per nascere e i miei hanno deciso in qualche modo di omaggiarla. Avrei dovuto altrimenti chiamarmi Emma”, ci rivela sin da subito Adelasia quando le facciamo notare il significato del suo nome, “nobile d’animo”. E nobile d’animo Adelasia lo è realmente, raccontando con sincerità anche quegli aspetti del suo carattere che ha imparato a smussare crescendo.
Perché hai deciso di chiamare il tuo disco Tre volte?
Stavo scrivendo la canzone omonima quando ho aperto un libro di mia nonna, la scrittrice Rosetta Loy, nel cui incipit scrive “Sono morta tre volte ed ogni volta è stato un po’ come rinascere”. Nonna era appena venuta a mancare… Tre, poi, era un numero che ritornava: sono al mio terzo disco e leggere quella frase mi ha portato a pensare che potesse essere di buon auspicio per ricominciare questa mia nuova vita come donna. Nuova proprio perché ho risentito molto della perdita vissuta: è come se avessi perso per sempre una parte di me, era l’ultima delle nonne che mi era rimasta e non sarei più stata nipote. E forse questo senso di rinascita si sente anche nella mia produzione artistica.
Forse… è anche il titolo del libro di nonna in cui hai letto quell’incipit: avresti anche potuto intitolare così il disco.
Non è la prima volta che me lo sento dire. Ma ho avuto paura di farlo: mi sarebbe sembrato un po’ troppo citazionistico. Sarebbe stato un rimando abbastanza evidente e sarebbe stato anche pesante da portare sulle spalle.
Tre volte è stato anche registrato nella casa in cui vivevano i tuoi nonni…
Ho voluto appositamente recarmi lì, nella loro casa al mare a Sperlonga. Dovevo rimanerci solo una settimana ma si è trasformata in un mese di intenso lavoro di scrittura, insieme al mio produttore e compagno, Edoardo Baroni. Dopo la morte di nonna, ero indecisa sull’andare o meno perché, comunque, quella casa si portava dietro un certo peso emotivo. Ho vinto solo dopo ogni resistenza: quel peso andava approfondito e le sensazioni provate mi hanno fatto vivere momenti di forte emotività, attimi che per un artista sono preziosi.
I ricordi emersi in quel mese trovano un corrispettivo visivo nella copertina del disco, in cui sei raffigurata con sullo sfondo delle fotografie scattate da nonno, il fotografo Giuseppe Loy. Perché tale scelta?
È tutto molto più banale di come sembra. Dopo aver scritto le canzoni, pensavo a un progetto grafico coerente con il sound. Per mesi ho fatto ricerche varie e sentito tutti i grafici e le grafiche che conoscevo per avere reference di qualche tipo o trovare idee ma niente. Almeno fino a quando una persona a me cara non mi ha suggerito le foto di nonno, a cui non avevo mai pensato. Tra l’altro, sono le foto che si trovano nel salotto in cui ho scritto il disco: quelle foto sono state le prime testimoni della stesura di tutte le canzoni.
Che rapporto avevi con i nonni, così presenti nel tuo disco?
Non ho mai conosciuto nonno però, approfondendo la sua figura nel viaggio fotografico che ho poi fatto, ho capito come sia la persona della mia famiglia nella quale ritrovo maggiormente il mio essere. Quando leggo certe sue frasi lasciate scritte rivedo i miei pensieri: aveva un modo di vedere il mondo che è il mio. Ecco perché, nonostante non l’abbia mai vissuto, credo che tra noi ci sia un rapporto di forte intimità e forte somiglianza, c’è qualcuna che ci unisce.
Ho conosciuto, invece, bene nonna. Era una donna molto complessa e anche di successo per ciò che nel suo piccolo faceva. Personaggio molto particolare ed eccentrico, nonna era una donna molto autoriferita che non desiderava essere considerata né una mamma né tantomeno una nonna. Credo che la sua complessità mi abbia insegnato molto dell’essere donna oggi: era veramente molto “moderna”.
Cosa vuol dire per te essere una donna moderna?
È molto stimolante pensare alla risposta perché è una domanda che non mi sono mai posta. Per me, una donna moderna è una donna che non ha paura di mostrare in alcun modo la propria emotività e sensibilità, aspetti di cui non deve mai vergognarsi. È una donna che accetta tutte le sfaccettature della propria personalità e che le mostra senza farsi tante domande.
Un po’ quello che hai fatto tu nelle dieci tracce di Tre volte, in cui mostri tantissimi lati della tua personalità affrontando temi come l’amore, le paure intrinseche in una relazione e molto altro ancora. Quanto è difficile oggi far passare il concetto per cui esistono anche le cantautrici e non solo i cantautori?
Qualcosa sta fortunatamente cambiando, portandosi dietro un peso storico non indifferente. In musica, le donne si stanno prendendo finalmente i loro spazi: basta guardare le candidature ai Grammy per vedere come si siano ribaltate le proporzioni e come vari siano i nomi femminili. Mi piace molto: non sono candidata ai Grammy ma aiuta a essere consapevoli di quello che stiamo facendo e del potere che ha, anche nel piccolo, ciò che facciamo.
Hai lavorato insieme al tuo produttore alla realizzazione del disco. Caso vuole che sia anche il tuo compagno e che con lui duetti nel brano Come sei tu. È stato facile mettersi a nudo di fronte al proprio compagno?
Eh, no. Abbiamo litigato tanto (ma proprio tanto!) ma è stato motivo di grande crescita non solo personale ma anche relazionale. Lavorare con chi conosci ha grandi vantaggi ma è anche molto complicato, soprattutto quando ci si deve esprimere in qualcosa di creativo: ciò che è figo per uno non è detto che lo sia per l’altro. Io sono molto istintiva mentre lui è molto più razionale, io mi lascio andare alla creatività del momento mentre lui è più rigido. Tante volte ci siamo smorzati l’entusiasmo a vicenda e abbiamo discusso ma è stato bello: ci ha permesso di conoscerci meglio a vicenda.
Il disco si chiude con Non ho niente da dire, una canzone che parla di come le canzoni stesse non nascano di getto. So che c’è di mezzo una telefonata con tua madre.
Avevo quasi completato tutto il disco (mancava solo Carbone, la traccia di apertura che è l’ultima che ho composto). Ero seduta alla mia scrivania, lavoravo a una musica a cui mancava il testo e pensavo che oramai non avessi più niente da dire: cominciavo a scrivere ma non veniva fuori nulla. Ho chiamato mia madre ed è stata lei durante la conversazione a suggerirmi, vista la mia sofferenza, di scrivere delle parole che vengono a mancare. Lì per lì, l’ho trovata un’ipotesi orrenda ma poi ci ho provato, considerandolo quasi un gesto di sfida nei suoi confronti: “Tanto verrà fuori qualcosa di brutto”… E, invece, nel giro di pochi minuti è venuto fuori un testo che a Edoardo piaceva tantissimo: alla fine, aveva ragione mamma!
Mamma è orgogliosissima di ciò che faccio. Non ho mai sentito sulle spalle il peso delle aspettative dettato dall’aver avuto una nonna scrittrice. Anche perché, a casa mia, si è sempre respirata un’aria creativa che mi ha trasmesso il desiderio di fare musica.
Qual è l’urgenza che ti porta a scrivere una canzone? Un cantautore in un brano mette se stesso e quella parte di vita o pensieri che a parole non è riuscito a esprimere ma che prende forma quasi magicamente su un foglio.
Sono stata per molto tempo una persona insicura. La musica è stato il mezzo attraverso cui mi sono fatta conoscere agli altri quando mi sono trasferita a Roma. Dopo una vita passata a vivere in campagna, nella capitale mi sentivo inadeguata tanto che parlavo sempre poco di me e mentivo molto sia a me stessa sia agli altri. Le canzoni mi hanno permesso di mostrarmi così com’ero e continuano a farlo: sono cresciuta, sono meno insicura, esistono ancora aspetti di cui parlo poco ma che preferisco mettere in musica.
Nasce dall’insicurezza l’impossibilità di esprimere la propria rabbia di cui canti in Dove sei?
È un sentimento che accomuna molte persone: come loro, anch’io ho difficoltà a esprimermi al 100% e ho tanta paura di arrabbiarmi. Motivo per cui la mia rabbia si trasforma sempre in sofferenza. Mi sono chiesta a lungo dove finisse tutta la rabbia che accumulavo e che non tiravo fuori, ho persino temuto che un giorno mi divorasse o che esplodesse, facendo dei danni immensi.
In Che peccato capovolgi invece il cliché della principessa Disney da salvare: “Sono io che salverò te”. È frutto di una riflessione su come siano cambiate le dinamiche relazionali tra uomini e donne?
Non riesco a risponderti con certezza ma rifletto spesso sui ruoli che occupiamo nella coppia. Per molto tempo, la musica e le canzoni hanno parlato di determinate dinamiche ma i punti di vista oggi sono cambiati e hanno portato anche alla scoperta di nuovi mondi. Forse tra qualche anno anche la principessa che salva il principe diventerà un cliché, anche se la strada è ancora lunga.
L’idea, comunque, di te che prendi una posizione torna spesso nell’album. In DFDCM, sei tu che prendi posizione nel dire “basta”.
È un aspetto che ritorna spesso nelle mie canzoni e che ribalta l’idea delle donne ferite dagli uomini o in perenne attesa del loro ritorno o di un telefono che non squillava mai. C’è stato un periodo della mia vita in cui anch’io ero una di loro: mi piace ora restituire un’immagine diversa e lontana dalla “sottomissione” amorosa o dalla sofferenza dettata da un lui stronzo. Anche noi donne possiamo romperci di una storia che è arida o senza poesia, non c’è solo il dolore a fare da ispirazione, nonostante quando scriviamo ci appelliamo sempre alla sofferenza amorosa: non c’è nulla di più stimolante.
“Se la realtà ti mente e non lo sai, sorprendila”, canti in Adulti. Come?
È una frase che ho scritto in un momento in cui avevo molti pensieri intrusivi nella mia mente. Mi ero costruita una specie di falso mondo in cui credevo che gli altri avessero pensieri negativi sul mio conto o mi sottovalutassero. Vedevo una realtà diversa da quella che era e volevo portarla da qualche altra parte, proprio per fuggire a quei pensieri che ritornano anche in Carbone. Mi impegnavo a dimostrare a me stessa che la realtà fosse l’esatto contrario di ciò che gli altri pensassero. Ma forse, in fondo, la verità era un’altra: ero io a pensare male di me stessa o a sottovalutarmi.
In Amore/squallore, dipingi l’amore come un insieme di cloruro, idrogeno e oro. Ma anche come una maschera dalla faccia di fango. Come convivono i due aspetti, uno così splendente e l’altro così dequalificante?
Possono convivere tranquillamente. L’amore sa anche essere squallido delle volte: ti presenta una faccia luminosa ma ne nasconde un’altra melmosa, che si stava manifestando e che accettavo che si manifestasse in quella forma. Nelle prime fasi di un amore idealizzi sempre l’altro prima di scoprire, con una conoscenza profonda, che è una persona come tante altre.
Hai scritto la tua prima canzone qualche anno. È vero che fosse per friendzonare qualcuno?
In realtà, ho scritto la prima canzone perché mi ero innamorata di un ragazzo che non mi ricambiava. Ma forse ho raccontato il contrario dicendo una bugia! La prima canzone (si intitolava Mercoledì) era per il mio insegnante di chitarra, mi piaceva ma lui non mi ricambiava. Ma, curiosamente, è poi diventato il mio attuale fidanzato, chiudendo un cerchio: ce l’ho fatta!