La regista Adele Tulli ci accompagna nel suo nuovo film, Real (prodotto da Pepito Produzioni e FilmAffair con Rai Cinema e Luce Cinecittà, in collaborazione con Les Films d’Ici), in un viaggio visionario tra il familiare e il disincarnato, esplorando il nostro legame in continua trasformazione con il mondo digitale. Fin dalle prime fasi del progetto, durante i mesi di lockdown, Adele Tulli ha osservato il nostro modo di vivere mentre, isolati, ci aggrappavamo agli schermi come porte di accesso alla realtà esterna, per poi scontrarci con il senso di alienazione che questo stesso contatto virtuale ci restituiva.
La pandemia ha acceso in Adele Tulli la consapevolezza di una metamorfosi antropologica: ci stiamo evolvendo in simbiosi con la rete, separandoci da una concezione di realtà che era fisica, tangibile. Questa “speciazione digitale,” come la definisce la regista, diventa il fulcro narrativo di Real. La scelta di Adele Tulli di raccontare storie che, in apparenza ordinarie, rivelano le molteplici sfaccettature dell’iperconnessione, crea un effetto alienante, che ci spinge a riconsiderare la quotidianità attraverso una lente distorta. È un percorso che mette in luce il contrasto tra la vicinanza e l’inquietudine, esplorando i temi del rapporto umano con la tecnologia senza giudizio o tesi precostruite.
La riflessione che Adele Tulli ci propone è un invito aperto a interrogare le conseguenze profonde della digitalizzazione, soffermandosi su come essa influenzi la costruzione dell’identità e il nostro modo di relazionarci. Con un approccio empatico e critico, la regista ci porta in un mondo dove il digitale diventa sia fonte di libertà che causa di isolamento, mostrandoci quanto il virtuale sia diventato “reale” e lasciando allo spettatore il compito di navigare tra i paradossi di questa nuova esistenza con cui tutti siamo chiamati a fare i conti.
Intervista esclusiva ad Adele Tulli
“Ho cominciato ad avere le prime idee per questo film durante i mesi della pandemia e del lockdown, in cui tutti abbiamo fatto l’esperienza estrema e inedita di rimanere chiusi in casa, con i nostri corpi forzatamente isolati”, esordisce Adele Tulli nel raccontare Real, il suo ultimo lavoro presentato in anteprima al Festival di Locarno e al cinema dal 14 novembre grazie a Luce Cinecittà. “In quel momento, gli schermi dei nostri dispositivi digitali erano l’unico accesso verso la vita, l’esterno e la socialità. Da un lato, ci permettevano di entrare in connessione con il resto del mondo in un contesto in cui la fisicità era impossibile ma, dall’altro lato, dopo un po’ restituivano un senso di isolamento e di alienazione totale”.
“Ed è allora che mi sono resa conto di come fosse in atto un processo di speciazione, una trasformazione antropologica profonda, facendo partire il mio tentativo di immergermi nel mondo disincantato della rete per provare a raccontare come ci sta trasformando”, continua Adele Tulli dall’altro lato del telefono mentre è appena arrivata a Palermo per presentare Real nel contesto dell’Efebo d’Oro Film Festival.
Scegli di farlo attraverso storie di situazioni o lavori (dal rider alla web girl) che appartengono a quella che ormai diventata la nostra quotidianità: come le hai scelte?
La ricerca è stata molto lunga perché, chiaramente, l’argomento è complesso, ha molti livelli di lettura ed è in costante evoluzione: si ha la sensazione di non afferrarlo mai. Ho fatto dunque molte ricerche per provare a pensare quali storie potessero incarnare alcuni del temi legati alla digitalità che volevo raccontare: partendo da una prospettiva di riflessione e di studio, sono arrivata poi a nuclearne alcune che potessero essere simboliche e portatrici di riflessioni. Dopodiché, è partita la fase altrettanto lunga in cui ho dovuto cercare le persone da raccontare: ne ho conosciute tantissime anche tramite le diverse piattaforme, le ho incontrate, ho parlato con loro, abbiamo discusso i temi su cui mi volevo soffermare ma anche la volontà di far parte del progetto.
Le varie storie raccontano i tanti aspetti del vivere iperconnesso e sono caratterizzate dall’essere ordinarie: l’aspetto che da sempre mi interessa è l’osservare il mondo intorno a noi attraverso uno sguardo che, se da un lato ci permette di riconoscerlo come familiare, dall’altro ce lo restituisce deformato, alieno, sottosopra, da una prospettiva che ci dà la possibilità di interrogare il quotidiano. Il mio tentativo è quello di generare l’effetto specchio di Alice, uno specchio che non riflette semplicemente il mondo circostante ma che lo deforma rendendolo al contempo familiare e inquietante.
Dal punto di vista del linguaggio, l’effetto specchio di Alice è reso abbastanza bene grazie a un uso dei simboli mai scontato.
Lavoro molto a livello simbolico. L’acqua, ad esempio, è un elemento che torna spesso nel film: rimanda all’inconscio ma è anche lo specchio che riflette, richiamando alla mente il mito di Narciso. Così come molto spesso ritorna l’idea del mondo sottosopra.
Da autrice, di fronte alle storie che ti si presentavano davanti quanto hai sospeso il giudizio?
Nei miei lavori, non ho mai una prospettiva neutrale perché, ovviamente, parto dal punto di vista critico di chi tenta di offrire una riflessione. Tuttavia, la riflessione che spingo non è mai univoca: mi piace semmai sollevare dubbi e interrogativi. Il giudizio, però, nei confronti degli altri è sempre sospeso: il tentativo è semmai quello di unire molta empatia e, quindi, vicinanza agli esseri umani in generale e alle loro storie. Nel caso di Real, alla vicinanza, perché sono molte le cose che ci accomunano a cominciare dall’interazione con i dispositivi digitali, associo anche un elemento di distanza che mi permette di guardare il tutto da una prospettiva che lascia trasparire una certa inquietudine.
È come se ci fosse un equilibrio molto precario tra comprensione ed estraniamento nel porre domande su quello che comporta oggi la nostra interazione con i dispositivi, caratterizzata sia da potenzialità molto liberanti sia da profonda preoccupazione.
Tra l’essere apocalittica o integrata, per dirla à la Umberto Eco, scegli di andare all’essenza stessa delle cose.
Nei confronti della tecnologia c’è sempre una polarizzazione totale tra tecnofobia e tecnoentusiasmo: nel mio caso, non volevo sposare nessuna delle due posizioni.
Da un lato, mostri come i dispositivi digitali abbiano contribuito all’affermazione delle identità permettendo di viverle liberamente, qualcosa che non sempre avviene nel mondo reale. Dall’altro, invece, sottolinei come ci abbiano trasformato in un mondo di depressi e stressati.
Non sono partita da una tesi precostruita: determinate letture si scoprono in fase di montaggio. È lì che è emerso, nel mettere insieme le storie, come la rete sia al contempo terapia e patologia. Nell’universo della VR, le persone trovano ad esempio rifugio dalla tossicità del mondo fisico, trasformando quello spazio in qualcosa di terapeutico in cui gli individui stanno meglio e trovano delle socializzazioni e delle relazioni corrispondenti. A quell’universo, però, risponde quello delle cliniche di rehab in Germania, in cui chi trascorreva le stesse ore degli user della VR nel mondo dei game aveva totalmente perso non solo la connessione con il mondo fisico ma anche con il proprio corpo.
Sono le due facce della stessa medaglia: era quindi molto interessante osservare come ci siano effetti tra loro molto opposti pur utilizzando lo stesso strumento. Nessuna intenzione da parte mia, dunque, di demonizzare la tecnologia in sé ma solo l’interesse a illuminare alcuni aspetti che ne presentano un potenziale e altri che invece si trasformano in tossici.
Dopo un film come Real che rapporto hai oggi con il digitale?
Come tutti noi, sono alla ricerca di un equilibrio possibile da raggiungere tra online e offline. Chiaramente, in tre anni di lavoro e di ricerca, ho sicuramente esagerato il mio screen time ma, una volta chiuso il progetto, è stato emozionante tornare tra le persone e nel mondo reale, accompagnando anche Real ai vari festival a cui ha preso parte e partecipando anche a diverse proiezioni con il pubblico in sala. Ho anche ripreso a fare delle grandi passeggiate: non so se è un caso ma continuo a fare delle camminate nel verde che prima non facevo… ho bisogno di sentire the taste of grass!
Normal, il tuo precedente film, era stato presentato alla Berlinale, Real invece ha avuto la sua premiere a Locarno. Che cosa significa per una “giovane” regista essere accolta nei circuito dei grandi festival internazionali?
In realtà, avevo realizzato anche altri film che non avevano subito incontrato il plauso dei cosiddetti festival di fascia alta: quando sono arrivata a Berlino, avevo fatto la mia gavetta lavorando a due progetti molto indipendenti. Il primo era 365 Without 377: vivevo in India e mi ero interessata alla comunità LGBTQIA+ nell’anno della decriminalizzazione della famigerata Section 777 del codice penale indiano. Il secondo, invece, era Rebel Menopause, su Thérèse Clerc, una mitica femminista ottantacinquenne francese.
Entrambi i progetti rientravano nel campo accademico in cui mi muovevo: avevo conseguito un dottorato teorico pratico in Inghilterra ed è stato in quel percorso di ricerca che ho sviluppato un interesse specifico verso quel linguaggio cinematografico che sto portando avanti. Quando Normal è approdato alla Berlinale e poi Real a Locarno non potevo dunque che esserne felice.
Tutti i tuoi lavori hanno un fil rouge, se vogliamo: il concetto di identità. Cosa ti spinge a esplorare così tanto la tematica?
Una serie di svariati motivi, direi. Da un lato, arrivo al cinema non dal mondo delle scuole di cinema: il mio drive iniziale non è necessariamente il racconto cinematografico ma la ricerca antropologica, che ha spinto il mio interesse verso i fenomeni umani contemporanei. Sono poi parte dei movimenti queer e transfemministi: da anni mi interessano la politica e certe forme di attivismo e, di conseguenza, sono arrivata al cinema perché era il linguaggio che più di ogni altro mi permetteva di raccontare le cose che mi interessavano e non viceversa . E per farlo ho scelto un linguaggio non narrativo che più che raccontare storie pensa per immagini, articolando delle riflessioni in maniera suggestiva.
Il genere cinematografico che più mi ispira è il film saggio, un sottogenere del documentario che alle narrazioni lineari preferisce lo scavare dentro un tema, nel mio caso senza ricorrere a voice over o interviste e con l’uso di pochissimi dialoghi. Mi affascina molto l’associazione delle idee: è un po’ come giocare con il caleidoscopio.
È un caso che i pochi dialoghi che si trovano in Real appartengano all’universo della VR?
No, quello è uno dei contesti digitali in cui abbondano anche l’intimità e la fisicità tra le persone. A differenza di altre situazioni in cui gli individui sono isolati nelle loro stanze, nella VR c’è una forma molto forte di interazione virtuale: gli avatar si toccano e si coccolano molto. In quella dimensione il tempo si espande, contrariamente a quanto avviene ad esempio nel mondo dei social, pensato per essere rapido e veloce. Lo spazio della VR assomiglia di più al web degli anni Novanta, a quello dei forum, più libero e orizzontale, non gestito e controllato, ancora libero.
Hai in mente di ritornare sul concetto di identità alla luce di un momento storico e politico in cui tante libertà sembrano venir mancare meno?
Mi sono sempre interessata alle identità e alle esistenze considerate marginali rispetto a quelle dominanti, ancora di più oggi: ho la sensazione che siamo come dentro a un grande gioco dell’oca, per cui a ogni passo in avanti ne corrispondono due indietro. Soprattutto rispetto ai diritti: tutto ciò che fino a ieri abbiamo dato per assodato, viene rimesso in discussione, a cominciare dall’aborto. Non bisogna dunque mai abbassare la guardia, certi temi rimangono centrali per me ma ancora non ho chiaro a cosa lavorerò prossimamente: sto raccogliendo al momento tanti semini. Di fronte a filoni che seguo, leggo e studio fino a quando non germoglia qualcosa.
Real: Le foto del film
1 / 5Chi è la prima persona che chiami dopo aver terminato un lavoro?
Non ce n’è una nello specifico, anche perché ho tantissime persone che sono per me veramente amiche e sorelle da poter chiamare. A cominciare da quelle che lavorano con me: ho la fortuna di avere una squadra di lavoro che è più o meno la stessa da sempre, dalle direttrici della fotografia Clarissa Cappellani e Francesca Zonars alla produttrice Laura Romano… sono tendenzialmente persone che frequento regolarmente. Potrei dire mia moglie ma non la chiamo per dirle che ho finito (ride, ndr).
Cosa ne pensa tua madre (Serena Dandini, ndr) del tuo lavoro?
Sono stata molti anni all’estero e sono tornata da poco a Roma. L’essere nella stessa città ha portato a passare nuovamente tanto tempo insieme: abbiamo un bellissimo rapporto e siamo d’accordo su molte riflessioni, anche sul mio lavoro. Chiaramente, essendo lei di parte, le piace molto.
In Real, un’influencer in lacrime confessa di non poter vivere senza il suo seguito. Senza cosa potrebbe non vivere Adele Tulli?
Senza le mie compagne di tanti percorsi fatti insieme: le mie sorelle femministe.
All’interno del femminismo si cammina sempre tutte insieme? All’esterno arriva spesso la sensazione che si sia una sorta di battaglia intestina per cui non esiste più un solo femminismo…
Da sempre ci sono vari femminismi ed è anche giusto che sia così perché riflette la complessità e la moltitudine delle esperienze umane. I dissidi ci sono ma sono soprattutto con una parte di femminismo che ha deciso di schierarsi con le destre su alcuni temi: dal mio punto di vista transfemminista faccio persino fatica a definire “femministe” chi abbraccia ad esempio la transfobia o la discriminazione verso altri gruppi. In generale, penso che il femminismo sia uno dei movimenti che più accoglie e inspira, la cui analisi critica sul contemporaneo non parla solo di relazioni uomo-donna ma anche di pubblici poteri in senso più ampio.