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Alberto Ammann: “Chi detiene il potere dimentica l’umanità” – Intervista esclusiva

alberto ammann
Attore argentino conosciuto in tutto il mondo per serie tv come Narcos e Griselda, Alberto Ammann è il protagonista del film Upon Entry, in arrivo nelle nostre sale. Lo abbiamo incontrato per un’intervista in esclusiva in cui si affrontano temi come l’immigrazione, le disparità sociali, l’abuso di potere e il razzismo.
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Nel film Upon Entry, in uscita nelle nostre sale il 1° febbraio distribuito da Exit Media, Alberto Amman interpreta Diego Hernandez, un urbanista venezuelano che insieme alla sua compagna Elena Pamies (bruna Cusì), una ballerina contemporanea di Barcellona, viene fermato alla dogana appena atterrato all’aeroporto di Newark, negli Stati Uniti.

Di fronte a due ufficiali di dogana fin troppo ligi al loro senso del dovere (Laura Gomez e Ben Temple), Diego ed Elena sono sottoposti a un duro interrogatorio sulle motivazioni che li portano a voler mettere piede sul suolo americano. In particolar modo, a essere visto male è Diego, la cui unica colpa è quella di avere un passaporto venezuelano e di provenire da un Paese meno fortunato di altri. Identità, relazione di coppia e percezione di sé vengono annientati in un crescendo di tensione che trasforma il film Upon Entry in un thriller psicologico senza precedenti.

Candidato a tre premi Goya (regia, sceneggiatura e attore protagonista), il film Upon Entry si basa sull’esperienza vissuta in prima persona dai registi Alejandro Rojas e Juan Sebastian Vasquez. “Siamo nati entrambi a Caracas e sappiamo bene cosa significa prendere la decisione di trasferirsi all’estero e iniziare una nuova vita”, hanno spiegato i due. “Questa decisione diventa più complicata quando si proviene da determinati Paesi e le autorità possono sottoporti a un lungo interrogatorio per il rilascio del visto. Alla fine, sarà quel pezzo di carta a determinare l’ingresso o meno nel Paese. È proprio qui che si svolge il film: un limbo intermedio e nebuloso, dove non si è né dentro né fuori dalla propria destinazione e dove una decisione, a volte arbitraria, può cambiare il senso della propria vita”.

Di Upon Entry abbiamo parlato con Alberto Ammann in un’intervista in esclusiva che va ben oltre le tematiche del film, in cui l’attore si espone in prima persona, raccontando sia la sua esperienza di immigrato sia la sua visione politica sulle divisioni del mondo. Già premio Goya come miglior attore esordiente nel 2010 grazie al film Cella 211, Alberto Ammann è conosciuto in tutto il mondo per via del personaggio di Pacho Herrera, il leader del cartello Cali, nelle serie tv Netflix Narcos e Narcos: Mexico. Ed è su Netflix che in questi giorni Alberto Ammann è ritornato nei panni di Alberto Bravo in Griselda, al fianco di Sofia Vergara.

Argentino di origine (figlio del giornalista, politico e scrittore Luis Alberto Ammann), vive oggi in Spagna ed è considerato come uno dei più grandi attori della sua generazione, in compagnia di Penelope Cruz, Jordi Molla ed Elena Anaya.

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Alberto Ammann.
Alberto Ammann.

Intervista esclusiva ad Alberto Ammann

Chi è Diego, dal tuo punto di vista, il protagonista del film Upon Entry?

Diego è fondamentalmente un sopravvissuto. È un giovane uomo che di professione fa l’urbanista ma che, a dispetto della sua formazione professionale, non ha un lavoro. Ha lasciato il Venezuela, il suo Paese a causa della violenza che ha preso il sopravvento e di cui ha sofferto in prima persona, ed è emigrato in Spagna, da dove insieme alla sua compagna Elena programma di trasferirsi negli Stati Uniti.

Diego è venezuelano mentre tu, Alberto, sei argentino. Entrambi siete sudamericani: quali sono i punti di contatto che hai trovato con il personaggio?

La risposta è semplice: mi commuove ciò che vive un essere umano che attraversa la sua stessa situazione. Mi commuove per la vicinanza, essendo anch’io latino-americano, e mi commuoverebbe anche se non avessi avuto amici venezuelani che, come lui, hanno provato a cercare un futuro migliore altrove. Io stesso sono un emigrante: una condizione che condivido con Diego: è da diciannove anni che vivo a Madrid, in Spagna. Ho lasciato l’Argentina dopo la grave crisi del 2001, ho provato a reggere per tre anni: le cose stavano iniziando a migliorare un po’ quando me ne sono andato ma la situazione che si viveva era ancora disastrosa, non permetteva quasi di vivere. Comprendo molto bene ciò che prova Diego e per tale ragione ci tengo a difendere la storia raccontata, con tutte le sue ombre e contraddizioni.

Diego prova a trasferirsi negli USA ma le sue origini sono un problema. Entrambi provenite dal Sud America: sono mai state le tue origini un problema?

No, non direi: in Spagna mi hanno sempre trattato molto bene. Sì, ci sono stati dei momenti in cui ho vissuto sottili forme di discriminazione ma sono poca roba rispetto a quella che vivono altri. Sono un argentino dalla carnagione chiara, sono alto 1 metro e 85: forse è stato questo ad aiutarmi a non vivere la discriminazione che per esempio vivono i ragazzi, soprattutto boliviani o peruviani, che lavorano nei cantieri edili.

Sono loro i veri eroi in questo caso: hanno una resistenza che pochi altri anni, sono molto laboriosi e volenterosi ma subiscono a causa dei loro tratti più marcati una discriminazione razziale più forte. Io vengo invece quasi scambiato per europeo… Il passaporto argentino in Spagna è ben accetto, da anni c’è una relazione molto stretta tra i due Paesi ma, comunque, sì, è capitato anche a me di lavorare 72 ore alla settimana in un bar sotto pagato. E in quel caso ho avvertito la discriminazione.

Il poster italiano del film Upon Entry.
Il poster italiano del film Upon Entry.

Perché secondo te il mondo ha bisogno di rimarcare le differenze tra paesi più fortunati e altri meno?

Non è una necessità ma una conseguenza degli equilibri di potere e di chi lo gestisce. In fin dei conti, le società sono vittime delle decisioni di chi prende il potere. Questo è detenuto nelle mani di uno sparuto gruppo di individui, solitamente sono i proprietari delle multinazionali e i presidenti in carica di un Paese (e spesso i secondi sono burattini nelle mani dei primi), ma tutti quanti ne subiamo le conseguenze.

Il problema in Venezuela non è generato dalla gente: ciò che il popolo venezuelano sta scontando è la pena derivante dal rifiuto di chi detiene il potere di accettare tutte le condizioni imposte dagli USA. Quasi tutta la storia dell’America Latina è sempre stata distorta e condizionata dalla volontà o dalle esigenze che gli Stati Uniti cercano di imporre attraverso la loro politica internazionale.

L’interrogatorio al centro del film Upon Entry è costruito come un thriller. Quali sono le difficoltà di affrontare un film tutto parlato in cui ogni emozione deve trasparire dal proprio volto?

Sin dal primo momento non ho incontrato particolari difficoltà: la sceneggiatura era ben scritta ed era già tutto sulla carta. Quando l’ho letta, sono rimasto molto sorpreso dalla sua linearità: non c’erano trucchi, salti nel vuoto, trabocchetti o effetti speciali. Era la sceneggiatura di un film che avrebbe parlato di una situazione molto realistica: tutto ciò che accade, inoltre, è basato su fatti reali, su eventi occorsi ai registi o ai loro amici. Non c’era bisogno di improvvisare o di aggiungere nulla: di mio, ho aggiunto solo una frase che ai registi è piaciuta molto.

Partire da una sceneggiatura così solida mi ha dato enorme tranquillità. Dovevo solo pensare a rendere Diego, il mio personaggio, il più complesso e umano possibile. Forse la difficoltà maggiore consisteva proprio nell’entrare in una caratterizzazione psicologica lontana dalla mia: mi sono allora ispirato a due miei amici che mi sono venuti in mente mentre leggevo il copione e ho rubato loro delle cose, soprattutto quei tic a cui faccio ricorso per riempire i silenzi.

Quando appronto un personaggio, mi chiedo sempre quale sia la sua personalità. Per Diego, il motore di tutto è la paura: è abbastanza insicuro e infantile, gli costa far fronte ai propri errori e passi falsi. Non sa gestire i rapporti sociali, se la cava meglio nelle relazioni “uno a uno”. È anche un po’ claustrofobico, prova anche a resistere e a mantenere un certo temperamento fino a quando improvvisamente comincia a sgonfiarsi, si spaventa persino della sua stessa reazione e ritorna a quel pensiero per cui in certe circostanze è forse meglio parlare poco.

Il silenzio diventa essenziale: qualsiasi cosa detta potrebbe essere usata contro di lui ed è questo che negli spettatori arriva a sollevare persino qualche dubbio sulla sua buona fede, su ciò che ha fatto e sul perché fa ciò che fa. Ci si chiede perché ad esempio impieghi tempo a rispondere a una semplice domanda: nella sua testa, pensa continuamente a cosa gli conviene rispondere per non accrescere i sospetti e le insinuazioni.

UPON ENTRY: CLIP IN ESCLUSIVA

Diego ed Elena sono evidentemente vittime di un abuso di potere. Cos’è per te un abuso di potere?

Abuso di potere è costringere una persona a entrare in un luogo in cui non vuole entrare. Non mi riferisco solo a uno spazio fisico ma anche a uno interiore. Le leggi spesso sfiorano l’abuso di potere, sono necessarie per la convivenza in società ma pongono limiti alla libertà. Diego ed Elena sono alla dogana di un aeroporto, in una specie di limbo: hanno messo piede sul suo americano ma non sono ancora legalmente negli USA.

È come se fossero in nessun Paese, in un luogo in cui non si possono nemmeno applicare i diritti internazionali: non viene data loro dell’acqua, a Elena rubano letteralmente l’insulina di cui ha bisogno per il suo diabete, viene violata la loro privacy requisendo le password di smartphone e pc… vengono costretti a dare informazioni che non dovrebbero dare solo perché chi le richiede è protetto dalla propria legge. E, per esperienza personale, so quali sono gli effetti di un abuso di potere.

Perché chi detiene il potere, secondo te, dimentica il significato della parola ‘umanità’?

Il potere è pericoloso. Credo che generi effetti pari a quelli che hanno la droga o l’alcool. Accumulare troppo denaro o potere equivale ad accumulare spazzatura: ti marcisce il cuore, l’empatia e i sentimenti, per favorire l’egolatria, l’egoismo e il cinismo.

Devi essere molto preparato e controllato per gestire il potere per evitare che una pistola finisca nelle mani di un idiota che in mezzo alla strada blocca un uomo con le ginocchia e lo soffoca. Quell’idiota era un poliziotto degli Stati Uniti che, con porto d'armi e distintivo in regola, teoricamente avrebbe dovuto proteggere la società, senza distinzione alcuna. Ecco perché credo che viviamo in un mondo in cui il potere sia mal distribuito e, soprattutto, mal gestito: occorrerebbero più controllo, istruzione, cura psicologica e limiti da rispettare per i “potenti”.

Cosa significa per te recitare? E, soprattutto, cosa insegni agli allievi che frequentano la tua scuola di recitazione a Madrid?

Recitare per me vuol dire tante cose insieme. Tuttavia, in ordine di priorità, ritengo che attori e attrici siano uno strumento per raccontare la storia di altri esseri umani. La mia storia non interessa a nessuno o, meglio, può interessare a qualcuno in un’intervista o a qualche fan ma nessuno pagherebbe il prezzo di un biglietto per vedere la mia vita al cinema.

Chiaramente, dobbiamo fare i conti con il nostro ego (non faremmo altrimenti questo lavoro) per capire che la cosa più importante è raccontare storie che non siano le proprie. Occorre fare un lavoro profondo per lasciarsi alle spalle se stessi e mettere il proprio corpo, la propria voce e il proprio modo di pensare al loro servizio. So che è molto difficile e anche me costa farlo. Ma, quando vado a teatro, di vedere qualcuno che mostra quanto bene sappia piangere in scena o come riesca a modulare la propria voce non mi interessa molto. Solitamente, quando accade, mi alzo e me ne vado: a me interessa la storia del personaggio e non gli sprazzi di chi è in scena, che nel mio caso generano nient’altro che repulsione.

Per fare questo lavoro non è importante solo la tecnica ma anche l’osservazione dell’umanità intorno. L’autoconoscenza è importantissima: è necessario conoscere lo strumento che si ha a disposizione per esprimersi e per raccontare: passa una bella differenza tra una Fiat 600 e una Ferrari. Un attore deve conoscersi, capire quali sono i propri limiti, familiarizzarci e rispettarli profondamente, per poi appoggiarsi a ciò che gli riesce bene e cercare di ampliare i propri confini.

Upon Entry: Le foto del film

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Ti stiamo vedendo anche in Griselda. Com’è stato calarsi nei panni di Alberto Blanco? Come si differenzia il tuo lavoro tra un film e una serie tv?

Quella in Griselda è una partecipazione speciale: sono solo in un episodio e non mi è servito molto tempo per prepararmi al ruolo. Conosco il mondo dei narcos per aver preso parte alle serie tv Narcos e Narcos: Mexico, è qualcosa che riesco a gestire prontamente anche se con sfumature diverse. Chiaramente, Alberto Blanco non era né il Pacho Herrera che interpretavo in Narcos né l’Eduardo Garcia che ho impersonato nel film francese Overdose ma il mio lavoro è stato facilitato dal conoscere tutto il team creativo dietro Griselda, dal regista al produttore (gli stessi di Narcos): è stato come ritornare in mezzo a un gruppo di amici per lavorare con loro e divertirmi in condizioni per un attore meravigliose.

Essendo Griselda una produzione enorme, c’era molto più tempo a disposizione, molte più comodità e la possibilità di provare prima delle riprese. Non si correva come matti per i tempi ristretti, come accade invece nella realizzazione di un film indipendente o di prodotti più piccoli. È stata un’esperienza molto piacevole e tranquilla: non dovevo far molto (ride, ndr). Tuttavia, di mio, cerco di affrontare tutti i lavori sempre allo stesso modo e con lo stesso impegno: certo, sono sempre un essere umano e come tale ho i miei giorni “no”, che possono essere causati da problemi personali, litigi, stress, preoccupazioni varie, stati d’animo… provo a non farmi influenzare ma non c’è nulla di male nell’ammettere di venirne influenzati.

Se avessi la possibilità di tornare indietro, cosa diresti a quel giovane attore che eri e che si apprestava a esordire nel film, cult, Cella 211?

Lo guarderei con un sorriso e gli direi “Va tutto bene, continua per la tua strada senza cambiar nulla: anche gli errori fanno parte dell’apprendimento”. Quando riguardo i miei primi lavori, noto le difficoltà che avevo come attore ma ero chiaramente più giovane e inesperto. Mi viene naturale pensare che forse avrei potuto fare diversamente ma poi sorrido: mi emoziono. Non cambierei nulla di tutto ciò che ho fatto: è stato parte di quello che mi ha condotto fino a qui.

Alberto Ammann in Griselda.
Alberto Ammann in Griselda.
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