Alberto Boubakar Malanchino presenterà insieme a Matilda De Angelis i Diversity Media Awards in programma il prossimo 21 giugno al Teatro Lirico di Milano (qui i biglietti ancora disponibili per la serata) e in onda su Rai 1 in seconda serata il 1° luglio. Come ogni anni, i Diversity Media Awards premieranno personaggi e contenuti che si sono distinti per una rappresentazione valorizzante delle persone su temi di genere, orientamento sessuale e affettivo, età e generazioni, etnia, disabilità, aspetto fisico.
Per Alberto Boubakar Malanchino si tratta di un compito del tutto nuovo. Abituato ai palcoscenici per il suo lavoro di attore, per la prima volta dovrà cementarsi con la conduzione e la presentazione, una sfida che, come ci dirà nel corso di quest’intervista esclusiva, lo rende felice per vari motivi.
Approfittando dell’evento, con Alberto Boubakar Malanchino ci siamo confrontati con le due parole chiave che da sempre segnato il lavoro di Diversity: diversità e inclusione. Il nostro è un dialogo sempre più concentrico che, partendo dal generale, si restringe sempre più arrivando all’Alberto Boubakar Malanchino e alla sua esperienza personale di italiano nero cresciuto nella periferia milanese.
Su un concetto Alberto Boubakar Malanchino non ha dubbi: non è il colore della pelle a forgiare la tua identità ma il tuo pensiero, frutto del contesto socio-culturale in cui sei cresciuto. Anche se non nega come il colore della sua pelle abbia influito sul suo percorso lavorativo in un settore in cui si sente ancora la necessità di mettere dei paletti o di dover spiegare qualcosa che non ha nulla di difficile da comprendere. Ragione per cui non può che ritenersi soddisfatto delle esperienze in prodotti come le serie tv Netflix Summertime o Guida astrologica per cuori infranti o il cortometraggio Il Moro: gli hanno permesso di interpretare storie in cui non c’era bisogno di inserire un background legato all’Africa.
Intervista esclusiva ad Alberto Boubakar Malanchino
“Sono sul set in questo momento. Non posso dire ancora quale perché c’è un embargo ma è un grande progetto internazionale in cui interpreto un piccolo ruolo: sono molto felice di farne parte”, mi risponde Alberto Boubakar Malanchino dopo i rituali “come stai?” di turno.
Sarai il presentatore della serata dei Diversity Media Awards. Cosa hai provato nel momento in cui Diversity ti ha contattato per comunicarti che aveva pensato a te per quel ruolo?
Mi ha fatto molto piacere. Intanto perché, comunque, quella di Diversity è una realtà che conosco da un po’ di tempo: la seguo a livello virtuale da quando me ne hanno parlato. Non mi aspettavo di essere scelto come presentatore ma l’idea di stare sul palco accanto a Matilda De Angelis, una persona che conosco e che stimo, non può che darmi una grandissima gioia.
E come ti stai preparando al ruolo?
Sto cercando di non farmi influenzare da nessun altro dei presentatori che è salito su quel palco. Ma non per uno questione di disistima o altro: credo semmai che ognuno debba portare un po’ della sua energia e delle proprie caratteristiche. Per me, sarà una sfida interessante e molto divertendo: sono abituato da anni a stare su un palco ma come attore e non come presentatore. Per la prima volta, non sarò al servizio di un personaggio da interpretare ma dovrò fare da ponte con gli altri, presentare e intrattenere il pubblico. L’esperienza mi farà vedere e vivere il palco sotto una luce diversa.
I Diversity Media Awards premiano coloro che nell’ultimo anno si sono contraddistinti nel trattamento degli argomenti legati alla diversity and inclusion. Cosa sono per te diversità e inclusione?
Sono l’esatto opposto di integrare o fagocitare all’interno, comunque, di una situazione già precostituita degli elementi. L’aspetto bello della diversità e dell’inclusione è quello di riuscire a prendere delle persone e di metterle anche al centro dei discorsi e darvi anche del potere, nel senso più positivo del termine, per riuscire a essere se stesse e a portare il loro valore aggiunto all’interno di una situazione che magari è più omogenea.
Integrare vuol dire sempre avere a che fare con una minoranza che deve in qualche modo fare i conti con una maggioranza: ciò non crea un vero punto di contatto. E, a proposito di punti di contatto, vedo intorno a me molti problemi soprattutto per quanto concerne situazioni nuove, a volte anche delicate o a volte semplicemente mal raccontate. Il gancio principale tra le persone dovrebbe essere quello empatico e non quello distruttivo.
Che peso hanno invece avuto le due parole nel vocabolario della tua vita e del tuo percorso?
Sono un ragazzo italiano, nato in Italia da un papà italiano e da una madre originaria del Burkina Faso. Ho affrontato e affronto tutt’ora in modo molto fiero il fatto di essere un ragazzo italiano che a volte si scontra con il suo non essere riconosciuto tale perché a livello visivo non c’è un match tra quelle che sono le sue caratteristiche fisiche di persona comunque nera e quello che è il suo background culturale.
E qui aprirei anche una parentesi molto importante: penso che a contribuire all’identità di una persona sia il pensiero e che nel pensiero c’è un modo di pensare, ragionare, vivere, cucinare e respirare, che non ha nulla a che fare con il sangue, con il colore della pelle e con le forme del corpo.
Mi sono tante volte trovato, anche a livello lavorativo, in situazioni in cui il colore della mia pelle poteva essere limitante o penalizzante rispetto a certi tipi di ruoli che ad altri invece andavano bene. Ma il problema in quei casi sta alla base, ovvero nel come vengono raccontate le storie o nella loro stereotipizzazione (certe storie sono le uniche che si possono raccontare?).
Non hai avvertito nessun cambiamento negli anni?
Nel mio caso, ho notato una piccola evoluzione: sono partito da un grado zero, se non addirittura -4, per poi cominciare ad avere sempre più spazi e possibilità. Ma è una strada estremamente lunga: si fanno due passi avanti e tre indietro, si riesce a percorrerla con molta, molta fatica. Sarebbe sempre più auspicabile che all’interno delle stanze dei bottoni ci siano persone di diverse estrazioni che abbiano una visione più eterogenea di quello che succede e delle molteplici visioni in gioco: solo così si può arrivare anche a una sintesi della società reale, qualcosa che in questo momento ancora manca.
Diversity sta portando avanti la sua battaglia anche in quel senso lì, realizzando laboratori dedicati ad esempio al doppiaggio.
Pratico doppiaggio da diversi anni. Sono partito per farlo da una regolare gavetta, ho frequentato dei corsi di formazione e ho studiato in un’accademia. Mi piacerebbe dunque spezzare una lancia in favore di un mondo di cui a volte si ha una conoscenza molto limitata. Non penso che all’interno del sistema del doppiaggio italiano ci siano delle realtà che limitino le minoranze (parola che odio tanto). Credo che, semmai, alla base dei problemi di rappresentazione ci sia la mancanza di professionisti che, appartenenti alle minoranze, si formano e si specializzano nel doppiaggio.
Il doppiaggio è una specializzazione e come tale prevede un percorso di studi: bisognerebbe sin dalle scuole elementari o medie iniziare un processo di sensibilizzazione che invogli le persone di diverso colore, di diversa etnia o di diversa identità, a non essere recitate in lavori non artistici. Bisognerebbe dare a tutti la possibilità di scoprire cos’è il mestiere dell’attore, del doppiatore e così via. Mi sono diplomato alla Paolo Grassi nel 2016 e sono stato l’unica persona nera che ho incontrato in quella scuola. Quindi, è un problema più che altro numerico che va a scontrarsi con altre problematiche legate al settore (oggi assistiamo alla presenza di doppiatori che iniziano a lavorare dopo un corso di un paio di mesi).
Per quanto riguarda poi il doppiaggio italiano vero e proprio, dal mio punto di vista (e me ne assumo ogni responsabilità) sarebbe quasi denigratorio far doppiare i neri solo dai neri e i bianchi solo dai bianchi. Io vorrei un mondo in cui ci fossero attori neri che doppiano chiunque basandosi solo sul loro timbro vocale: non occorre riscrivere la nostra storia ma progredire con la nostra storia e migliorarla per il nostro futuro e ricordarci che abbiamo un’identità che è comunque italiana e con un altro tipo di background con quella americana. Si fanno spesso tanti parallelismi con gli Stati Uniti, dimenticandoci che noi italiani con abbiamo il loro stesso substrato artistico e sociale.
Prima di concentrarsi sul doppiaggio, sarebbe molto più interessante chiedersi perché in Italia ci sono poche persone nere o asiatiche che provano ad accedere a un’accademia.
Sei cresciuto nella periferia milanese e non in una grande città…
Rispetto alla differenza tra periferia e città si aprono grandi voragini e discorsi potenzialmente molto lunghi. Vengo dall’hinterland milanese ma sono comunque nato negli anni Novanta e l’hinterland di ieri non era quello di oggi. Mi sono spostato a Milano una decina di anni fa e sicuramente ho visto delle grandi differenze. Milano è una città cosmopolita, più aperta ma anche molto più classista, in cui si incontrano persone provenienti da tutto il mondo e in cui, se non guadagni, non conti. All’inizio non è stato facile: tocca a noi capire dove si può provare a ricavare del bene dalle esperienze di vita che ci si presentano e che ci si pongono davanti. Quindi, non è che la periferia è cattiva e la città è bellissima: ci sono lati positivi e lati negativi da una parte e dall’altra.
La mia osservazione nasceva dal desiderio di capire come avevi vissuto in periferia il colore della tua pelle.
Quando si è piccoli, si ha anche meno percezione di quello che sta succedendo. È solo crescendo che si comincia a porsi delle domande rispetto alle cose che si sono affrontate, che hai visto o che hai subito. Quando hai undici o dodici anni, a livello sociale, non vieni percepito come una minaccia: è diventando più grandi che cambia la tua percezione agli occhi degli altri, che cominciano a guardarti come a un potenziale pericolo.
Ciò è frutto di una cattiva informazione che è frutto sia dei mass media sia dall’assenza di conoscenza, incontro e dialogo: si creano così delle zone d’ombra che vengono sopperite o compensate dai luoghi comuni. Ancora oggi, nel 2023, quando sento parlare di Africa, sento parlarne come un grande villaggio globale dove tutti si vogliono bene e ballano ma in cui c’è la fame. È un’immagine difficile da estirpare: nessuno dice ad esempio che la Nigeria è il secondo stato al mondo per quanto concerne la produzione di film. Nessuno menziona mai tutta un’altra serie di dinamiche virtuose in essere, tendendo a fare di tutto il continente un grandissimo calderone.
C’è questa presa di posizione che porta a pensare all’Italia come a un grande monolite dove le persone, rispetto al discorso identitario, sono tutte bianche e, quindi, se non sei bianco non sei italiano. Questa è una componente che in una grande città si avverte molto meno: le città come Milano sono investite da una fiumana di persone provenienti da tutto il mondo e, piaccia o no, si fanno sempre i conti con l’altro.
In termini di rappresentazione, quanto è stato importante per te, attore, interpretare dei personaggi che si allontanavano dal classico cliché della persona nera?
È stato fondamentale, così come fondamentale è per tante colleghe e tanti colleghi che hanno una situazione simile o analoga alla mia. Come artisti e interpreti, ci troviamo in una realtà in cui il colore della pelle viene spesso e volentieri visto ancora come qualcosa che va in qualche modo a definire la linea del personaggio che interpretiamo, come qualcosa che deve essere raccontata o giustificata. Nei casi di Summertime o Guida astrologica per cuori infranti, non è invece successo. Produttor*, regist* e sceneggiator* si sono presi delle responsabilità interessanti: erano prodotti sì per l’estero ma made in Italy, dove c’è la tendenza a definire i personaggi a partire dal colore.
Ecco, noi non siamo il nostro colore: ci possiamo identificare in esso ma spetta a noi deciderlo e non è una scelta che deve essere sempre posta al centro dell’attenzione dei racconti. Sembra scontata come osservazione ma purtroppo non lo è. Spesso e volentieri ci ritroviamo, tutti coloro che abbiamo discendenze altre dalle italiane, ad avere basse possibilità di accaparrarci dei ruoli che non siano legati per esempio a un discorso sull’Africa in generale o a sostenere dei provini: saremmo felici di giocarcela ad armi pari, pazienza se poi non otteniamo il ruolo.
I ruoli per interpretare un ragazzo o una ragazza italiana per noi sono pochi. E anche quando ci sono non si riesce a passare nemmeno il primo step. Rispetto a dieci anni fa c’è sì meno chiusura ma occorrerebbe capire fino a che punto ci si spinga con l’apertura. Per questo, sono ad esempio molto contento di aver girato da protagonista un cortometraggio diretto una regista molto brava, Daphne Di Cinto (la duchessa di Hastings della serie tv Netflix Bridgerton, ndr), Il Moro.
Racconta la storia di Alessandro de’ Medici, il primo duca di Firenze, che era, con molta probabilità, un ragazzo mixed race (gli affreschi non lasciano spazio ad altri tipi di intuizioni e i libri di storia sono pieni di spiegazioni della sua ascendenza). Con questo nessuno vuol dire che la maggioranza della storia italiana non sia stata fatta da bianchi: tuttavia, sarebbe paradossale dire il contrario e negare l’esistenza di italiani non bianchi.
Come io ho prestato il volto ad Alessandro de’ Medici, non vedo perché un’attrice o un attore di altro colore non possa interpretare un avvocato, un dottore o qualsiasi altra cosa senza dover necessariamente ritornare al discorso della primigenia della pelle. Le storie esistono e possono essere raccontate.
Senza sollevare ogni volta un polverone di critiche…
Sarebbe interessante di fronte a certi prodotti capire qual è la reazione dei bambini più piccoli. Chi è più adulto si porta dietro dei bias socio-culturali che entrano in gioco quando vede rappresentazioni diverse da sé. Lo vedo anche con me stesso. Ma, se oggi avessi quattro anni e vedessi un film dove c’è più inclusione (senza che si degeneri nell’assurdità), come la prenderei? Sicuramente come un dato di fatto e mi andrebbe comunque bene. Occorre capire anche come si vive e come ci si crea i primi mattoncini della propria memoria.
Nel tuo personale percorso, ti senti incluso?
Non siamo neanche al primo passo: ci sono ancora 60 mila inciampi diversi da superare. Non mi piace parlare molto di me o mettermi al centro dei discorsi di questo tipo perché le problematiche sono molto più verticali. Però, mi fa sorridere come spesso e volentieri sbagliano ancora il mio nome: Alberto Boubakar.
Mi faccio chiamare Alberto da chiunque perché sono italiano e ci sto bene col mio nome ma, se ci penso, ogni due per tre un critico o un giornalista sbaglia il mio nome completo o dà per scontato che Boubakar sia il mio cognome. Può sembrare una cavolata ma denota già il fatto di non avere un grande interesse nel cercare di capire chi è l’altro: è una riflessione sciocca ma come tutte quelle che lo sono di porta dietro delle grandi verità sotto.
Quei due miei nomi sono quelli dei miei due nonni, quello italiano e quello burkinabé, rendono omaggio alle generazioni passate della mia famiglia e ne sono contento. Sarebbe bello avere sempre attenzione sui nomi: si portano dietro anche delle responsabilità, dei pesi e delle bellezze che sono appartenuti anche ad altre persone. Nel mio nome, si può leggere la mappatura del mio percorso di vita anche culturale: sono figlio dell’Italia senza rinnegare la mia componente burkinabé. Sono un italiano nero ma non ho nulla contro il Burkina Faso: è una terra che amo, la terra di mia madre. Potrei anche definirmi italo-burkinabé ma sono consapevole di come il mio mindset sia italiano: il posto in cui si nasce e si cresce determina l’identità di una persona, come dicevamo prima.
E hai anche un terzo nome “non ufficiale” che ti è stato dato alla nascita. Cosa vuol dire?
“Dono di Dio”.