Nella serie tv Il metodo Fenoglio, in onda da lunedì 27 novembre in prima serata su Rai 1, Alessandro Carbonara interpreta il ruolo di Grandolfo, un agente della squadra del commissario Fenoglio che si ritrova a indagare su alcuni incresciosi e drammatici episodi che interessano la città di Bari nel 1991. Per la prima volta, da barese, Alessandro Carbonara si ritrova a girare nella sua città e a raccontare di fatti e atmosfere che ben ricorda: nel 1991, era un bambino quando intorno a sé la criminalità si faceva sentire per le strade, rendendolo testimone diretto di quanto oggi si ritrova a raccontare per esigenze di fiction.
La serie tv Il metodo Fenoglio è solo uno dei tanti titoli a cui Alessandro Carbonara ha preso parte tra televisione, cinema e teatro. Lo rivedremo presto ad esempio nella serie tv Alfredino – Una storia italiana ma lo abbiamo visto anche al cinema in Esterno notte, nella sottovalutata Noi di Luca Ribuoli e in progetti come Non dirlo al mio capo, Squadra Antimafia e I May Destroy You, esperienza statunitense che non è mai andato a sbandierare ai quattro venti.
Ed è da quest’ultimo dettaglio che possiamo capire che tipo di attore sia Alessandro Carbonara: uno che ai titoli e alle copertine patinate preferisce l’esperienza, il fare e il mettersi costantemente in discussione. L’analisi che ha fatto su se stesso negli anni lo ha portato a modificare il suo approccio a un lavoro che ti richiede in contaminazione di rimettere in gioco le tue emozioni e la tua sensibilità.
Abbiamo deciso allora di affrontare quest’intervista con Alessandro Carbonara partendo da zero appigli e lasciandoci guidare dal flusso di input che nascevano sul momento. Abbiamo così scoperto le sue origini, i suoi primi passi, la sua voglia di sfruttare la sua notorietà per portare un messaggio e il suo impegno nei confronti di temi a lui molto cari.
Intervista esclusiva ad Alessandro Carbonara
Ti ritroviamo tra i protagonisti della serie tv Il metodo Fenoglio. Chi è il tuo Roberto Grandolfo?
Grandolfo è uno dei collaboratori che insieme al maresciallo Fenoglio indagano sulle vicende che accadono nella Bari dei primi anni Novanta legate alla nascita di una nuova criminalità organizzata. Fa parte del nucleo operativo formato da Fenoglio (Alessio Boni), Pellecchia (Paolo Sassanelli) e Montemurro (Francesco Centorame), e con Pellecchia forma una coppia molto simpatica.
È cresciuto come un classico ragazzo del sud di quegli anni, una progettualità di vita che segue determinati canoni del periodo: una fidanzata con cui sta per sposarsi e un posto fisso nell’arma dei carabinieri. A parte ciò, è una persona molto di cuore, che crede nella giustizia e che desidera dare il suo contributo per la società quando la lotta contro la criminalità prende una piega imprevista. È inoltre un compagnone, allegro e socievole.
La serie tv Il metodo Fenoglio è ambientata a Bari, la città in cui sei nato e cresciuto.
Lavorare nella città in cui sei vissuto, hai iniziato a studiare, hai mosso i primi passi e in cui dicevano che eri folle perché volevi fare l’attore, cambia la prospettiva che gli altri hanno di te. Vederti in televisione accanto a dei mostri sacri come può essere Alessio Boni si trasforma in motivo di orgoglio per tutti quanti: uno di noi porta in alto la nostra bandiera. C’è un netto ribaltamento tra quello che si pensava prima e ciò che si pensa ora.
Per me è stato molto particolare anche per un altro motivo. Sono nato nella Bari vecchia, dove abbiamo girato per raccontare di argomenti che in qualche modo avevo vissuto: è stato quasi un tuffo nel passato. Vuoi o non vuoi, certe realtà pur non vivendole direttamente le percepivi sulla pelle. La storia è ambientata nel 1991, quando avevo all’incirca nove o dieci anni e si sparava ancora per strada. Non si poteva nemmeno scendere in strada a giocare a nascondino, tanti erano i pericoli a cui si poteva andare incontro: ero un bambino ma è come se anni sulle spalle ne avessi avuti molti di più di quelli effettivi. I miei genitori mi tutelavano sotto ogni aspetto: bastava un attimo per perdersi.
Quando leggevamo le sceneggiature della serie tv e si facevano osservazioni sui comportamenti delle personaggi appartenenti alla criminalità, in me si accendevano ricordi e aneddoti: era pane per i miei denti, avrei potuto scrivere io, se ne fossi stato capace, le storie per quanto rappresentavano la “normalità” che avevo vissuto.
Tra l’altro, è stata la prima volta che hai recitato in Puglia.
È vero. Per assurdo ho lavorato in tantissimi progetti ma non mi era mai capitato di lavorare nella mia terra, sebbene negli ultimi anni sia molto gettonata a livello cinematografico. Ho girato a Palermo, a Trapani, a Catania o a Milano, ma mai in Puglia. È stato per me come un ritorno alle origini: ho fatto un bel viaggio, sono andato via per studiare, mi sono formato e sono tornato per portare ciò nel frattempo sono diventato. Mi piace anche sottolinearlo perché è un messaggio che vorrei trasmettere anche alle giovani leve: nella vita si può realizzare tutto, basta volerlo e non pensare che la vita sia limitata alla realtà che in un particolare momento stiamo vivendo.
Il metodo Fenoglio: Alessandro Carbonara
1 / 3Si chiama anche autoderminazione, se vogliamo. E l’autodeterminazione è importante per chi sceglie di fare un lavoro come quello dell’attore soggetto sempre a variabili e scelte che non dipendono da te.
Faccio meditazione da dieci anni e, grazie alla meditazione, ho iniziato un percorso di crescita personale che è basato sull’energia, sulla respirazione sul far manifestare quello che vuoi veramente che l’universo ti manifesti. Mi è cambiata totalmente la vita grazie a quella che chiamo legge dell’attrazione. Ho lavorato molto sull’ascoltare chi cosa, cosa voglio e come manifestarmi nella vita rispetto ai miei desideri.
A volte può sembrare assurdo ma sono pienamente cosciente e convinto che sia una connessione tra tutto. da quando ho cominciato a lavorarci, ho iniziato ad avere dei segni dall’esterno, anche negli aspetti più piccoli che mi riguardavano che andavano tutti in una direzione a favore anziché contro. Ho lavorato su me stesso per capire me ma anche per essere più empatico con gli altri, imparando a rapportarmi in maniera diversa e puntando al rispetto. Prima di addurre colpe e responsabilità a fattori esterni, dovremmo tutti quanti lavorare su noi ed evitare che monti quella rabbia che, estendendo i confini, è anche alla base dei conflitti che ancora oggi interessano il mondo.
Su Rai 2, dovrebbe andare in onda a breve Alfredino – Una storia italiana, la miniserie in due puntate in cui si racconta la tragica vicenda che ha visto protagonista il piccolo Alfredino Rampi e del cui cast fa parte. I fatti raccontati sono accaduti nel 1981, l’anno della tua nascita. È difficile raccontare una storia vera di cui non si ha esperienza diretta?
Lo è quanto può esserlo quando ti chiedono di interpretare un serial killer, dubito che qualche attore abbia mai ucciso veramente per calarsi nei suoi panni (ride, ndr). Cerco di svuotarmi di qualsiasi pensiero o giudizio sul personaggio per avere un approccio empatico al suo stato emotivo. Provo a vivere la sua realtà come la vivrebbe lui ma trovando delle similitudini emotive nella mia vita: mi aiutano a riconoscere le emozioni e gli stati d’animo.
Nel caso di Alfredino il tutto è stato reso più semplice da un espediente scenico: è stato ricostruito un pozzo molto profondo che restituiva l’idea di quello che avrà potuto vivere il povero Alfredino. Quando abbiamo girato di notte e al freddo, mi sono immaginato un bambino che poteva essere mio figlio incastrato in fondo al pozzo in fin di vita e mi si chiudeva lo stomaco per la disperazione atavica che mi sorgeva dentro, insita in chiunque abbia anche una minima sensibilità.
Un attore è chiamato a mettere da parte il proprio ego perché è un limite: quando si lavora su un personaggio, si diventa il personaggio stesso. Ragione per cui spesso si fatica ad uscire da un ruolo molto più grande di te e dalle emozioni che non riconosci.
Quando hai cominciato a far l’attore?
Nel 2002 ho cominciato a far teatro. Avevo all’incirca vent’anni ma mi sono avvicinato alla recitazione per puro caso due anni prima. Ero interessato a iscrivermi a un corso per speaker radiofonico: quand’ero piccolo, mi mettevo davanti alla tv a imitare i presentatori e mi piacevano i programmi musicali tanto quando la musica. Mentre ero in sala d’attesa, ho notato alcune persone intente a far qualcosa che non capivo e ho chiesto al tipo che era in segreteria cosa stessero facendo: “Un corso di recitazione”, fu la risposta.
Ho chiesto allora se potessi assistere a una lezione, alla fine della quale avevo cambiato idea e proposito: non più il corso che avevo in mente ma quello di recitazione è diventato il mio obiettivo. Qualche tempo dopo ha arrivata a Bari la scuola di musical aperta da Franco Miseria, con insegnanti che venivano da Roma le cui lezioni venivano riprese dalle telecamere per andare in onda sulle tv locali, una sorta di Amici di Maria de Filippi ante litteram. Entrai nella scuola come attore e ci sono rimasto per quasi due anni, durante i quali la mia passione per la recitazione veniva fomentata dagli apprezzamenti che ricevevo.
Sono stati quei complimenti a portarmi a cercare altro finita quell’esperienza. Informandomi, ho così scoperto che a Roma c’era il Centro Sperimentale di Cinematografia. Sono andato a fare i provini con un amico e, come spesso accade, lui è stato preso mentre io no. Ho deciso però di trasferirmi ugualmente a Roma con lui per cominciare a studiare nella scuola di Gisella Burinato, il CIAPA, cominciando pian piano con i primi spettacoli.
Spettacoli che pian piano ti hanno portato anche a recitare nella serie tv HBO I may destroy you.
Tutte le volte che mi capita di confrontarmi con l’estero, ritrovo un approccio diverso al lavoro: senza voler sputare nel piatto dove mangio, è più professionale, meritocratico e serio del nostro. È stata un’esperienza molto bella e formativa, coronata dal vedere Micaela Coel al lavoro: una macchina da guerra dotata di straordinaria intelligenza e capacità. Sul set, aveva tutto sotto controllo e non perdeva di vista niente.
Del lavorare a contatto con gli americani mi sono portato appresso la determinazione: se vogliono qualcosa, si impegnano fino a quando non la ottengono. Per loro, non esiste il rimanere a casa in balia degli eventi o in attesa della chiamata che non arriva: semmai, scrivono, studiano, creano, tenendosi sempre in attività.
Si tratta di una lezione che ho appreso, motivo per cui quando non recito sto scrivendo una sceneggiatura e ho inciso anche una canzone per la colonna sonora per un documentario che si intitola Documento. Nel documentario, recito anche ed è stata anche questa un’esperienza molto interessante: conoscendo più me stesso e cosa mi sta a cuore, ho voglia di lavorare a progetti che portino un valore aggiunto anche agli altri. Ed è proprio per questo che ho anche coprodotto con un mio collega uno spettacolo che si chiama Chiudi gli occhi, tratto da un testo di Patrizia Zappa Mulas sulla storia di Ameneh Baharaminava, una ragazza iraniana sfigurata con l’acido dal ragazzo che si è rifiutata di sposare.
Sei anche nel cast di Dieci minuti, il nuovo film di Mariasole Tognazzi. Dopo l’exploit del film di Paola Cortellesi, pensi che ci sia più attenzione verso i film diretti da una donna?
Faccio mie le parole di Valeria Bruni Tedeschi pronunciate durante un incontro tenuto durante la Festa del Cinema di Roma in cui erano presenti anche Jasmine Trinca e Valeria Golino e si discuteva di cinema al femminile. Valeria Bruni Tedeschi è stata tutto il tempo catatonica fino a quando non ha esordito dicendo: “Scusate, ma io non avevo capito che questo era un incontro per parlare di cinema al femminile, altrimenti non sarei venuta. Non mi sento né uomo né donna nel mio lavoro: recito perché mi piace stare davanti alla macchina da presa e dirigo perché mi piace scrivere storie. Non penso in quei momenti se sono donna o uomo”.
Io non parlerei mai di cinema al femminile così come non si parla di cinema al maschile. Di sicuro, però, c’è che le donne faticano più degli uomini per avere credibilità e visibilità. Occorre dunque che anche gli uomini comincino a sostenere le donne, sia sul lavoro sia sulla lotta contro la violenza di genere, motivo per cui sabato 25 sono sceso anch’io in piazza a manifestare. Basta con i muri e le barriere: non è più una questione di uomini contro le donne. Facciamolo diventare semmai una questione di uomini e donne, che non duri solo due giorni per poi ritornare a com’era prima.
Possiamo estendere il ragionamento anche a ogni minoranza o gruppo sottorappresentato. Non si può avere paura dell’altro e considerarlo diverso solo perché non se ne condivide l’esperienza. È una questione di rispetto, in primis, per la sensibilità altrui. Non potrei mai vivere circondato di persone che non hanno questa apertura mentale e culturale. E anche a livello artistico cerco di portare sempre un messaggio che tengo a cuore in tutto ciò che faccio: a volte, basta anche solo una maglia in un servizio fotografico per comunicare qualcosa.