Nel film Folle d’amore – Alda Merini, Alessandro Fella interpreta Giorgio Manganelli, figura cruciale e primo amore nella vita di Alda Merini, una delle più influenti poetesse italiane del XX secolo. Il suo ruolo è di fondamentale importanza per comprendere le origini della passione letteraria di Merini.
Nell'intervista esclusiva che ci ha concesso, Alessandro Fella si apre sulle sue esperienze, dal palcoscenico al set cinematografico, e ci porta dietro le quinte del suo processo creativo, dalle motivazioni personali che lo hanno spinto ad accettare un ruolo di supporto fino alle profonde riflessioni sul significato della recitazione e sul suo impatto emotivo.
Attraverso un viaggio nelle sue tecniche di preparazione al ruolo di Manganelli, la sua relazione con i personaggi che interpreta e le sue visioni sulla vita e sulla carriera, Alessandro Fella offre il suo sguardo esclusivo sull'arte della recitazione, vista dagli occhi di uno degli attori più promettenti del panorama italiano. Dal significato del suo lavoro alla ricerca della felicità, Alessandro Fella ci regala una narrazione profondamente personale e professionale, svelando l'essenza di ciò che significa vivere tra la realtà e la finzione sul grande schermo.
Intervista esclusiva ad Alessandro Fella
“Interpreto il primo amore di Alda Merini, il mio ruolo si consuma nei primi venti minuti del film”, esordisce Alessandro Fella nel commentare il personaggio di Giorgio Manganelli che interpreta in Folle d’amore – Alda Merini mentre è ancora impegnato a presentare in giro per l’Italia Il punto di rugiada, l’opera di Marco Risi di cui è protagonista e a cui è particolarmente legato e che è candidata al Globo d’Oro. “Sta continuando ancora a circolare e ne sono contento perché stiamo andando controcorrente affrontando tutti i vari ostacoli legati al fatto che soltanto ciò che fa numeri fa mercato”.
Partiamo da Giorgio Manganelli. Cosa ti ha spinto ad accettare un ruolo da non protagonista nonostante il percorso che nel frattempo hai fatto?
In un primo momento ero stato chiamato per fare un provino per il ruolo di Arnoldo Mondadori, prima che il regista Roberto Faenza provinasse Federico Cesari e scegliesse lui. È passato poi del tempo, ho girato il film di Marco e stavo girando Maria Corleone quando mi ha contatto la mia agente per dirmi che ero stato invece scelto per il ruolo di Manganelli, più piccolo ma decisamente importante per la vita di Alda Merini come ho scoperto dalla sceneggiatura.
Nonostante fosse un personaggio comprimario, ho deciso di accettarlo per varie ragioni. Innanzitutto, perché non esistono piccoli ruoli. Poi, perché avevo il desiderio di conoscere Faenza dal punto di vista registico. Dopo, perché avrei lavorato nuovamente al fianco di Rosa Diletta Rossi, con cui avevo appena terminato, appunto, Maria Corleone: pensavo inizialmente di dover girare nuovamente con lei non sapendo che il ruolo di Alda Merini da adolescente era stato affidato a Sofia D’Elia. E, infine, perché leggendo la sceneggiatura ho realizzato come effettivamente Manganelli avesse rappresentato un punto di svolta nella crescita di Alda, introducendola ai circoli letterari e segnando l’inizio della sua carriera da poetessa.
Quando si affronta un personaggio realmente esistito, è necessario portare avanti un lavoro diverso dal solito. Come ti sei preparato per il personaggio?
Mi sono immerso nelle ricerche, andando a ripescare tutto il materiale che si poteva trovare su Manganelli, compresa la sua analisi di Pinocchio, un libro a cui era molto affezionato. Ho studiato le varie biografie disponibili, tra cui una video in cui sua figlia parla di lui. Più mi avvicinavo al personaggio di Giorgio, più cominciavo a capire quanto distante da me fosse sia fisicamente sia psicologicamente. Ciò mi ha dato un’occasione in più per arricchire il mio bagaglio di esperienze e mettermi ulteriormente in gioco anche dal punto di vista fisico: mi sono divertito a lavorare sulla sua attitudine, sicuramente non vicina alla mia.
Alda Merini incontrò Manganelli quando era pressoché adolescente: tra i due intercorrevano dieci anni di differenza d’età.
Lavorare con Sofia è stato per molti versi anche curioso oltre che bello: nonostante la sua giovane età, Sofia è molto talentuosa e sa come stare su un set, si vede che è molto proiettata verso questo lavoro e che ci tiene molto alla professionalità. Nelle scene insieme, abbiamo cercato di fare un lavoro più verosimile possibile.
Nell’approfondire il personaggio, cosa ti ha affascinato di Manganelli?
La sua capacità di andare dentro le parole e ogni singolo concetto con un’immensa profondità. È stato uno di quei pensatori rari la cui concezione dell’amore molto riflessiva è stata messa in totale difficoltà da quella ragazzina che si è ritrovato davanti. Manganelli rimase affascinato dalla sua intelligenza e dai suoi modi prorompenti: il suo essere già donna senza alcun filtro lo folgorò così tanto da mettere a repentaglio la sua stessa quotidianità e sfera familiare fino a essere costretto a scappare via da lei.
Nelle scene che lo riguardano, c’è tutto un arco narrativo importante che, al di là del minutaggio, rende giustizia alla completezza e alla totalità del suo personaggio. Ragione per cui anche lo spettatore finisce per ricordarselo: non entra ed esce dalla storia senza alcuna ragione, è fondamentale per Alda ed è lì per un motivo specifico.
Ti ha colpito la lettura del Pinocchio di Manganelli. Pinocchio è noto per le sue bugie: che bugie racconta Alessandro Fella?
Quasi nessuna: dirle mi mette molto in difficoltà. Non riuscirei altrimenti a guardare negli occhi la persona con cui sto parlando: preferisco dire quello che penso e assumermi, nel bene o nel male, le mie responsabilità. Non sono mai stato né capace né bravo a raccontarle, forse qualche bugia bianca del tipo “stiamo andando in un bar” anziché rivelare di avere organizzato una festa a sorpresa. Ma al di là non sono mai andato: tradire o ferire qualcuno con una bugia non è mai stato nelle mie intenzioni o volontà.
Folle d'amore - Alda Merini: Le foto del film
1 / 34Eppure, recitare è un po’ come mentire.
È strano come meccanismo: è come se con un testo in mano, attivassi una parte del cervello che nella vita quotidiana si spegne. Riesco ad alienarmi dal resto ed entrare in ciò che in quel momento sto facendo, diventando la persona che sto raccontando. Tant’è che quando a comando mi chiedono di recitare qualcosa come se fossi un jukebox, non riesco a farlo: ho bisogno di essere immerso nella mia bolla lavorativa per mettermi in gioco.
Al di fuori dei provini, del set o del teatro, non riuscirei mai a restituirti la stessa prova e le stesse emozioni. Non so se si tratti di mentire, però: è vero che durante l’atto performativo non sono io Alessandro al centro ma è anche vero che cerco di metterci dentro della verità. Per me, non è mentire ma crederci. E non è la cosa più facile del mondo perché basta un attimo per perdere la concentrazione.
La recitazione nel tuo percorso di vita non è arrivata però presto…
Mi sono laureato in tutt’altro e ho iniziato molto tardi a lavorare come attore, per caso. Sono di Cinisello Balsamo e crescere in una realtà di provincia non è come farlo in una città che può offrirti teatri, musei, basiliche o altre forme di cultura e d’arte. C’è, quindi, molta distanza sul concetto di cultura intesa come intrattenimento tra i ragazzi che crescono in periferia e quelli che crescono in centro. Ho mosso i primi passi come attore solo perché a 22 o 23 anni, in palestra, incontrai Fabrizio, un ragazzo di cui diventai amico e che aveva fatto recitazione e lavorato con i Legnanesi.
All’epoca mi arrabattavo in mille altri lavori e lo invitai a una delle serate in uno dei locali per cui lavoravo come PR, definiamolo così. In quell’occasione, notò le mie abilità da ‘trascinatore’. Del resto, avevo lavorato già come animatore turistico, commesso da Zara e da Bershka, venditore di impianti fotovoltaici, barista, cameriere, runner agli eventi come la Milano Fashion Week per cento euro… Avevo fatto di tutto ma mi andava bene così fino a quando l’amico non mi disse che aveva pensato a me per una commedia che sarebbe andata in scena con i Legnanesi due settimane dopo.
Non avrei dovuto recitare ma prendere parte alle coreografie di movimento, quelle che servono per dare tempo agli attori di cambiarsi tra una scena e l’altra. La mia risposta fu un ‘no’, non ero mai entrato in un teatro nella mia vita e non me la sentivo nemmeno di fare da comparsa. Ma Fabrizio mi convinse: alla fine andai alle prove, mi presero e feci qualcosa come 90 spettacoli, girando tra i teatri più belli del Nord Italia: sei mesi di intenso lavoro, con tre o quattro repliche alla settimana e la doppia la domenica, mentre nel frattempo continuavo la mia attività per locali. Andavo a lavorare la sera con la matita ancora negli occhi: si finiva lo spettacolo a mezzanotte e, ovunque fossi, all’una ero già in centro a Milano. Per un po’ mi sono sdoppiato ma poi non ce l’ho fatta più.
E cosa è successo dopo?
Mentre facevo la tournée, lo stesso Fabrizio mi ha chiesto se mi fosse andato di provare a fare un corso di recitazione, c’era un laboratorio in Porta Romana che lo faceva e, dopo le prime ritrosie, mi sono fatto coinvolgere. Ed è stato l’assistente del coach del laboratorio che, dopo un paio di lezioni, mi ha suggerito di trovare un agente perché, secondo lui, potevo ‘funzionare’. Ed è cominciata così, con un’escalation che, dopo qualche pubblicità, mi ha portato poi tutti gli altri lavori.
Ho deciso comunque di laureami per rispetto dei miei genitori che comunque avevano investito su di me prima di studiare teatro per altri tre anni mentre nel frattempo a Roma mi avevano preso per una sitcom. In quel momento, avevo davanti a me due strade molto diverse: cavalcare l’onda della sitcom oppure sparire dai radar per studiare, diventare attore e acquisire maggiore credibilità. Ho scelto la seconda per evitare che la gente continuasse a vedermi, come accadeva allora, come il ragazzotto di Milano arrivato nella capitale. È solo dopo il diploma al Teatro Arsenale di Milano che mi sono trasferito in pianta stabile a Roma ma avevo già 27 anni…
L’escalation ti ha portato così sul set di Il Paradiso delle Signore.
Ho preso parte alle terza, quarta e quinta stagione nei panni di Federico Cattaneo, prima di voler fare altro. La scelta della soap poteva in quel momento sembrare azzardata, c’era il rischio che non mi scrollassi mai quell’etichetta di dosso, ma mi garantiva finalmente un’indipendenza economica che prima o poi mi sarebbe tornata utile per fare liberamente altre scelte più mie. Quella del Paradiso rimane tuttavia un’esperienza che non rinnego, di cui sono fiero e che a volte un po’ mi manca… su quel set ho imparato tantissimo, mi sono sentito protetto e ho avuto l’occasione drammaturgicamente di sperimentare di tutto. Ma i mio personaggio non aveva poi più molto da dire: avevo attraversato tutti i possibili traumi e le possibili felicità.
Uscendo dal Paradiso, sono stato in ballo per un altro progetto sempre per Rai 1 che non è andato in porto… per fortuna, aggiungo oggi, dato che dopo sono stato preso per Barbarians, la serie Netflix che mi ha portato in Polonia per quattro mesi di riprese e che mi ha allontanato completamente sia dalla televisione italiana sia dalle piattaforme italiane, aprendomi un altro mondo ancora. L’ultima settimana di riprese si è accavallata con le prime di Maria Corleone, l’inizio di un paio di lavori che si sono susseguiti uno dietro l’altro, tra cui Monterossi 2, Il punto di rugiada e la serie tv finlandese Last to Brake, in cui interpreto Giacomo Agostini, il vincitore di ben 15 campionati mondiali di motociclismo.
Hai fatto di tutto smarcandoti dall’etichetta di ‘attore televisivo’.
Sono contento del punto in cui sono arrivato, che mi permette di cimentarmi in ciò che mi piace, di viaggiare e di essere totalmente indipendente: sono un privilegiato a fare questo lavoro. Sto vivendo un periodo particolarmente felice ma è stata dura. Però, sì: in otto anni dal diploma all’Arsenale, ho veramente fatto una caterva di cose.
Lo dicevamo prima: cresciuto a Cinisello Balsamo, in una famiglia come tante altre. Com’è stato raccontare a chi ti conosceva che volevi fare l’attore?
Faccio una piccola premessa. Al di là della domanda, sono sempre molto felice di parlare di Cinisello Balsamo, dove di recente mi hanno anche dato una sorta di attestato di merito come cittadino, un riconoscimento per aver portato grazie al teatro, al cinema e alla serialità televisiva il nome del paese in giro per l’Italia e per l’Europa. Cinisello conta 80 mila abitanti, è comunque grande e mi piacerebbe attraverso il mio lavoro fare capire ai giovani del posto come la cultura intesa come intrattenimento rappresenti anche una possibilità lavorativa.
Spesso il ragazzo che è bravo a scrivere temi in terza media non sa nemmeno che un giorno potrebbe scrivere una sceneggiatura o una canzone, così come una ragazza che è creativa e a cui piace disegnare non sa che un giorno potrebbe diventare una scenografa o una costumista… Questo accade perché non si prende in considerazione tutto il parterre dei lavori che l’arte dell’intrattenimento offre, semplicemente perché non si conoscono e non esiste una scintilla che avvicini i ragazzi in modo moderno e accattivante a questo mondo. Mi piacerebbe dunque organizzare per loro un percorso di orientamento, mostrando tutto il ventaglio di opzioni che hanno a disposizione.
È qualcosa che ho sempre sognato di fare… mi sono sempre chiesto cosa sarebbe accaduto ad esempio a me se avessi scoperto prima la mia vera aspirazione. Molti giovani, finite le superiori, intraprendono un percorso universitario per cui non sono nemmeno portati solo perché lo ha scelto il compagno di banco o l’amico. Altri ancora decidono di fermarsi con lo studio e si perdono nel mitizzare figure sbagliate o dietro passatempi anche sbagliati: un’ora dedicata alla scrittura, alla danza o al teatro, è un’ora rubata al cazzeggio, alle canne e a tutto quel vortice della noia che finisce inevitabilmente per risucchiarti.
Torno ora alla domanda. Non ho avuto problemi nel dire alla mia famiglia che volevo fare l’attore. Non avendo loro avuto la possibilità di scegliere, i miei genitori hanno cercato di dare a noi figli tutto ciò di cui avevamo bisogno, anche attraverso tanti sacrifici: mio padre fa il tassista mentre mia madre ha poi fatto carriera in banca ma quando si sono nato io nel 1988 erano veramente due cuori e una capanna, due ragazzi che vivevano in un monolocale. Quando hanno visto nei miei occhi l’impegno che mettevo in ciò che volevo fare, sapevano che non avrei approfittato della loro fiducia e mi hanno supportato.
Ed io ho cercato sin da subito di ricambiare il loro credere in me, arrivando a Roma con la voglia di farcela sin da subito. Ai provini, avevo nella testa la faccia di mia madre e di mio padre che avevano speso dei soldi per farmi studiare all’università e non potevo deluderli.
Discorso diverso è stato il far capire ciò che facevo agli altri. Purtroppo, in Italia, il mondo dell’arte in generale è costantemente sminuito da chi non lo vive. Quando dicevo di essere un attore, mi si chiedeva che lavoro facessi e a cosa servisse. Psicologicamente, non era una passeggiata ma il punto di svolta per me è arrivato quando parlando con il mio medico di base che durante una conversazione mi disse: “Se non esistessero il teatro, il cinema e la musica, non potrei curare la gente: mi permettono di staccare la testa, di evadere e di ricaricare le batterie… il mondo dell’intrattenimento è complementare al mio, non ti vergognare di dire che fai l’attore”. E da quel momento ho dato un valore diverso a tutto ciò che facevo e faccio.
La pandemia ha poi sancito ulteriormente l’idea che avevo su questo mestiere. Ho capito veramente che non ho mai pensato di fare l’attore per gli altri ma semplicemente perché, quando ho cominciato e sono poi entrato nella mia scuola di teatro, ne sono rimasto folgorato. È nata dentro me una curiosità che ancora oggi conservo e che mi spinge a mettermi alla pari: tutte le volte che sento il nome di un autore o di un’opera che non conosco, corro a documentarmi. Ed è quella stessa curiosità che mi spinge a migliorarmi sempre in ogni performance: sono un perfezionista, non sono mai contento…
Recitare mi ha dato anche la voglia di studiare. Prima, lo facevo sbuffando: oggi, invece, sono triste quando non lavoro e felice quando lo faccio.
Hai citato en passant la pandemia. Cosa ti ha permesso di capire sul tuo lavoro?
Ho realizzato quanto fosse utile agli altri. Nel momento in cui il mondo si è fermato, la gente ha avuto bisogno dell’arte. È anche per questo che mi dispiace che a chi lavora in campo artistico spesso non venga riconosciuta la sua importanza. Così come mi dispiace quando all’interno dello stesso sistema cinema si punta più sui numeri che sulle emozioni che un’opera può dare alla gente: è fondamentalmente questo che mi ha spinto ad esempio in questi mesi ad accompagnare la proiezione di Il punto di rugiada in tutte le occasioni in cui mi è stato possibile farlo. Non vado perché vengo pagato (tutt’altro) me per cogliere le riflessioni, le emozioni e le diverse esperienze che ne hanno le persone: è quello che mi commuove.
Il cinema di Marco Risi è spesso un cinema di corpi e anche Il punto di rugiada può esserne un esempio. Che rapporto hai con il tuo corpo? La tua bellezza è stata più una benedizione o un ostacolo?
Per gran parte della mia vita, è stata un ostacolo. Quand’ero piccolo ero circondato da attenzione ma tale attenzione, soprattutto alle scuole elementari e medie, si trasformava spesso in scontro con altri ragazzi a cui invece mancava. Sapevo sempre di stare sulle scatole a qualcuno o che c’era qualcun altro che avrebbe voluto menarmi, tanto che dovevo persino parlare con altri affinché non accadesse.
È un complesso che mi sono portato dietro fino a quando mi sono affacciato al mondo della recitazione. All’Arsenale, dove ho studiato, si segue il metodo Lecoq, un metodo molto fisico che il maestro Kuniaki Ida ha imparato da Lecoq stesso di cui è stato allievo. Ed è stato proprio Kuniaki Ida a distruggere del tutto il lato ‘narcisistico’ (passami il termine) di me, destrutturandomi e togliendomi dalla testa quel pregiudizio nei miei confronti sulla bellezza che avevo sempre vissuto male. Ma talmente male che per un breve periodo ai provini andavo persino con gli occhiali da vista, vestendomi male e cercando di nascondermi il più possibile.
Il teatro mi ha dunque riportato sulla terra. Ma il rapporto conflittuale con la bellezza è comunque rimasto: ancora oggi cerco di incasellarmi nel mercato più come un profilo particolare e ricercato che bello… ed è qualcosa che si riflette anche nell’uso che faccio dei social: per non cascare nella mediocrità o nel narcisismo compulsivo, punto sul mio lato artistico cercando di non sminuirlo.
La mia molla rimangono la curiosità patologica verso questo mestiere e il mio desiderio di migliorarmi anche come essere umano. Privilegio più l’impegno che la bellezza ed è la ragione per cui in ogni lavoro che faccio cerco comunque di allontanarmi il più possibile da me stesso.
Sei felice, Alessandro?
Sì, sono felice. Ma è uno stato d’animo che è frutto indirettamente dell’esperienza in Finlandia. È lì che ho maturato come il lavoro mi avesse alienato fino al punto di non riuscire più a godermi a pieno la vita e persino la relazione sentimentale che si era appena chiusa. Ero entrato in una sorta di loop per cui stavo vivendo per lavorare e non lavorando per vivere. Mi occorreva una pausa per rimettere ordine e ristabilire le priorità.
Finito di girare, ho iniziato a viaggiare: in un anno ho visitato Portogallo, Spagna, Messico e Florida, prendendomi del tempo solo per me e gettando le basi per il futuro che verrà, in cui sceglierò solo ciò che mi fa stare bene. A cominciare dal progetto che vorrei concretizzare nel sociale con i ragazzi di Cinisello e dal ritorno molto presto sul set, con una consapevolezza diversa, di qualcosa che ancora non si può dire…