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Alessia Barela: “La mia timidezza patologica, Non è la Rai e il sogno del cinema” – Intervista esclusiva

alessia barela
Alessia Barela ci racconta in questa intervista in esclusiva le sfide affrontate, le gioie e le difficoltà non solo come attrice ma anche come donna e artista, lasciandoci scoprire così una voce autentica e appassionata nel panorama del cinema italiano.
Nell'articolo:

Alessia Barela è una delle attrici più talentuose e versatili del panorama cinematografico non solo italiano. Recentemente, è stata premiata con il prestigioso Nastro d’Argento per aver preso parte al film dei record C’è ancora domani di Paola Cortellesi, in cui interpreta Ornella, la futura suocera di Delia. Tale riconoscimento, assegnato dal sindacato dei giornalisti cinematografici italiani sin dagli anni Quaranta, da sempre rappresenta un tributo significativo al talento e alla professionalità degli artisti del cinema italiano.

Il conferimento di un premio come il Nastro d’Argento non è solo una medaglia da aggiungere alla propria collezione, ma un vero e proprio attestato di stima e apprezzamento del lavoro svolto. Per Alessia Barela, averlo ricevuto ha un significato profondo, soprattutto considerando che arriva dopo un periodo di sette anni di assenza dal grande schermo, durante i quali si è dedicata prevalentemente alla televisione. Una scelta che, seppur influenzata dalle dinamiche del settore televisivo, ha permesso ad Alessia Barela di esplorare e sviluppare ulteriormente il suo talento, portando valore aggiunto ai personaggi interpretati.

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Il percorso artistico di Alessia Barela è ricco di esperienze significative, dalla serialità televisiva, che le ha offerto stabilità e sicurezza, fino ai ruoli più complessi e sfidanti del cinema. La sua dedizione alla recitazione nasce da una passione viscerale per il teatro e il cinema, alimentata dalla sua formazione in danza classica, che le ha instillato disciplina e un’eleganza innata.

E proprio per questa ragione, in questa intervista, esploreremo il viaggio di Alessia Barela nel mondo del cinema e della televisione, le sue scelte artistiche e personali, e la sua visione del futuro, a cominciare da una delle esperienze che in molte negli anni hanno rinnegato: Non è la Rai. Un viaggio quello di Alessia Barela che non è solo una carriera, ma una continua ricerca di crescita e autoaffermazione.

Alessia Barela (Foto: Thomas Toti; Press: Paola Spinetti per Biancamano e Spinetti).
Alessia Barela (Foto: Thomas Toti; Press: Paola Spinetti per Biancamano e Spinetti).

Intervista esclusiva ad Alessia Barela

Cosa significa per un’attrice ricevere un premio per un film a cui ha preso parte? Spesso si dice che non servano poi a molto…

Ci sono premi, senza stare a capire quali, che hanno sicuramente meno valore di altri perché di nicchia o assegnati con criteri che nulla hanno a che fare con la professionalità o il talento. Ma ce ne sono altri, come nel caso del Nastro d’Argento, che hanno un loro peso specifico: parliamo di un riconoscimento che esiste dagli anni Quaranta e che viene assegnato dal sindacato dei giornalisti. Ragione per cui sono felicissima di averlo ricevuto: è un riconoscimento e un apprezzamento del lavoro svolto.

Premio che nel tuo caso arriva dopo sette anni in cui eri lontana dal cinema in quanto tale: tanta televisione nel frattempo. Scelta autonoma o dettata da altri fattori?

La verità? Quando entri nel circuito della televisione e fortunatamente funzioni in qualche ruolo, tendono a riutilizzarti anche in altri progetti. Quindi, sebbene ami il cinema in senso stretto, mi sono ritrovata nel vortice di questo meccanismo che, in un certo periodo della mia vita, forse mi ha dato anche più sicurezza, sia psicologica sia economica.

Lavorare nella serialità mi ha permesso comunque di avere a disposizione qualcosa che il cinema non sempre permette: del tempo dilatato durante il quale puoi regalare tanto al personaggio interpretato, soprattutto quando si passa quasi senza soluzione di continuità da una stagione all’altra. È stato ad esempio il caso della serie tv La porta rossa: oltre ad aver fatto un bel lavoro con dei colleghi meravigliosi (come Gabriella Pession o Valentina Romani, ndr), ho avuto la possibilità di impersonare un personaggio che ha avuto grosse evoluzioni, uno stimolo non indifferente sia per un attore sia per uno spettatore che rischia altrimenti di annoiarsi.

Alessia Barela nel film C'è ancora domani.
Alessia Barela nel film C'è ancora domani.

Il tuo è un curriculum oggi abbastanza lungo. Il mondo del lavoro in cui ti sei ritrovata immersa corrisponde alle aspettative che avevi da ragazza?

In qualche modo, sì. È un lavoro che ho amato per vari motivi e molto, anche perché sono prima di tutto una grandissima spettatrice: quand’ero più giovane, andavo al cinema anche tre o quattro volte alla settimana! Sono dunque molto contenta del mio curriculum perché non c’è nulla di cui mi vergogni o che comunque da spettatrice non avrei guardato. Se ripenso ai lavori a cui ho preso parte, mi sembrano tutte cose dignitose… poi, è chiaro che ogni tanto commetti una scivolata, anche per bisogno, non nascondiamoci: spesso si prende parte a progetti anche per esigenze economiche, è pur sempre lavoro.

E da ragazzina sognavo di fare qualcosa di cui non mi dovessi vergognare o che rispecchiasse anche la mia voglia di crescere, di essere diretta da registi che mi portassero a seguire il loro punto di vista, facendomi uscire da quella comfort zone in cui molto spesso noi attori ci accomodiamo quando un personaggio o un ruolo funzionano tendendo a reiterarli sempre mettendosi poco in gioco. Da grandissima curiosa, ho sempre detto “no” alle ripetizioni: ci sono ancora tantissimi ruoli che potrei interpretare!

Cosa ti portava da giovanissima a voler studiare recitazione?

Da piccola, non volevo fare l’attrice ma la ballerina, tanto che ho fatto 12 anni di danza classica. Dopodiché credo che il teatro con le sue assi scricchiolanti e la mia passione per il cinema da spettatrice mi abbiano spinta in maniera quasi naturale verso la recitazione: nonostante ballare e recitare siano molto diversi, condividono il regalare e il vivere delle emozioni.

Quando si fa uno spettacolo non regali solo emozioni al pubblico ma le vivi anche in prima persona, divertendoti. Per C’è ancora domani mi sono divertita ad esempio molto, soprattutto quando tutti sottolineavano come non mi avessero riconosciuta in scena: per me, era un complimento pazzesco perché sottintendeva che avevo fatto un ottimo lavoro nel portare qualcos’altro da me.

12 anni di danza classica: cosa ti hanno insegnato?

Ho bisogno ogni tanto di qualcuno che mi riporta con i piedi per terra: laddove sul lavoro sono una secchiona, nella vita sono un disastro! La danza classica mi ha insegnato che sul lavoro dovevo essere precisa, impegnarmi ed essere costante. Il misurarmi da piccola con qualcosa di così serio mi ha portata ad avere una gentilezza forse anche un po’ fisica, un’eleganza che in parte avevo ereditato da mio padre: se qualcuno mi dice che sono elegante, ne sono felicissima!

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La danza insegna anche a relazionarsi in maniera diversa col proprio corpo: è sempre stato confortevole il rapporto che hai avuto con esso?

Per niente. Ero una ragazzina di una timidezza patologica: cercavo tutti i modi possibili per nascondermi perché me ne vergognavo molto. Quando mia madre voleva che portassi a termine delle commissioni, non andavo se avevo il sentore che intorno ci fossero dei ragazzi: ero insicura del mio corpo, del mio viso, di tutto. Può sembrare paradossale ma sono più a mio agio con me stessa oggi anziché quando avevo vent’anni.

La domanda è allora d’obbligo: come ha convissuto tanta timidezza con le tre edizioni di Non è la Rai a cui hai preso parte?

Non è la Rai è arrivato in un momento per me difficile, dopo la morte di mio padre: ho pensato che prendervi parte mi avrebbe permesso di ricominciare, avere delle amiche e distrarmi. Non ero più adolescente ma ero già maggiorenne ma non ho mai visto il programma come un trampolino di lancio per quello che avrei voluto fare. Molto probabilmente se non avessi perso mio padre non sarei mai andata, anche perché ho avuto un’educazione rigidissima che non mi avrebbe concesso molto a riguardo.

Mentre altre rinnegano quella esperienza, tu ne parli in maniera molto positiva.

Non ci si deve mai pentire di ciò che si è fatto: ciò che sono oggi, lo devo anche a quell’esperienza. Grazie a Non è la Rai, ho ricominciato a essere una persona solare e a divertirmi. Per alcuni aspetti il programma, alla luce della consapevolezza di oggi sul ruolo della donna e sulle battaglie che portiamo avanti per la parità di genere, rappresentava il male assoluto ma a me è stato di grande aiuto: ho imparato a sciogliermi, ad avere dimestichezza con la telecamera e a spingermi a studiare seriamente, oltre che a superare il delicato momento provato.

La timidezza c’era. Mi nascondevo in mezzo alle altre ragazze per non essere coinvolta in nulla ma, dopo averlo fatto per molto tempo, mi hanno fatto cantare una canzone. Ed è nel rivedere oggi quel video che emerge quanto avrei preferito morire in quel momento (ride, ndr).

L’aver partecipato a qual programma ti ha mai fatto vivere del pregiudizio in ambito lavorativo?

È una domanda a cui non so rispondere con esattezza. Di primo acchito, direi no, anche perché una volta conclusa l’esperienza ho quasi subito girato il film Velocità massima. Sarà stato comunque perché giocavo un ruolo un po’ più defilato all’interno del programma. Con Sabrina Impacciatore eravamo protagoniste di uno sketch di cui scrivevamo anche i testi, per cui non c’era solo il ballo a favore di telecamera…

Però, sì: altre quasi rinnegano quel programma o non sono molto propense a parlarne, anche quando capita che ci si incontri in qualche occasione, e la ragione sta nel pregiudizio nei confronti di chi muove i primi passi uscendo da un programma tv, che sia il Grande Fratello o Uomini e donne. È come se dovessero in qualche modo faticare di più per dimostrare il loro talento.

L’avere, invece, perso tuo padre così da giovane ha condizionato la percezione che avevi di te e quella che avevi degli uomini?

Forse un po’ sì. Con papà, tra l’altro, avevo appena cominciato ad avere un rapporto d’amore diverso: quando sei più piccola, per molte cose, dai rapporti d’amore al primo ciclo mestruale, c’è molta più complicità con la mamma. Avevo quindi iniziato a percepire mio padre sotto un’altra ottica, lontana dal legame anche difficile che avevamo prima: entrambi molto testardi, litigavamo spesso per il mio essere orgogliosissima e il mio reagire.

Oggi, mi rendo conto di avere bisogno costantemente di una figura maschile con cui relazionarmi, non parlo necessariamente di un compagno ma anche di un amico, ma allo stesso tempo sono consapevole di come il crescere con mamma mi abbia avvicinata di più alle donne: lo scambio con loro per me è vitale. Dopo la morte di papà, ho sempre cercato figure maschili di protezione ma dall’altra parte ho vissuto molto di più con donne vicino, imparando da mia mamma, da mia zia o dalle mie amiche, di quanta forza psicologica siano capaci.

Per fortuna, esistono anche degli uomini evoluti che, avendo sviluppato una parte femminile molto forte, coniugano le due sfere che solitamente ricerco. È risaputo di quanto, quando ho girato Sette giorni, fossi pazza di Bruno Todeschini, un attore sposato dotato di un animo femminile, di una sensibilità, di una gentilezza e di un rispetto incredibili.

Quale reputi l’esperienza lavorativa più bella della tua vita?

L’aver lavorato con Ettore Scola: è stata l’esperienza più corta ma anche più bella della mia vita perché essere diretta da lui è stato un sogno che si è concretizzato. Amo da sempre i suoi film, ho avuto la fortuna di crescere con un fratello più grande di me che mi ha introdotta alla musica così come al cinema… sul set con Scola, da curiosa non potevo che porgergli molte domande, ottenendo risposte meravigliose che conserverò per sempre con me: mi ha parlato di Marcello Mastroianni e di Monica Vitti così come delle sue collaborazioni con Age e Scarpelli.

Sul set, mi perdevo ad osservarlo e a notare con quanta umiltà si rivolgesse a tutti quanti. Se avesse avuto bisogno di qualcosa, non avrebbe sbraitato: si alzava e faceva da sé. Era di una signorilità unica: quando ho finito la mia parte, è venuto ad esempio a ringraziarmi per aver accettato nonostante ci fossero a disposizione solamente pochi soldi, senza sapere che lo avrei fatto anche gratis o pagando io! Sono rimasta veramente stupita e ho invidiato chi ha avuto il piacere di nascere nella sua stessa epoca e di lavorare con lui: l’umiltà è dei grandi non è solo un modo di dire ma un dato di fatto.

Alessia Barela con Stefano Accorsi nel film Viaggio sola.
Alessia Barela con Stefano Accorsi nel film Viaggio sola.

Ettore Scola ma anche Rolando Colla, Daniele Vicari, Maria Sole Tognazzi, Giorgio Amato, Ivan Cotroneo, Antonio Morabito, Paolo Genovese, Paola Cortellesi e qualcun altro che dimenticherò: tutti grandi autori. Secondo te, cosa vedono in Alessia Barela per volerla nei loro lavori? La risposta richiede che tu pecchi di presunzione massima…

…e il che mi riesce difficilissimo. Nel pensarci, mi torna alla mente il primo di tre provini fatti con Daniele Vicari. Ero appena uscita dalla scuola, avevo girato qualche corto e mi sentivo ancora molto acerba: ricordo però che Daniele mi ha guardata, togliendosi gli occhiali, come se fossi uno strano animale… Forse intravedono in me un po’ di mistero, senza vedere esattamente ciò e chi sono realmente.

È qualcosa che mi succede molto spesso: le persone hanno di me per via dei ruoli che ho interpretato, la conformazione del mio viso o il taglio dei miei occhi, una seduttrice, quando in realtà sono semplicemente una persona molto curiosa a cui piace far domande e osservare per capire chi ho davanti. Questo fa sì che mi vedano un po’ più smaliziata e sfrontata di ciò che sono.

Chi sei… doppia origine: mamma italiana e padre spagnolo. Ha questa dicotomia culturale influito sulla tua identità?

Sono andata spesso in Spagna perché volevo capire, appunto, chi fossi, vivere la loro cultura, assaporare la loro libertà e testimoniare quanto fossero avanti in tema di diritti civili rispetto a noi. Ho sempre pensato che forse dovrei tornare alle mie origini, però sono molto legata a quei pochi punti fermi che ho qui in Italia.

Ti senti una donna libera?

Sì, sia professionalmente sia privatamente. Anche perché, se non mi sentissi così dopo 16 anni di analisi, chiederei il rimborso al terapista (ride, ndr). C’è solo una cosa che non mi fa sentire del tutto libera e che faccio fatica a digerire: i ricatti che gli attori subiscono mascherati da altro. Come, ad esempio, il non poter dire liberamente ciò che pensi, il non poter rifiutare una seconda o una terza stagione di una serie o il non poter protestare se un progetto a cui hai preso parte da cinematografico diventa televisivo perché il rischio dietro l’angolo è sempre lo stesso: il non lavorare più.

Ecco, io sogno un giorno di dire tutto ciò che voglio e che oggi non posso, anche se da testa calda qualche volta non ce l’ho fatta e ho reagito di fronte a quelle che reputo ingiustizie, pagandone anche lo scotto. Ma, purtroppo, non riesco a subire, forse perché ho un po’ subito in famiglia. Ed è così che ogni tanto faccio un po’ come l’onorevole Angelina, come mi è successo per un film girato con tante altre colleghe e che mai si vedrà per un produttore che non ci ha mai pagate.

Tempo fa, in occasione della release di un film che si chiamava Feisbum, ti dichiaravi apocalittica nei confronti dei social. È cambiata oggi la tua percezione?

Quando è uscito al cinema quel film, Facebook non esisteva da molto tempo e non ne avevo una visione lusinghiera, confermata da un episodio che mi è occorso in prima persona. Ero reduce dalla messa in onda della serie tv Terapia d’urgenza, in cui interpretavo un’infermiera lesbica: con Elisabetta Rocchetti abbiamo portato in prima serata sulla Rai un bacio saffico che ci aveva molto esposte e che aveva attirato le attenzioni sia di uomini sia di donne.

Tra queste ultime, ce n’è stata una che ha sviluppato una malsana ossessione nei miei confronti, comportandosi da stalker: si presentava ovunque io fossi, me la ritrovavo seduta in garage sul mio motorino e mi tormentava con mille profili differenti su Facebook, tanto che per salvaguardia ho chiuso il mio account.

Ho ricominciato a riavvicinarmi ai social grazie a Instagram e alla mia passione per le fotografie. Cerco tuttavia di mantenere un rapporto equilibrato con il medium: lo uso prima di andare a dormire come svuota testa, senza che si inneschino così quei fenomeni di dipendenza pericolosissimi che fanno sì che non si viva senza.

Per me, è anche lavoro: restia come sono ad andare alle feste o a frequentare persone dello stesso ambiente, mi piacere ogni tanto mostrare a cosa sto lavorando o quale riconoscimento è arrivato per mostrare alla gente che mi segue in che direzione sto andando in ambito professionale. Ma accade ogni tanto, ribadisco: trovo ridicolo chi ogni trenta secondi pubblica immagini di sé sul set, abbracciato a questo o a quello, o in pausa in roulotte.

E, visto che ci siamo, trovo ancora più ridicolo oltre che sgradevolissimo chi, di fronte alla morte di un collega, pubblica la sua foto con chi non c’è più: più che un omaggio al compianto è un omaggio a se stessi. Tant’è che quando è morto Ennio Fantastichini, con il mio solito spirito polemico, ho scritto che mi dispiaceva tanto anche se non avevo fatto una foto con lui, non lo conoscevo così bene e non c’ero mai andata a cena!

Alessia Barela.
Alessia Barela.
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