Alessia Lanza ha 22 anni ed è una delle creator più note e amate del web. Lo certificano i suoi numeri: 1,4 milioni di followers su Instagram e ben 3,9 milioni su TikTok. A conti fatti, potremmo dire che nel suo piccolo Alessia Lanza sarebbe in grado di portare avanti una piccola rivoluzione. E forse lo sta già facendo, come dimostra il suo impegno nel combattere le paure, le incertezze e le insicurezze che attanagliano i giovani della sua generazione, quella Generazione Z che spesso fa fatica a parlare di benessere mentale e non trova nessuno con cui confrontarsi.
Alessia Lanza dà voce con naturalezza, spontaneità e impegno, alle vulnerabilità attraverso i suoi canali ma anche attraverso il podcast Mille pare. In ognuna delle dieci puntate disponibili su OnePodcast (la cui direzione artistica è nelle mani di Linus), sulle principali piattaforme di streaming audio e su Inspiring Women (la playlist con i migliori podcast condotti da donne, creata per la prima volta in Italia da Spotify), Alessia Lanza con il supporto della psicologa Samantha Vitali affronta una “para” diversa, cercando di esorcizzare le sue fragilità e di riflesso quelle dei suoi coetanei.
“Ho deciso di fare questo podcast per svariati motivi: io sono arrivata fin qui anche grazie alla mia immagine, ma questa volta vorrei che le persone mi ascoltassero e basta”, ha affermato Alessia Lanza. “Quando ho cominciato a raccontare le mie fragilità un sacco di persone mi hanno detto “Anche io ho quella para lì!”. Perciò dico parliamone, perché in un mondo in cui sembra che dobbiamo farcela da soli, io credo nel potere della condivisione”.
E di Mille pare ma anche di altro abbiamo voluto parlare direttamente con Alessia Lanza, ricordando anche il suo libro Non è come sembra, uscito la fine dello scorso anno per Mondadori Electa, sollevando più di qualche commento negativo a causa della sua copertina. Del resto, era prevedibile aspettarselo in una società che ancora fa i conti con un patriarcato sistemico che perdura. I pregiudizi sono tanti quanti quelli che circondano la salute mentale o i creator. Chi pensa che non facciano nulla e che non fatichino, sappia che ad esempio l’intervista che segue è stata realizzata alle 9 del mattino…
Intervista esclusiva ad Alessia Lanza
Come nasce Mille pare, il cui titolo è molto più che una dichiarazione di intenti?
In realtà, Mille pare è un po’ casuale: le pare sono sicuramente molte di più ma ci sembrava un titolo simpatico. Era un modo per attribuire un numero generico, che comunque non è piccolo, alle paranoie non solo mie ma di tutti. È un podcast nato per parlare di quei pensieri che abbiamo tutti e che spesso non diciamo.
E a parlarne con te c’è una terapeuta, la psicologa Samantha Vitali.
Io e Samantha ci siamo conosciute l’anno scorso a maggio per un altro progetto. Mi sono trovata benissimo con lei: mi piaceva come spiegava le cose e come parlava con i ragazzi: rispetto a me ha un altro modo di trattare gli argomenti e viene recepita in maniera diversa. Riesce a farsi capire e ascoltare da qualsiasi persona. Da lì è nato il desiderio di creare qualcosa con lei per spiegare meglio quello che magari ho vissuto io e che stanno vivendo sicuramente tantissimi altri. Per il podcast era poi perfetta: ci sono anche tantissime situazioni che io non ho vissuto nella vita e di cui lei può parlare con cognizione di causa per aiutare gli altri, come ad esempio le conseguenze legate al divorzio dei genitori.
Un argomento, quello del divorzio dei genitori, di cui solitamente non si tende a parlare, come se fosse un tabù.
È un’esperienza che ho vissuto tramite la mia migliore amica. Quando eravamo piccole, i suoi genitori hanno divorziato. Frequentavamo le elementari e l’ha vissuta molto male. Il divorzio dei genitori, quando poi cresci, finisce con l’influire nel rapporto con gli altri: è come se, oltre al matrimonio, si rompesse qualcosa dentro di te. Non sapendo nulla di quello che può accadere, ero curiosa e volevo che Samantha fosse d’aiuto a chi la vive direttamente come para.
Se del divorzio non avevi conoscenza diretta, dell’uso della propria immagine sui social potresti essere un’esperta. Tutti tendiamo nei nostri profili ad apparire perfetti, vincenti e belli. Ma, nonostante ciò, non mancano mai i commenti da parte degli haters. Tu stessa sei stata protagonista di un episodio particolarmente spiacevole riguardante la copertina del tuo libro, Non è come sembra.
Sapevo che sarebbe andata così, l’avevo messa in conto ed ero sotto certi punti di vista pronta ad affrontare quello che sarebbe accaduto. Mi aspettavo la qualunque ed effettivamente non mi sbagliavo. C’è stato chi l’ha presa molto male e chi ha capito qual era il messaggio che volevo trasmettere. Su Twitter ho ricevuto commenti super negativi: li ho cercati – sono fatta così – per capire fin dove la gente potesse spingersi con il pensiero. Il peggiore per me è stato quello di chi asseriva che avevo contribuito alla mercificazione del corpo femminile con quella copertina: non mi sembra di aver fatto nulla del genere. Tuttavia, ho affrontato i commenti abbastanza bene: mi sono alla fine disinteressata a quelli che non erano costruttivi perché, fortunatamente, già sapevo che sarebbero arrivati.
Non creano i commenti negativi conseguenze sulla performance o ansia sociale?
Sicuramente ti provocano un po’ più di insicurezza. Gli hater ti fanno dubitare di ciò che sei, di ciò che ti piace e di ciò che hai fatto. Ti portano a farti mille domande su di te. E in quel caso la cosa migliore è comunque parlarne e non tenersi tutto per sé, confrontarsi con altre persone anche vicine e capire qual è la loro visione delle cose.
Quando hai capito nel tuo percorso personale che era arrivato il momento di confrontarsi con gli altri sulle proprie paure e insicurezze?
A 15 anni ho capito che avevo bisogno di un confronto diverso rispetto a quello che potevo avere dai miei genitori. Al secondo anno delle superiori, ho iniziato ad andare da una psicologa: sono stata io a chiedere ai miei genitori di portarmici perché mi serviva un parere esterno. Crescendo, ho capito quanto sia importante avere un appoggio esterne sul proprio benessere mentale: per quanto io sia orgogliosa, ho realizzato che non si può far tutto da soli.
Com’è stato andare a quindici anni dallo psicologo? Diciamocelo chiaramente, c’è sempre un certo stigma che accompagna l’argomento.
È la ragione per cui ho anche deciso di affrontare con vari mezzi la questione. I miei contenuti non solo per i ragazzi della mia età. Vorrei che arrivassero anche ai genitori e agli adulti, obiettivo per cui quando posso rilascio tutte le interviste possibili: sono contenta di farlo pensando di riuscire ad arrivare anche a un target diverso dal mio. Viviamo in un momento di instabilità, siamo tutti incerti sul futuro: dobbiamo pensare che sia la normalità parlare con uno psicologo. Forse solo così riusciamo veramente a risolvere ogni cosa prima che sia troppo tardi.
A quindici anni raccontavi di andare dallo psicologo?
Non ne ho parlato più di tanto. Dei miei compagni di classe, lo sapevano soltanto le mie amiche più strette. Era una cosa che tenevo per me senza sapere che, banalmente, anche qualcun altro andava. Ci andavo perché mi faceva sentire bene, lo facevo per me e non credevo che agli altri interessasse saperlo. Oggi, invece, vorrei che le persone lo sapessero: andare dallo psicologo è diventato argomento della vita di tutti i giorni, ne parlo con le amiche, ci si confronta, ci diciamo cosa ci piace di più di un esperto rispetto a un altro, ci si dà consigli. Ed è giusto che sia così.
Tra gli argomenti trattati dal podcast c’è anche la dipendenza affettiva. Quanto è difficile capire di essere dipendenti affettivamente da qualcuno?
È super difficile: quando si è innamorati, si hanno le fette di prosciutto davanti agli occhi. Ma che tu voglia bene a una persona non comporta che questa ne voglia a te. In un rapporto complicato, quando si dipende dall’altro, non si parla più di sentimento ma di possessione. Chi dipende, è portato a perdonare tutto ciò che è negativo e a far finta di niente, a ignorare persino la mancanza di rispetto. Dovrebbe essere questo il campanellino di allarme che dice che qualcosa non va. L’ho riassunta come se fosse facile ma la pratica è molto più complessa della teoria.
Nel tuo libro, a tal proposito, hai anche raccontato la tua esperienza personale. Come ne sei uscita?
Con il tempo e parlandone con gli altri. Ho fatto un bel percorso di terapia sulla questione. Nei casi di dipendenza affettiva, è molto facile tornare indietro: nonostante i suoi lati negativi, pensi sempre che l’altra persona sia il porto sicuro. La cosa più bella della psicologa o dello psicologo è che non ti fa mai sentire in colpa e non giudica le tue scelte, diversamente da come farebbe un’amica. Gli amici servono a fare gli amici ma per certi aspetti della vita serve un parere esterno.
Il senso di colpa è qualcosa con cui soprattutto le ragazze e le donne in genere devono fare i conti per quanto concerne la loro immagine. Figlie di un sistema patriarcale sistemico, si sentono dire spesso che con una foto mercificano il corpo femminile (come è successo a te per la copertina del libro), che non devono vestirsi in un certo modo, che non devono pubblicare certi selfie e via dicendo. Come se ne esce?
Pensatela come volete ma io sono come sono: è questo il mio motto. Se sto bene con me stessa, ho un buon rapporto con il mio corpo e amo quello che faccio, pensate pire quel cazzo che vi pare. Sono sempre ben disposta al confronto ma se qualcuno si ferma alle apparenze e ha la mente chiusa, non saprei che fare. È forse questo il problema maggiore: non ho certo la pretesa di cambiare il pensiero altrui ma almeno parliamoci e vi spiego quale messaggio c’è dietro a una mia foto. Provo a farlo ma spesso per i detrattori “è così e basta”.
Ma quello non è anche la conseguenza delle prese di posizione sui social per cui esistono i fortini del sì e del no senza che mai si incontrino?
Sai qual è il vero problema dei social? Che non si può mai cambiare idea. Se lo fai, vieni accusato di essere incoerente. Io potrei esprimere il mio pensiero oggi su un determinato argomento e cambiarlo tra un paio di anni: si cresce, si matura, si evolve, si accumulano esperienze ed è normale che accada. Ma per gli altri diventa sinonimo di incoerenza, non capiscono che fa parte della crescita: non possiamo sempre pensarla allo stesso modo, è spaventoso se fosse così.
Cambiamento, bella parola. Quanto è cambiata Alessia dalla ventenne che lasciava Cuneo per spostarsi a Milano?
Tanto e mi fa quasi impressione: sono cresciuta più in tre anni a Milano che in venti nella provincia piemontese. Milano va molto più veloce rispetto a dove vivevo io, a Frabosa Sottana, un posto tranquillo in mezzo alla natura a contatto sempre con le stesse persone: qui, invece, hai a che fare sempre con gente nuova, lavori diversi, posti differenti… per forza di cose, assorbi tutto e cresci prima. Molto banalmente, in un anno di default ho viaggiato molto di più rispetto ai miei genitori in tutta la loro vita.
E i tuoi genitori, visto che li hai citati, che ne pensano del tuo lavoro?
Sono molto contenti di quello che ho fatto e realizzato. Mi danno anche dei consigli: mio padre la sera mi manda almeno 3 o 4 TikTok da vedere o valutare. È curioso di quello che faccio, vuole conoscere la piattaforma in cui lavoro e si interessa a ogni aspetto di ciò che faccio. È un lavoro molto diverso rispetto a quello che potevano immaginare che facessi quando frequentavo le superiori. Giustamente, avevano un’idea differente e nessuno si sarebbe mai aspettato che i social sarebbero entrati nelle nostre vite.
Sui social hai un seguito impressionante. Qual è la responsabilità di parlare a così tante persone?
È grande. Ho cominciato a usarli un po’ più seriamente quando avevo 18 anni: ero piccola per un pubblico così vasto che è cresciuto sempre di più. Oggi sono consapevole di quanto qualsiasi cosa io dica abbia un impatto su chi mi segue e proprio per questo faccio molta attenzione alle mie parole. Il mio desiderio è che comunque i followers non facciano diventare la mia idea la loro: vorrei semmai che la prendessero e la metabolizzassero facendola diventare propria. Le mie idee o parole dovrebbero essere uno spunto per far sì che facciano qualcosa e mettano in atto le proprie.
Preferisco essere sempre me stessa e mostrarmi come sono. Gli altri sono liberi di essere d’accordo o meno ma cerco comunque di trasmettere messaggi positivi. Quando ho qualcosa che non va, non lo nascondo: preferisco mostrarmi e far capire che anch’io ho dei momenti no e che sono una persona come tante e non solo un volto che appare su uno smartphone.
Come sono i tuoi momenti no?
Se ho un momento no, divento molto cupa e lo si percepisce subito. Ho molte pare, motivo per cui potrei continuare il podcast all’infinito. Sono momenti in cui l’incertezza e l’insicurezza prendono il sopravvento e mi ritrovo a chiedermi cosa fare della mia vita. Sono molto pensierosa e spesso penso di essere io la peggior nemica di me stessa: so che devo ancora migliorare sotto tanti punti di vista ed è qualcosa che mi stimola tantissimo e mi spinge a voler fare sempre di più.
Guardandoti indietro, qual è il ricordo della tua infanzia che porterai sempre con te?
I momenti con i miei nonni. Quand’ero piccola passavo tanto tempo con loro e stavo bene con nulla, nella semplicità e nella natura. Giocavo con fango, letteralmente. Devo a quei ricordi il mio essere rimasta sempre con i piedi per terra.