Per incontrare Alessio Praticò non serve una ragione specifica e non occorre che sia in promozione per qualche suo lavoro. Anzi, guardando i titoli che tra serie tv e film sono usciti nell’ultimo anno, sembra quasi che Alessio Praticò sia in eterna promozione: lo abbiamo visto, ad esempio, in Blackout Love, I nostri fantasmi, L’afide e la formica, Calcinculo, Il mio nome è Vendetta e La festa del ritorno, di cui era protagonista assoluto. E questo per limitarci al cinema: in tv e nelle piattaforme l’elenco diventa quasi interminabile, da Boris a Blocco 181, da Odio il Natale a Il nostro generale e Un’estate fa.
Riusciamo a raggiungerlo in un momento di pausa a teatro, dove è ritornato dopo sette lunghi anni di assenza. È al Nazionale di Genova, la stessa città in cui si è formato partendo dalla sua Reggio Calabria, la città in cui è nato l’8 maggio del 1986 e da cui è dovuto necessariamente andare via. Chi vive nelle periferie d’Italia sa come certe aspirazioni presentino un conto alto da pagare: sradicarsi per autoaffermarsi. Tuttavia, è andato via solo dopo aver concluso un cerchio che aveva cominciato a disegnare: laurearsi. Perché i cerchi, come ci dirà Alessio Praticò, vanno sempre chiusi.
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Intervista esclusiva ad Alessio Praticò
“Sono in scena a teatro con Gli innamorati di Carlo Goldoni, con la regia di Luca Cicolella, prodotto dal Teatro Nazionale di Genova”, mi risponde Alessio Praticò quando gli chiedo a cosa stia lavorando dopo aver terminato le riprese della serie tv Netflix Briganti. Commedia in tre atti del 1759, Gli innamorati racconta dell’amore, non semplice, tra Fulgenzio ed Eugenia.
“Interpreto lo zio Fabrizio, colui che si ritrova a dover gestire la dote delle nipoti Eugenia e Flaminia. È un personaggio molto caricaturale che, dopo aver speso tutta la dota per comprare robaccia di presunto valore (è una sorta di collezionista di quadri e di opere d’arte di cui non capisce nulla), ha bisogno che le due nipoti vadano via da casa”, continua entusiasta Alessio Praticò nel descrivere il suo ruolo.
“E il conte Ridolfo sembra fare al caso suo: sposerà una delle due nipoti, come se fosse a tutti gli effetti una compravendita: pur essendo un grande classico della commedia, è un’opra che affronta temi attualissimi e che riguardano tutti quanti: dall’amore tossico alle famiglie disfunzionali, passando per il ruolo della figura femminile. Proprio per questa ragione, pur mantenendo il linguaggio goldoniano, abbiamo catapultato il tutto in una chiave più moderna dal punto dei vista dei costumi e delle scenografie. Così facendo, il racconto è più legato ai giorni nostri: del resto, racconta aspetti che fanno parte dell’essere umano e che penso, ahimè, non cambieranno mai”.
È quasi impossibile fermare il racconto di Alessio Praticò: fa trasparire tutta la passione che mette nel suo lavoro e tutto il suo pensiero sul ruolo del teatro nella società contemporanea. “In fondo, da una commedia può emergere anche il dramma: il pubblico si diverte ma nello stesso tempo prende atto della situazione e si rivede. È questo che dovrebbe fare il teatro, no? E che il pubblico di Genova, molto complesso e molto legato al teatro, sia corso a vederci, anche grazie al passaparola, regalandoci continui sold out ci rende orgogliosi del lavoro fatto. Ci fa poi immenso piacere che siano accorsi anche tantissimi ragazzi”.
Ragazzi che Alessio Praticò e il resto del cast ha anche accolto per delle speciali matinée e che si sono rivelati particolarmente curiosi sul testo e sull’approccio ai personaggi, dimostrando ancora una volta ciò che chi scrive sostiene da sempre: si dovrebbe tornare a studiare teatro anche nelle scuole. “Sono d’accordo ma non solo perché è il mio lavoro”, chiosa sorridendo Alessio Praticò. “Il teatro è lo specchio dell’essere umano”.
Gli innamorati ti permette anche di tornare alla commedia, un genere dove hai dimostrato, anche grazie a Boris, di poterti cimentare con destrezza.
Per me, è più che altro un ritorno alle mie origini, al teatro. Avendo lavorato in diversi progetti seriali e cinematografici, negli ultimi anni non sono mai riuscito a incastrare un periodo da dedicare allo studio di un testo teatrale, alle prove e a tutto ciò che avrebbe comportato. E, quindi, sono tornato in quella che considero casa, a Genova ho anche studiato, dopo quasi sette anni: è stata un’emozione incredibile risalire sul palco, affrontare il pubblico e percepire quell’energia che inevitabilmente ti torna indietro. Ti ripaga dell’impegno e della fatica.
Convivere con lo stesso personaggio per molto tempo, sera dopo sera, ti permette di concentrarti anche maggiormente sulla qualità. Sui set, il lavoro di un attore è fatto di attese e di tanti tempi morti che, soprattutto per i lavori televisivi, si riversano sul risultato finale: pesano le attese o le pause, che spesso arrivano anche a interrompere emozioni che sono in atto e che ti viene chiesto di riprendere magari dopo la pausa pranzo. E non sempre è facile farlo.
Da questo punto di vista, il teatro è un continuum: ti richiede di essere costante, anche se lo spettacolo di per sé è sempre un unicum. Non sai mai gli imprevisti che ogni sera possono accadere.
Gli innamorati: Foto di Federico Pitto
1 / 9Uno degli imprevisti che più terrorizza un attore in teatro è il dimenticare le battute in scena.
Mi è successo una volta durante uno spettacolo, anche a causa della stanchezza. Dopo tantissime repliche, anche due al giorno, il cervello si è spento, proprio come capita a Homer Simpson. Quando capita, te ne accorgi ovviamente soltanto tu e chi sta in scena con te: l’importante è ripartire. Tra l’altro, è una paura che ho avuto per il debutto di Gli innamorati, anche a causa dell’ansia di riprendere confidenza con un mezzo che non frequentavo da tempo. E forse è in quell’ansia che si nasconde anche il desiderio di fare questo lavoro… Il giorno in cui non ci sarà più vorrà dire che recitare è diventata un’abitudine senza più emozioni, un ragionamento che possiamo estendere a qualunque cosa nella vita e a qualunque lavoro: se non c’è amore, non ha senso fare ciò che facciamo.
Lo zio Fabrizio viene descritto come vanitoso e volubile, due aggettivi che non affibbierei mai a te.
Il bello del mio lavoro consiste nel poter fare qualcosa che è completamente lontano da me e da quello che sono nella vita di tutti i giorni. Cerco sempre di raccontare qualcosa che non mi appartiene e, soprattutto, di non giudicare mai i personaggi che porterò in scena.
Come definiresti Alessio?
Alessio è una persona molto pacata e tranquilla, alla quale è stato insegnato ad avere sempre i piedi per terra. Nonostante questo, sono però una persona ambiziosa: riconosco i miei limiti ma ci tengo ad alzare costantemente l’asticella. Ciò va a innescare un meccanismo di intransigenza con me stesso per cui spesso, in maniera esagerata, io stesso mi do addosso. A volte, la sindrome dell’impostore prende il sopravvento, mi pongo domande su cosa avrei potuto fare o dovuto. Anche se, grazie al tempo e all’esperienza, sto imparando ad avere più cura di me: è giusto avere contezza dei propri limiti, accettarli e rimettersi in gioco, ma è altrettanto sano godere di ciò che invece si è e si ha.
Spesso l’ambizione viene connotata in maniera negativa.
In realtà, dovrebbe essere la molla che ci spinge a fare e ad agire. Sin da piccolo, ho voluto portare a termine tutto ciò che ho iniziato, al di là degli ostacoli e delle difficoltà. Da toro ascendente leone, sono molto costante e ho una testa molto dura che fa sì che, di fronte a un obiettivo, io debba conseguirlo. Avevo cominciato la facoltà di Architettura e mi sono laureato prima di entrare alla scuola del Teatro Stabile di Genova per seguire la mia passione per l’arte drammatica ma, durante il Covid, un lungo momento di pausa per tutti noi, mi sono rimesso a studiare per l’abilitazione alla professione: era un cerchio che dovevo chiudere. Non mi sono iscritto all’albo ma, potendo, potrei ristrutturati casa! (ride, ndr).
L’ambizione non significa che il fine giustifica i mezzi: è semmai il mezzo per concretizzare qualcosa nel rispetto di tutto e di tutti. Mi muovo in un mondo in cui spesso “morte tua” equivale a “vita mia” ma è un atteggiamento che non mi appartiene. Può sembrare banale ribadirlo ma lo studio e aver frequentato l’università aiutano a maturare e a strutturare la propria vita in una certa direzione.
Così come un architetto progetta strutture, un attore progetta esseri umani.
E si deve operare affinché siano tali e funzionino in scena. Ne deve progettare il racconto ma anche la visione dello spazio, il modo di stare in scena e come relazionarsi con i suoi colleghi.
La scuola del Teatro Stabile di Genova è dove ti sei formato. Ma tu sei di Reggio Calabria, una città dove il cinema non si ferma molto spesso. Com’è nata la tua passione per la recitazione?
Ho avuto da piccolo la fortuna di frequentare una scuola che aveva molto a cuore non solo il teatro ma anche l’arte in genere. Ho cominciato allora ad assaporare cose che, per chi è come me cresciuto un’epoca in cui l’accesso alle informazioni era ridotto, altrimenti non avrei sperimentato o a cui non mi sarei forse interessato. Ma è un discorso il mio che si può estendere a ogni periferia, dove il gap delle possibilità è maggiore e forse c’è ancora più urgenza di conoscere. Chiaramente, però, arriva un momento in cui scegliere cosa fare significa doversi spostare: non so se sia per determinazione. Tutto dipende sempre dall’urgenza e da quanto si sia disposti a investire e a perdere nel lasciare il proprio luogo di comfort, le persone care e il posto in cui sei nato: non è semplicissimo.
Diffido sempre di chi racconta il proprio percorso senza mai tirare in ballo le difficoltà che intercorrono tra la nascita di una passione e l’affermazione. Non è però il tuo caso.
Non è facile lasciare il luogo in cui siamo nati perché è quello che ci ha insegnato i sentimenti. Nel mio caso, sono dovuto andare via proprio perché quei sentimenti avrei voluto verificarli per poi raccontarli. È importante per me ancora oggi raccontare la mia città e i miei luoghi, sono quelli in cui vivono le persone a me care e che fanno parte di quel bagaglio che mi porto dietro. È lì che vado a pescare quando affronto un personaggio nuovo.
Genova è stata casuale come scelta?
Quando ho terminato l’università, ho fatto come fanno tutti i ragazzi che vogliono intraprendere lo studio della recitazione: sono andato a cercare quali erano le scuole riconosciute. Ho trovato la ‘D’Amico’ a Roma e la ‘Grassi’ a Milano ma dentro di me speravo di essere ammesso alla Scuola del Teatro Stabile di Genova: non solo perché era una delle più importanti ma anche perché seguiva un certo tipo di metodo che puntava alla versatilità. E sono stato preso direttamente a Genova: il mio desiderio inconscio si è concretizzato, trasformandosi in tre anni intensi di formazione. Alcuni dei grandi maestri che ho avuto sono anche venuti recentemente a vedermi in scena infondendomi così anche una buona dose di autostima.
Papà e mamma però facevano dei lavori molto differenti dal tuo. Come hanno preso la tua decisione di dedicarti a una professione così precaria e instabile?
Come dice un mio collega, il nostro è un lavoro precario di lusso, che ho potuto affrontare anche grazie al senso del dovere che mi hanno trasmesso i miei. Sono loro che mi hanno insegnato a rimanere con i piedi per terra e a evitare di fare voli pindarici ma non mi hanno mai ostacolato. In quindici anni sono sempre stati i primi ad appoggiarmi e a sostenermi.
Per un attore, il corpo è un’estensione del proprio mezzo di lavoro. Che rapporto hai con la tua fisicità?
Ho fatto oggi pace con me stesso e con il mio corpo. E il nostro rapporto è notevolmente migliorato: c’è stato in passato un periodo in cui ho trascurato l’attività fisica e in cui, per lo stress non solo da lavoro, ho cominciato a sfogare le mie emozioni attraverso il cibo. Ho poi capito che avrei dovuto riprendere in mano il mio fisico per una questione soprattutto di salute e non di estetica: non era possibile che avessi ad esempio il fiatone dopo aver fatto una sola rampa di scale!
Stiamo attraversando un momento per cui il tema dell’apparenza è cruciale: la fa, ad esempio, da padrone nel mio ambito lavorativo, dove spesso si sono imposti dei modelli a mio avviso esageratamente esagerati e sbagliati. È arrivata invece l’ora che si mostrino altri modelli in cui finalmente le persone possono anche riconoscersi: si dovrebbero commissionare più lavori che mostrino personaggi che hanno un loro vero contraltare nella realtà, raccontando la molteplicità dell’essere umano.
Si dovrebbe puntare alla storia, all’accadimento: tutte le volte che lo si è fatto, ha funzionato. Perché è nella storia che la gente si riconosce, al di là del suo colore, del suo orientamento sessuale, della sua disabilità o della sua forma fisica. Senza, quindi, che ci sia quell’attenzione maniacale per cui a tavolino si decidono le quote rosa o quelle gender, per esempio: non è politicamente corretto l’eccesso di politicamente corretto perché si va a marcare ancora una volta un aspetto che vorrebbe essere inclusivo ma che nei risultati non lo è.
Accade soprattutto nei racconti delle piattaforme (non sono contro, ci mancherebbe!): certi prodotti sembrano essere montati a pezzi come i mobili del colosso olandese solo per allargare la sfera dei potenziali clienti o accontentarli perché qualcosa va di moda. L’impressione è che si seguano i trend quando invece il pubblico vorrebbe vedere più pluralismo delle storie.