Alessio Vassallo sta per compiere quarant’anni e recita ininterrottamente da quando a diciannove anni ha lasciato la sua Palermo per studiare recitazione a Roma, una città che è diventata la sua seconda casa. Quello che è in corso è per lui dunque un anno di ricorrenze e anniversari, che da tradizione sono anche l’occasione ideale per tracciare dei bilanci.
Senza ombra di dubbio, il bilancio di Alessio Vassallo si chiude con il segno più. Ce lo confermano le sue parole nel corso di quest’intervista in esclusiva. Ma anche un curriculum che, giorno dopo giorno, si allunga sempre di più, segnato dalla consapevolezza di chi sceglie un ruolo solo se ha qualcosa da raccontare.
Prendiamo ad esempio la serie tv di Rai 1 Sei donne – Il mistero di Leila, in cui Alessio Vassallo interpreta l’ispettore Emanuele Liotti. Il personaggio affianca la pm Anna Conti, interpretata da Maya Sansa, nella ricerca della verità sulla scomparsa di un’adolescente. Ed è omosessuale, un orientamento che Alessio Vassallo normalizza e non esaspera. “Non importa chi ama chi ma come si ama”, tende a ribadire puntando l’attenzione su come sia il racconto a far la differenza in una società che vuole realmente abbattere stereotipi e pregiudizi.
Lontano dal mondo di coloro che enfatizzano solo se stessi perché non hanno altro da dire, Alessio Vassallo non ha paura di esporsi o di manifestare il suo pensiero. Ci sono valori in cui crede fortemente e su cui non è disposto a cedere: l’uguaglianza, l’attenzione nei confronti dell’altro, la solidarietà e l’amicizia. Di fronte a tutto ciò, per lui, il lavoro passa in secondo piano. Non aspettatevi, dunque, il divo che mette l’io davanti a ogni cosa. Tutt’altro, e forse è questo il motivo per cui arriva dritto al cuore di chi sa capirlo e amarlo.
Intervista esclusiva ad Alessio Vassallo
Sento Alessio Vassallo un lunedì mattina alle 10.30, quando tutti siamo ancora presi dalla difficoltà del ritorno al lavoro dopo i bagordi del fine settimana. “Ma io sono mattiniero, alle 07:30 sono già in piedi: tendo sempre a svegliarmi presto” è la prima cosa che mi dice, ancor prima di iniziare con le domande.
Si trova a Roma, lontano dalla sua Palermo. “I miei sono di Mondello e, quindi, quando posso vado a trovarli per passare del tempo insieme: sono figlio unico ma, volente o nolente, è da vent’anni esatti che sono a Roma. E sto per compiere quarant’anni, un momento di bilanci per capire a che punto sono arrivato nella mia vita e sei i miei desideri di ragazzo si sono compensati”.
E cosa è venuto fuori dal bilancio?
“Ho fatto il bilancio la scorsa estate, a 39 anni. Mi son detto che avrei voluto vivere i quarant’anni in maniera serena e senza accumuli di pensieri e tensioni. E sono felice del risultato, non posso recriminare niente. Mi sentirei veramente in colpa, ingiusto, nei confronti di me stesso. Sono stati vent’anni bellissimi, ho avuto la fortuna di fare 40 tra serie tv e film al cinema e tutti con ruoli importanti. Se al me diciannovenne avessero detto che sarebbe arrivato a quarant’anni con un bagaglio così pieno e variegato, ci avrei messo la firma.
E, quindi, sono felicissimo. Alcune volte uno di deve anche fermare e dire grazie, non continuare a chiedere. Anche se, sotto sotto, c’è sempre qualche richiesta: mi piacerebbe continuare così. Ho la fortuna di raccontare storie e di farlo oggi, in una società così veloce, fatta di social e di like, in cui si comunica per immagini. Oggi mancano i racconti e lo scorso Festival di Sanremo è stato un po’ sintomatico di ciò con tanti personaggi che, provenienti dai social, tendevano a raccontare sempre se stessi… e, quando racconti sempre di te, vuol dire che non c’è nient’altro da raccontare: è come se tu vivessi con uno specchietto in tasca dove ti rifletti 24 ore su 24.
Manca il senso del racconto, che è poi la radice per cui ho scelto di fare il mestiere dell’attore: sono un amante della letteratura e mi appassiono alla storia. E oggi, secondo me, c’è il bisogno di ritrovare racconti e storie anziché focalizzarci sul trend. Una storia, logicamente, è meno accattivante di un trend perché è complessa: bisogna fermarsi e ci vuole tempo…
Mi hai fatto pensare a chi durante la camera ardente di Costanzo si scattava dei selfie con la vedova, raccontando in quel momento se stesso e non il momento storico in sé.
Credo sia abbastanza paradossale. Ho visto anche il video che gira su internet con Maria De Filippi demoralizzata. Seppur io la consideri una persona molto perbene e molto competente, è anche vero che un determinato tipo di televisione, tra cui anche alcune sue trasmissioni, hanno contribuito a creare quei mostri: la gente disposta a mettere alla berlina anche i propri sentimenti davanti a 5 milioni di italiani, figurati a farsi i selfie in chiesa e con la bara dietro. Ed è veramente triste: non viene rispettato il dolore di una donna che, ripeto, stimo molto. Ho sempre stimato la coppia Costanzo-De Filippi perché ha comunque contribuito a scrivere una pagina molto importante della televisione e della cultura italiana, popolare e meno popolare.
Se ti ritrovi a chiedere un selfie a una persona che ha il marito morto accanto, vuol dire che certa televisione e i social hanno contribuito a lacerare il cervello e la mentalità di gente che non hanno null’altro da raccontare e che esiste solo perché si fa la foto accanto al vip di turno. Diventa preoccupante: nonostante io abbia quarant’anni continuo a stupire, sia in positivo sia in negativo. Tanto per non smentire quello che diceva di me un mio insegnante d’accademia: “Hai questo stupore perenne da bambino”!
Per chiudere il cerchio con il bilancio dei quarant’anni, cosa è rimasto dell’Alessio che a 19 anni lasciava Palermo per trasferirsi a Roma?
Ho sempre questo stupore, come dicevo, che riecheggia anche nei personaggi che porto in scena. E poi, anche se sono un po’ più stanco di allora, ho ancora la voglia di combattere. Sono uno di quelli che si è sudato ogni cosa: ho combattuto sempre metro per metro, risultando alcune volte anche fastidioso. Mi sono conquistato molte cose da solo, lottando, credendo nei progetti, provando a metterli in piedi, anche a costo di molti dispiaceri. Non ultimo, la rottura con un amico ventennale che si è comportato malissimo dopo che m’ero speso tantissimo per lui. È stata forse la delusione più grande della mia vita ma mi ha fatto capire quanta contraddizione abbia questo mestiere, che fa venire a mancare anche i rapporti umani.
La parte più bella di questo lavoro, per me, è quando recito. Da maggio a dicembre dello scorso anno, ho girato Sei donne, il film tv sulla scherma La stoccata vincente in cui interpreto il campione Paolo Pizzo e il film per il cinema Stelle binarie di Gianluca Maria Tavarelli. Non mi sono mai fermato ed è capitato spesso, per fortuna, di non fermarmi mai e di vivere per sei o sette mesi in una bolla, dentro un set, svegliandomi al mattino non per vivere la mia vita ma un’altra. È la parte più bella ma anche la più codarda: vivendo la vita di qualcun altro, noi attori mettiamo la nostra in standby.
E la mia vita è stata perennemente in standby: mi sono dedicato molto più ai personaggi che a me stesso. È normale, la loro esistenza era ovviamente più entusiasmante della mia. A quasi quarant’anni, non ho figli ad esempio. Mi sono perso delle cose della mia vita privata: è il prezzo da pagare. Quando sei nella bolla del set, passano le stagioni, il Natale o il Ferragosto, e non hai ansia. Non ti rendi conto di nulla di tutto ciò che accade al di fuori della bolla. La parte più angosciante e complessa del lavoro dell’attore è tutto quello che si sta intorno, prima e dopo il set.
Dispiace, comunque, sempre sentire di un’amicizia ventennale mandata alle ortiche per questioni che poco hanno a che fare con la sfera personale e molto con quella professionale.
L’aspetto più grave e brutto è quando ti rendi conto che chi è arrivato a metà del suo percorso ne on è soddisfatto di ciò che è potrebbe rischiare di ammazzare il prossimo pur di far qualcosa, anche giocando sporco. Dalla mia sono abbastanza sereno. Ho fatto tanto, lavoro da quando ho 24 anni: lavoravo prima di Il giovane Montalbano e ho lavorato dopo. Per me, un film è meno centrale rispetto a un’amicizia: il contrario è una roba veramente penosa.
In Sei donne, la serie tv attualmente in onda su Rai 1, interpreti l’ispettore Emanuele Liotta. È colui che affianca nelle indagini la pm Anna Conti per far luce sulla scomparsa di Leila. E ha un compagno, Francesco.
Quello che più mi ha colpito della sceneggiatura di Cotroneo e Rametta e della direzione di Vincenzo Marra è il modo in cui è stato trattato il personaggio. Spesso ci focalizziamo su chi ama chi e quasi mai sul come si ama. Si può amare chi vuole, uomo o donna non ha importanza: l’importante è invece l’avere rispetto della persona amata e il come la si ama.
Penso sia fondamentale “normalizzare” anche la narrazione lgbtqia+ e andare oltre la domanda “cosa ha significato per te interpretare un ruolo gay”: ma perché quando interpreto un uomo etero mi chiedete com’è stato? È un controsenso. L’estremizzare un orientamento sessuale poteva andare bene qualche anno fa perché serviva da volano, da spinta, anche per sdoganare certe tematiche. Adesso occorre ritrovare la via della “normalizzazione”, riportare tutto su dei canali di “normalità” per evitare che l’orientamento sessuale diventi sempre qualcos’altro da sottolineare o che si racconti un “diverso” quando un omosessuale diverso non è.
Nel caso di Emanuele è bello che non ci sia nemmeno il bisogno di aggiungere spiegazioni al suo orientamento o di ripercorrere il suo background a tutti i costi.
Perché è arrivato lì? Che è successo? Perché è gay?... come se l’omosessualità scaturisse necessariamente da un trauma pregresso. Nasci omosessuale come nasci etero o biondo: non è successo proprio niente.
Non temi che ti si possa puntare l’indice per essere un attore eterosessuale che interpreta un personaggio omosessuale?
È una follia. Ho già sentito polemiche del genere ma sono una stronzata. Che vuol dire? Un attore può interpretare qualsiasi ruolo. Io, ad esempio, ho un lato femminile molto spiccato e lo tiro fuori quando sono chiamato a farlo per lavoro. Così come posso tirare fuori la mia parte nera come è già accaduto in alcuni lavori. Stando a questa logica, gli assassini devono essere interpretati da serial killer reali?
Gli attori devono essere in grado di poter interpretare tranquillamente personaggi vicini o diversi da loro. Sta alla loro capacità di interpretazione renderli credibili o meno: così come esistono attori eterosessuali che non sono capaci di recitare il ruolo dell’omosessuale esistono anche attori omosessuali che non riescono a recitare nemmeno loro stessi. È una questione di capacità professionale e non di orientamento.
Sono polemiche sterili che riportano al fatto che oggi si vive di immagine e non di racconto. Lo vedo anche da come sono ridotti i quotidiani: c’è uno scarsissimo approfondimento. Anche le grandi testate puntano, soprattutto online, al gossip, roba che mi ricorda una rivista che tutti quanti leggevamo da ragazzini.
Anche perché non è la prima volta che interpreti qualcosa a tematica lgbtqia+…
Ma Emanuele era il primo per cui l’orientamento sessuale non era una scelta di scrittura o di regia determinante. È solo se stesso e lo spettatore non viene distratto da altro: si deve concentrare sulla sua umanità, sul rapporto con la pm, sull’indagine… ma non sul suo orientamento sessuale. Quello è un dato di fatto.
Sia Anna sia Emanuele lottano per la scoperta della verità. Cos’è per te la verità?
Può sembrare banale ma la verità non esiste. Le verità più belle sono le bugie che ci raccontiamo. Spesso quando racconto fatti che mi sono capitati nella vita, magari riferibili anche ad amori passati o a momenti professionali, sono conditi anche da bugie… niente di grave, la mia vita è condita da piccole bugie che poi diventano verità. La verità è quella che viene raccontata.
I temi raccontati da Sei donne sono tanti. E uno di questi è sicuramente la vergogna: quasi tutti i personaggi femminili nascondono qualcosa per vergogna. Perché, dal tuo punto di vista, le donne hanno ancor più degli uomini la tendenza a interiorizzare la vergogna?
L’interiorizzazione della vergogna è dovuta anche a un trauma. Per anni le donne hanno dovuto reprimere un urlo interiore e costante. Volendo denunciare situazioni di violenza psicologica o fisica o reclamare diritti non ancora elargiti, non sono mai riuscite a far sentire pienamente la loro voce e ancora oggi risentono delle conseguenze, basti pensare al divario salariale.
Il tenere l’urlo dentro ha portato a interiorizzare la vergogna, un sentimento che gli uomini conoscono forse meno o avvertono come passeggero. Ma la vergogna può logorare, cambiare pensieri e modi di agire: ecco perché penso che la donna sia molto più temprata rispetto all’uomo.
Fortunatamente oggi molte donne sono riuscite a urlare liberamente. Abbiamo una Presidente del Consiglio, può piacere o meno ma non è il punto, e abbiamo una leader all’opposizione: le donne stanno iniziando veramente a prenderci per mano!
Quand’è l’ultima volta che hai provato vergogna?
Fino a ieri guardando la televisione e vedendo le immagini del naufragio dei migranti a Cutro. Vergogna e dolore per i bambini e le persone morte e per una situazione che si ripete costantemente e che è diventata insostenibile. Provo vergogna non solo come italiano ma anche come cittadino europeo perché anche tutta l’Europa ha la responsabilità sulle spalle della questione.
Sei donne è un thriller dalla risoluzione inaspettata. È stato difficile confrontarsi con certe tematiche?
Emanuele e Anna si avvicinano alla verità pian piano: scoprono insieme agli spettatori ciò che è accaduto. Da attore, pur avendo tutta la sceneggiatura in mano, ho preferito assecondare i tempi della storia e scoprire pian piano le carte. Una serie tv come Sei donne mostra in definitiva quanto spesso le persone, anche le più vicine a noi, possano nascondere dei lati inquietanti, un argomento a me caro.
In questo momento sto lavorando con Giuseppe Di Pasquale, regista anche del La concessione del telefono che ho interpretato in teatro, e con il giornalista Pietrangelo Buttafuoco a un adattamento teatrale di Il male oscuro di Giuseppe Berto. È da tutti considerato il libro cardine sulla depressione, che ha aiutato a decifrare il linguaggio della mente di chi ne soffre: ci si ritrova ad avere persone a noi molto vicine – amici o parenti – che sono depresse senza che ce ne rendiamo conto. Non sempre abbiamo un quadro completo.
A proposito di impegni, insegni anche recitazione ai giovani studenti…
È qualcosa che faccio solo in due scuole ed entrambe siciliane. Una a Palermo, Piano Focale, e una a Catania, il Laboratorio di recitazione Lucia Sardo & Marcello Cappelli. Mi piace restituire ai ragazzi quella che è stata la mia esperienza: è un modo per ritrovare quel ragazzo che a diciannove anni lasciava Palermo per andare a Roma…