In un panorama artistico dove le sfide personali si intrecciano indissolubilmente con quelle professionali, incontrare un’attrice come Alice Arcuri è un evento tanto raro quanto prezioso: con lei, si ha l’impressione di essere davanti a una di quelle enciclopedie da sfogliare pagina dopo pagina per farsi sorprendere, stupire e ammaliare da ogni singola scoperta.
A Roma per la promozione di Il Clandestino, la nuova serie tv di Rai 1 che la vede brillare nel ruolo di Carolina, Alice Arcuri si apre a TheWom.it con una spontaneità e una sincerità disarmanti. La sua è una storia di resilienza e determinazione, che parte tracciando le sfumature del personaggio che porta in scena, una donna che definisce come “fratturata". Tale frattura, tuttavia, non è vista come un limite, ma come una possibilità: è proprio attraverso le crepe dell'esistenza che, come insegna un noto adagio, può filtrare la luce. Carolina rappresenta, quindi, non solo la complessità e la profondità dell'universo femminile, ma anche la capacità di trasformare le proprie ferite in occasioni di crescita e scoperta di sé. Proprio come ha fatto la stessa Alice Arcuri.
In questa intervista, Alice Arcuri si rivela non solo un'attrice di talento, ma anche una donna di grande cultura e sensibilità, capace di navigare tra i dolori e le gioie della vita con un equilibrio ammirevole. Laureata in Lettere Moderne e con un passato da schermitrice, Alice Arcuri porta con sé il peso di una storia personale contrassegnata da sfide e superamenti, che ha saputo trasformare in una forza propulsiva verso la realizzazione di se stessa.
Con ironia e acutezza, Alice Arcuri ci guida attraverso il viaggio di Carolina e, parallelamente, il suo. Entrambe donne in cerca della propria voce in un mondo che spesso cerca di soffocarla, trovano nell'espressione artistica e nell'incontro con l'altro non solo una forma di resistenza, ma anche di redenzione. L'amore, ad esempio, che nasce in Il Clandestino tra Carolina e Luca, due anime segnate dalla vita, diventa metafora di un possibile riscatto, un bemolle dolceamaro che riesce a suonare una melodia di speranza.
Alice Arcuri non nasconde poi le proprie fragilità, né tantomeno le proprie conquiste. Dal superamento della displasia femoro-patellare alla passione per il teatro, scoperta quasi per caso e divenuta poi bussola della sua esistenza, fino al (momentaneo) addio al palcoscenico in seguito alla morte del suo mentore, ogni episodio della sua vita si intreccia indissolubilmente con il suo essere artista. Eppure, la decisione di aprire un nuovo capitolo della sua carriera, orientandosi verso la televisione, non è che l'ennesima dimostrazione della sua irriducibile voglia di esplorare, di mettersi in gioco, di vivere intensamente ogni sfaccettatura dell'esperienza umana.
Attraverso le parole di Alice Arcuri, emerge dunque il ritratto di una donna che, pur attraversata da "fiordi di dolore", non si è mai arresa alla tentazione dell'autocommiserazione. Una donna che, come Carolina, cerca di fare i conti con le proprie "fratture", non per nasconderle, ma per illuminarle e, forse, per guarirle. Una donna, infine, che crede fermamente nella bellezza della vita, nonostante tutto. Questa intervista è, quindi, non solo un viaggio nel mondo interiore di un'attrice eccezionale, ma anche un invito a riflettere sull'importanza di riconoscere e accettare le proprie vulnerabilità come fonte inesauribile di forza e creatività.
Intervista esclusiva ad Alice Arcuri
“Sono appena arrivata in albergo a Roma”, mi risponde Alice Arcuri quando la raggiungo al telefono. Si trova nella capitale per la promozione della serie tv di Rai 1 Il Clandestino, in cui interpreta il personaggio di Carolina. “Essendo celiaca, al buffet non c’era niente da mangiare per me, attendo una Coca-Cola e cominciamo”, aggiunge, rivelando subito un dettaglio di cui non ero a conoscenza. “Ho imparato a conviverci e ho i miei mezzi: mi sono ingoiata una banana tipo pellicano, di nascosto: un po’ di zuccheri in corpo ce li ho”, ride.
“Mi sono detta: sono bionda, mi sono vestita di rosa, però mi hanno fatto studiare: da qualche parte devo far capire che ho un cervello che pensa”, aggiunge ironicamente Alice Arcuri quando le ricordo un’espressione usata in conferenza stampa (“fiordi di dolore”) e la bella citazione da Italo Calvino, su cui i presenti hanno poi scherzato.
In conferenza stampa, hai anche definito Carolina come una donna fratturata. È un interessante spunto di partenza per un personaggio femminile che, allontanandosi da ogni cliché, non è né bianco né nero ma contiene in sé infinite sfumature.
Credo ci siano fratture in ognuno di noi e, come dice quel saggio, è da lì che entra la luce. Carolina è una donna fratturata perché ha un passato che verrà fuori molto lentamente nella serie ma che non è totalmente sviluppato: c’è il sentore che ci sia qualcosa che ancor non è stato raccontato. Partendo già dal suo background, si capisce che c’è qualcosa che non va. Si ritrova catapultata in una società milanese, superficiale e poco portata all’ascolto, e le sue fratture sono quelle di una donna della sua età.
Gli sceneggiatori sono stati molto bravi nel delinearla: ha un’età in cui, con una figlia adolescente e un ex marito, si è smarcata da tutta quella zona che a noi donne è richiesta, come se facesse parte di un nostro percorso stabilito: quella in cui occorre sposarsi e fare dei figli. Facendolo, è arrivato per lei il momento di domandarsi ‘Ma io chi sono al di là del ruolo che svolgo all’interno della società? Qual è la mia missione nel mondo? Sono stata portata qui per fare cosa?’. E, nel cercare il proprio io e la propria individualità, è chiamata a fare un salto nel vuoto.
Ha dunque questa grande frattura interiore che non le fa vedere ciò che in psichiatria definiscono l’Es, la parte più intima: non riesce o non vuole vederlo perché ne è spaventata. Ha scritto un libro che ha avuto successo, un successo che non crede di meritarsi. Sono la sindrome dell’impostore e la sua fragilità che la spingono ad accompagnarsi sempre a qualcuno in senso maschile, che sia l’ex marito o Tartaglia: è come se non riuscisse a camminare con le sue gambe.
L’incontro con Luca la cambia radicalmente. Ma sia Carolina sia Luca sono due anime fragili, come le chiamerebbe Fabrizio de André. Non sono due esseri umani nel pieno della vitalità come potrebbero esserlo due trentenni spinti dalla voglia di fare: hanno avuto già tante bastonate dalla vita nel momento in cui si incontrano. Benché siano caratterialmente all’opposto e rappresentino due zone della società che difficilmente entrano in contatto, tra i due nascerà l’amore: se fossero due strumenti musicali, suonerebbero un bel bemolle.
Attrice teatrale, televisiva e cinematografica. Grande lettrice. Laurea in Lettere Moderne e diploma al Teatro Stabile di Genova. E alla vigilia dei quarant’anni. Ti senti una donna più intera rispetto a Carolina?
Ho una vita veramente particolare: sono nata fratturata. Ho tirato di scherma a livello agonistico per anni ma intorno agli undici anni ho scoperto di avere una displasia molto rara… si chiama displasia femoro-patellare, ho dovuto interrompere lo sport e mia madre mi costrinse a fare un corso di teatro, obbligandomi. Andai controvoglia ma poi durante il saggio di fine anno ebbi una specie di epifania: sono stata attraversata da quello che viene chiamato daimon. Da quell’esperienza ho capito che quello della recitazione poteva essere un linguaggio attraverso il quale avrei potuto esprimermi, durante un periodo difficile sia per me sia per la mia famiglia: abbiamo girato tutt’Italia e avrebbero voluto sottopormi a interventi chirurgici agghiaccianti prima di andare negli Stati Uniti per le cure.
Per tantissimi anni mi sono sentita una bambola uscita male da una fabbrica. Sono sempre stata tutta storta ma osanno le mie fratture: tutte le facciate che ho preso mi hanno aiutata a essere qui oggi a fare un mestiere che non era nemmeno quello che volevo… provenendo da una stirpe di medici, avrei voluto fare il cardiochirurgo o il veterinario. Forse è anche questa la ragione per cui incito mio figlio, che ha dieci anni, a sbagliare: è facendolo che si arriva all’unico goal della vita, la comprensione di sé. È davanti all’errore che capisci chi sei davvero, come reagisci: ‘Ho sbagliato? Bene. Sbaglierò meno’.
Certo, è un percorso lungo ma occorre capire che non si può rimanere vittima delle proprie fratture: cerco ad esempio di ridurre sempre più il tempo della lamentela per capire cosa si può nascondere dietro a tutto ciò che accade. Ma, poi, chi non è fratturato? Ogni frattura è relativa: quella che per me può essere molto grave per altri non lo è e viceversa. Volo quando penso all’umanità fragile e credo che il nostro mestiere aiuti a parlare dell’uguaglianza della vita faticosa. Ecco perché, quando mi ritrovo a spiegare a mio figlio determinati avvenimenti, rispondo sempre che la vita è bella perché è bello cadere: “se cadi, ti rialzo oppure mi sdraio accanto a te”. E il mestiere di attore serve anche a questo.
Frase molto bella, direi…
Mi è rimasta impressa sin dalla prima volta in cui l’ho letta. Appartengo a coloro che credono nell’umanità. Certo, mi incazzo quando mi rubano un parcheggio o quando la gente mi passa davanti alla fila ma sono una persona che cede poco al pregiudizio. Penso sempre che dietro al comportamento altrui si celi qualcosa e credo che fare il nostro lavoro sia una responsabilità civile, anche quando interpreti personaggi scomodi e antipatici, di cui cerchi sempre di trovare il perché delle azioni.
Il tuo percorso di vita sembra essere fatto di tante cadute e rialzate. Hai accennato alla scherma ma ti porto al tavolo della discussione un’altra data: il 2021, l’anno in cui è morto Marco Sciaccaluca, il tuo maestro, e tu hai preso una decisione netta.
È qualcosa di cui parlo sempre ben volentieri quando me ne viene data l’occasione. Marco per me è stato un mentore e un padre acquisito ma rappresenta soprattutto quella parte di cultura che in Italia c’è, esiste ed è poco glamour. Mi ha insegnato l’umiltà, l’amore per l’umanità, l’amore e il rispetto per il testo (è sacro) e la pazienza. Tendenzialmente vorrei tutto e subito, come tanti, ma Marco mi ha insegnato a saper aspettare che le cose fiorissero da sole.
Quando se n’è andato, si è portato via tutto. Il giorno del suo funerale, al Teatro della Corte, ho recitato un bellissimo sonetto di Shakespeare e, mentre lo facevo, mi sono guardata intorno e mi son detta che non sarei mai più entrata in un teatro. Ho fatto una scelta molto ‘calabrese’: basta teatro. Non concepivo l’idea di dover fare quel tipo di lavoro insieme qualcuno di diverso da Marco: ci sono tanti registi ma pochi maestri.
Il cambiamento è stato netto e drastico. Ho cambiato agenzia e ho trovato una persona fantastica come Fiorella Giannelli, una donna elegante, colta e sensibile a cui ho espresso il mio desiderio di voler fare televisione: “Ci metteremo un paio di anni ma ce la faremo” è stata la sua risposta. Ho sentito come la responsabilità di portare avanti il mio modo di lavorare un po’ genovese, senza menarsela troppo.
Noi genovesi siam così: studiamo, arriviamo, facciamo ciò che dobbiamo fare, lo facciamo bene e con poche dietrologie, senza pensare se siamo bravi o meno. Pur non capendo molto di calcio, direi che siamo come quei giocatori che corrono sulla fascia. E siamo abituati a scontrarci con un grande tasso di giudizio: il teatro è veramente difficile perché ti porta a confrontarti con testi inarrivabili e con battute che a volte capisci dopo mesi e mesi di tournée. Non puoi pensare di essere ‘sto grande attore ma devi provare a dare il meglio di quello che sai fare.
Eppure, a teatro sei ritornata. E proprio quest’anno con una robetta ‘semplice’: Il rito di Bergman…
Mi ha chiamata Antonio Zavatteri, un mio collega da vent’anni. Sapeva che gli avrei risposto di no ma mi ha invitato a leggere il testo. Prima di farlo, però, ne ho parlato con mio figlio, in cucina con me. Avevo appena terminato le riprese di Il Clandestino, ero stata via sette mesi e volevo capire se fosse pronto a sopperire ulteriormente alla mia mancanza, una mancanza che è soprattutto mentale dal momento che divento come un’atleta che si prepara alle Olimpiadi, ossessionata dal lavoro in maniera sana. Solo al suo ‘sì’ ho letto il testo e l’ho trovato favoloso: il mio ruolo era incredibile.
Sono dunque andata a studiarmi tutto ciò che c’era dietro alla scrittura, i libri, i testi e tutto ciò che Bergman ha appuntato sui tre personaggi del testo, che rappresentato l’Es, l’Io e il Super Io. Ho scoperto così come fosse un testo che parlava dei riti dionisiaci e della forza che c’è dentro ognuno di noi, poco capita dalla società.
Quella di Bergman è anche una riflessione sull’essere attore, sull’arte e sulla libertà.
Per me, essere attrice è libertà. Sono due parole che vanno all’unisono: da artista, ho bisogno di essere lasciata libera, anche di sbagliare. Sono un’attrice che ha bisogno del rischio di prendere dei 5 per poi avere dei 10. Ma sono anche un’attrice che pensa molto prima di arrivare alle prove o sul set: porto sempre con me un bagaglio molto forte di lavoro personale perché ho scoperto che è la cosa più difendibile che esista. E mi piace farlo.
Essere attrice significa la possibilità di vivere mille vite, di cedere agli altri aspetti molto intimi del tuo carattere, di dare libero sfogo a emozioni che nella vita devi per forza tenere compresse e di entrare in relazione con gli altri. Credo che i momenti più belli della mia vita d’attrice siano stati i momenti di comunicazione profonda che ho avuto con i miei partener in scena: mi hanno visto come nessuno dei miei conoscenti o amici avevano potuto, trasformata. Non è un caso che il primo gioco che si fa a scuola di recitazione sia quello di guardarsi negli occhi intimamente…
E, siccome nel mondo è difficile stabilire una connessione vera per paura non solo di svelarsi ma anche di essere contenitore dell’atro, credo che recitare per me sia un mezzo per sentirmi meno sola e per comprendere che l’unione fa la forza. Di mio, ho un ego molto forte (non farei altrimenti questo mestiere) ma non quando recito, provo a mettermi totalmente da parte. Da ciò nasce anche il desiderio di interpretare personaggi molto diversi da me e che mi mettono ‘scomoda’: non mi piace reiterarmi. Ed è per questo che dopo quello in Doc – Nelle tue mani, il mio primo ruolo televisivo ma anche quello che mi ha dato la possibilità di farmi conoscere, sono arrivati personaggi molto diversi tra loro.
Quello di Carolina, ad esempio, è un ruolo che mi ha messo molto in difficoltà perché luce, entusiasmo, gioia, delicatezza e morbidezza sono aspetti di me che lascio scoprire agli altri con molta calma. In questo, sono un po’ genovese e un po’ calabrese: ho bisogno di molto tempo… sono affabile ma è come se nelle fondamenta di casa mia lasciassi entrare pochissime persone. Ma, una volta entrate, sono libere di starci quanto vogliono.
L’aggettivo ‘calabrese’ è tornato fuori per la seconda volta.
Tengo moltissimo all’altra metà delle mie origini. Nonostante sembri uscita dal Galles, con i miei capelli rossi (anche se ora sono biondi) e il mio viso anglosassone, mio padre è metà napoletano e metà calabrese mentre mia madre è metà siciliana e metà lombarda. La mia famiglia è del sud tant’è che abbiamo tutti caratteri molto complessi e portiamo avanti tradizioni secolari: tutti i maschi si chiamano Valentino o Francesco da sei generazioni, in onore ai nonni.
Di mio, difficilmente non dico quello che penso, do delle avvisaglie e, quando prendo una decisione, è finita. Per lo meno, è così che mi hanno descritta. Quando crescevo, mia madre mi diceva che ero profondamente cocciuta ma non capivo, oggi invece sì: benché ci siano state tante cose che non ho mai portato a compimento, ho sempre avuto tantissime passioni o hobby che ho abbandonato solo quando mi è stato detto che avevo fatto un capolavoro… solo allora potevo passare ad altro, dopo essere arrivata fino in fondo. In questo periodo, ad esempio, ho la passione per il pane: panifico e faccio crossfit, devo raggiungere determinati risultati.
Di dove erano i tuoi?
Mia madre è originaria di Piazza Armerina, dove però non sono mai stata. Ma sono stata anni fa a Castrovillari, il paese di mio padre in Calabria, per portare lì le ceneri di un mio prozio che voleva essere seppellito lì, nella tomba di famiglia, dove sono sepolti anche mia nonna e mio nonno. Mio padre vuole essere invece disperso in mare e lo accontenteremo… Vado, invece, molto spesso per lavoro a Napoli, dove ho ancora i parenti: è una città che mi piace da morire e in cui ho veramente voglia di vivere.
Tornando al teatro: cosa hai pensato quando, dopo ben sei anni di assenza da un palcoscenico, hai ritrovato il pubblico davanti a te?
Sono salita sul palco con un corpo diverso e con il forte desiderio di farmi attraversare dalle emozioni dalla punta dei piedi all’ultima falange delle dita. Mi piace essere spiata dalla camera, percepisce qualsiasi movimento o pensiero tu abbia, ma su un set si lavora sempre per sottrazione e, benché ti richieda un livello di concentrazione poco mentale, devi essere lì. A teatro, invece, è differente: a volte, puoi anche fingere di esserci ma la battuta va comunque da sé. E io avevo voglia che il mio corpo rivivesse quelle sensazioni, di sudare e di stare in quel luogo carico di silenzi e odori che mi mancavano molto.
Tuttavia, all’inizio è stato molto doloroso. Oltre alla morte di Marco, a pesarmi era il fatto che il teatro che ero abituata a fare io non esisteva più. Ero abituata a spostarmi di piazza in piazza con il mio baule, Ernesto, comprato il secondo anno in cui lavoravo: è alto un metro e sessanta, risale alla fine dell’Ottocento e ho fatto una fatica incredibile per trovarlo, ma veniva sempre con me da contratto. Ma quel teatro lì non c’è più: poco prima della scomparsa di Marco, sono entrate in vigore le leggi che regolamentano i vari teatri, meno tournée e più spettacoli in sede.
Però, avevo anche voglia di rimanere isolata dal mondo per un’ora e mezza. Su un set, il telefonino è sempre a portata di mano e la tentazione di controllarlo, per quanto io cerchi di farlo il meno possibile, c’è sempre. Quando sei in scena a teatro, invece, non puoi farlo: qualunque cosa succeda all’esterno, lo spettacolo non si interrompe… è come se vivessi in una dimensione temporale sospesa.
E sentivo il desiderio di tornare a dire delle parole meravigliose. Sono una grande parolaia, mi piacciono le parole e amo i sinonimi e i contrari. Mi esalto di fronte alle parole di tutte le lingue e, quindi, avere la possibilità di rimettersi in bocca parole che hanno un suono meraviglioso non ha eguali.
Sì, lo so che chiacchiero un casino ma ho quasi terminato la risposta (ride, ndr). A teatro, ci sono dei momenti in cui senti che respiri insieme al pubblico, di condividere il silenzio, di avere la possibilità di far appello a qualcosa di emotivo e di essere sorpresa dalle emozioni. Può capitare anche su un set di farsi sorprendere ma non dopo la terza o la quarta volta che ripeti una scena: con Bergman, il risvolto emotivo non sai mai quando arriverà ed è favoloso.
Dieci anni fa hai scelto di diventare madre. Ha portato delle complicazioni da un punto di vista professionale?
Ho iniziato a lavorare a 21 anni. A 22 anni interpretavo già ruoli molto grandi, complicati da gestire e spesso schiaccianti. A trent’anni, quindi, mi sono accorta di aver fatto già un po’ di strada. Per certi versi, è come se non avessi mai fatto la gavetta: sembra bello da dirsi ma è come se mi avessero dato in mano una Ferrari senza conoscerne il meccanismo… se mi fossi schiantata, sarebbe finita. Essendomi sposata molto giovane, a 27 anni, ho realizzato che quello era il momento giusto per prendersi del tempo e avere un figlio, fortunatamente arrivato subito.
La sua nascita non mi ha tolto nulla, anzi… mi ha dato tanto. Ha scandito il tempo in maniera diversa, ha fatto chiarezza dentro di me e mi ha permesso di capire cosa all’interno del mio ingranaggio non funzionasse. Mi ha anche tolto una certa forma di pigrizia che avevo soprattutto sul lavoro: avendo una tecnica molto sviluppata e alcune piccole skills di talento, ciò che facevo molto spesso non era secondo me abbastanza… avrei potuto fare di più, ovviamente non in termini di quantità. E, soprattutto, mi ha tolto di torno tutto quello che poteva rappresentare il giudizio che gli altri avevano su di me.
Pregiudizio: per molto tempo, in Italia, si è sostenuto che gli attori teatrali in televisione o al cinema non avrebbero mai funzionato.
Ovviamente, in altri Paesi, non è così: a Londra Kenneth Branagh è tutti i giorni a teatro. Si tratta semplicemente di un’attività diversa: il teatro è una lunga maratona, un trail running, mentre la serialità o il cinema sono degli allunghi di cento metri. Con la grande differenza che il teatro ti ossessiona.
Ancor prima della morte di Marco, ho cominciato a maturare l’idea di distaccarmi dal teatro quando ho interpretato Nina nel Gabbiano di Cechov, uno di quei personaggi che tutte le giovani attrici vorrebbero recitare… io no, perché ne avevo già capito la portanza e la difficoltà. Per interpretarla, ho preso un aereo, sono andata a Londra, ho visto tre spettacoli, ho visto la versione di Nekrošius e ho lavorato con un acting coach eccezionale per restituire una Nina inaspettata, una donna che non si piange addosso e che sembra sotto costante effetto di metanfetamine e cocaina.
Dopo sei mesi di tournée, non ce la facevo più: venivo attraversata dal dolore, sentivo il mio corpo piangere tutte le sere. La serialità o il cinema, a meno che non siano prodotti autoriali, non richiedono tanta fatica e verticalizzazione per arrivare a tale profondità.
In Italia, però, c’è la convinzione che gli attori teatrali siano tutti dei tromboni, per cui il passaggio da un mezzo all’altro è sempre stato difficile. Forse perché l’epicentro del cinema è sempre stato a Roma e quello teatrale altrove? Può darsi, certo, ma dipende anche dal rapporto che il nostro sistema culturale ha con il teatro. Ma la verità è una sola e inconfutabile: il teatro è in piedi da più di 2500 anni e nessuno potrà mai inventarsi nessuna storia nuova e inedita.
Chi ha studiato profondamente i testi greci e latini (soprattutto i primi) sa che ci muoviamo sempre tra continui archetipi. La mia tesi di laurea si incentrava sulle analogie tra l’Amleto e l’Orestea: nonostante Shakespeare non avesse letto i greci, i collegamenti erano evidenti. Quando per anni leggi e studi autori, poeti e sommi artisti che sono riusciti a verbalizzare ciò che noi pensiamo, capisci che far televisione è come suonare qualcosa di differente.
Può sembrare brutto e snob dirlo (ma non lo è) ma è come passare dal suonare Beethoven a suonare Chopin, due cose molto diverse: l’attore teatrale ha skills diverse da quello televisivo, a partire dal modo di stare in scena e dalla relazione con il pubblico. È vero che dietro una camera su un set c’è del pubblico ma la macchina non ti giudica: a teatro invece sei costantemente esposto al giudizio della signora che ha litigato con il marito e non ha voglia di vedere lo spettacolo, dell’addetto ai lavori che ha la fidanzata attrice che al tuo posto avrebbe fatto meglio e da tutta un’umanità con i propri pensieri. La camera, da questa prospettiva, è onesta.
Qual è il pregiudizio maggiore che hai dovuto combattere?
Quello di essere una raccomandata, soprattutto in ambito teatrale. No, non sono mai stata raccomandata, anche perché non riesco a provare gioia se davanti a me ho qualcosa di facile o costruito. Preferisco sempre e comunque sostenere un provino, anche a rischio di perderlo, ma non voglio scorciatoie. Non mi divertirei ma forse sono fatta male: non mi piace quando tutto mi risulta semplice. Preferisco lo studio… anche ora, per panificare, ho comprato libri e mi sono messa a studiare il più possibile. Mi definisco un po’ nerd, mi piace arrampicarmi per arrivare alla vetta, con i suoi tempi: l’esatto opposto di chi nella società contemporanea vuole tutto facile, veloce e subito. Non mi piace come pensiero, non lo accetto.
Ed è forse legato agli anni di scherma?
Sì, credo proprio di sì. A me piace l’agonismo, la sana competizione. L’invidia non mi è mai appartenuta e non la conosco, anche grazie all’insegnamento della mia famiglia. Quando ero piccola, mia madre mi disse che ci sarebbe sempre stata qualcuna più bella, ricca, di successo, simpatica o brava di me, ma che avrei comunque dovuto trovare il meglio che c’era in me, senza pensarci troppo.
La scherma mi ha insegnato la disciplina. Mi ha insegnato a combattere o, meglio, a fare entrare i mostri che possiamo incontrare e ad affrontare gli impicci, anche difficili, che la vita ci pone di fronte, come le malattie. Ho avuto un percorso segnato a lungo dalle malattie, ne sono stata assediata, ma non conosco le paure. Non ho paura della paura: la affronto, la faccio entrare e la guardo in faccia. Ciò mi ha permesso di essere sempre in grande contatto con me stessa e di nascondere pochissime cose sotto il tappeto. Vivo una vita libera da ansie ma questo non significa che non abbia grandi fragilità e debolezze.
Purtroppo, sono nata forte e a volte la forza è stata un mio grande difetto. Prendo di petto qualsiasi cosa, affronto tutto, metto pietre nel mio zaino e vado avanti fino a quando, ogni tanto, non mi fermo perché sfinita. Ma poi ricomincio nuovamente, con grande fiducia. Per me, il bicchiere è sempre mezzo pieno e, anche quando è vuoto, lo riempio da sola. Perché mi rendo conto della fortuna che ho: la nascita di mio figlio è stato il mio gol in una zona molto difficile della mia vita.
Quando è nato, mi avevano diagnosticato una malattia che ho poi curato e da allora, nei momenti di grande buio, mi dico che la mia missione è di cercare di essere felice ogni giorno, svincolata dagli agenti esterni come il lavoro, le relazioni amorose o i soldi. Mio figlio è una delle mie più grandi luci, insieme agli amici che mi amano, che amo e a cui dedico tantissimo tempo.
La scherma mi ha insegnato che ci sono momenti in cui puoi cedere alla paura o allo sforzo fisico e altri in cui vai come un samurai in una zona di te in cui nessuno entra mai. In questo, è molto simile alla recitazione: ci sono dei posti in cui sento silenzio, un silenzio raro che entra in contatto con qualcosa di te di davvero prezioso.
Fragilità: è tuo figlio la tua più grande fragilità?
È la mia unica fragilità. Ho avuto dei genitori eccezionali e un fratello fantastico: credo nella famiglia intesa come team. Mia madre mollerebbe qualsiasi cosa: se mi trovassi dispersa sulle Ande, riuscirebbe a trovarmi. Ed è anche una delle poche persone che ha la capacità di rinfrescarmi nei momenti di sconforto o nelle giornate no. Donna molto intelligente, ha un’empatia e una forza incredibili. Mio padre è invece un grandissimo intellettuale, ha fatto il medico e ci ha insegnato l’amore e la dedizione per gli altri. È anche un cittadino esemplare. Mi hanno cresciuta in un determinato modo e, da quando sono madre, sento la responsabilità di rendere mio figlio migliore di me.
Sento tantissimo anche la responsabilità di crescere un maschio migliore di quelli che ho conosciuto io, anche se questi sono sempre stati brave persone. Vorrei che fosse pronto per questa società in evoluzione, che possa amare le donne, che possa essere gentile con tutti e che non abbia paura di sbagliare. Lo vorrei pronto a ogni tipo di accettazione e inclusione: per me, sarebbe un fallimento saperlo ad esempio un bullo. Pericolo che al momento non c’è: di recente, mi hanno chiamato da scuola per un episodio occorso a un suo amico, preso di mira da altri, e da lui invece difeso. Una volta a casa, gli ho fatto i miei complimenti: è così che si fa, difendere sempre i più deboli e mai aggregarsi.
Non sopporterei nemmeno un figlio bugiardo: c’è poco coraggio sotto le bugie. E vorrei che avesse delle passioni: qualsiasi cosa vorrà fare nella vita, l’importante è che ci metta il cuore e che dia il meglio che possa. Sono convinta che se tutti lo facessero, il mondo sarebbe un posto migliore.
Vivi a Genova perché non sapresti stare lontana dal mare.
Non so stare senza vedere il mare. Mio nonno era un pescatore, così come mio padre. Già a due anni e mezzo andavo con loro in barca a buttare i palamiti: mi tiravano giù dal letto alle quattro del mattino, mi infilavano una focaccia in bocca, mi compravano due Topolino per non rompere troppo le scatole e mi portavo con loro. In barca, mi riaddormentavo e poi mi risvegliavo per tirare su i palamiti. Pesco tuttora anch’io e pure bene (ride, ndr).
Andavamo così al largo che non si vedeva più nemmeno la costa. “Finalmente il mondo si dimenticherà di noi e noi ci dimenticheremo del mondo”, pensavo. Eravamo immersi nella natura e per me la natura ha un ruolo fondamentale. Se fossi un agente atmosferico, sarei vento…
Ho bisogno di vedere il mare perché mi restituisce l’idea dell’infinito. È una necessità di cui ho bisogno, soprattutto quando a Genova spesso mare e cielo hanno lo stesso colore, restituendoti l’idea del Truman Show: chissà cosa c’è oltre…
E, a proposito di mare, da fine aprile ti vedremo in Viola come il mare 2.
In ruolo che vira molto sul comico. Già dal provino, con Alexis Sweet, regista inglese molto simpatico, ci siamo accorti che c’era la possibilità di calcare su quel tono e ci siamo tanto divertiti a farlo: sul set, sono stati diversi i momenti in cui sentivo che sghignazzava dietro ai monitor. E sono felice del risultato perché di mio sarei orientata per i ruoli comici perché sono buffa e anche molto goffa. A differenza della Cecilia Tedeschi di Doc, sono una gran disordinata, oltre che essere veramente selvatica. Se fossi un cartone animato, sarei Mowgli del Libro della giungla!
Il clandestino: le foto della serie tv
1 / 54Alla luce anche del percorso personale segnato da diverse sofferenze, che rapporto hai con il tuo corpo?
Il rapporto con il mio corpo ha avuto un’evoluzione sensazionale. Sono cresciuta nel branco dei maschi quindi non ho mai dato peso alla mia femminilità, gestita quando è arrivata in maniera anche molto semplice. Forse è questa la ragione per cui ancora oggi me la porto addosso in maniera inconsapevole.
La mia malattia a undici anni ha segnato però una cesura forte. Ha portato a un periodo molto difficile a causa di un medico che mi disse di avere le gambe storte: guardandomi nello specchio di quell’ortopedico, per la prima volta realizzai che era vero. Prima, non le avevo mai guardate come un oggetto per cui considerarne la qualità… quindi, per anni non ho portato gonne, non mi piacevano le mie gambe e ho sognato che qualcuno me le segasse.
Per molto tempo, ho dovuto sottopormi a fisioterapia e, solo dopo, ho potuto ricominciare a praticare sport. Mi era stato detto che non avrei più potuto correre ma, avendo imparato a sopportare il dolore sin da giovane, un giorno mi son rotta le scatole e ho cominciato a farlo. Ho corso per 10 km, dopo i quali sono scoppiata a piangere perché avevo affrontato la mia paura più grande e mi sono liberata dal blocco nei confronti del mio corpo.
Oggi pratico crossfit, uno sport comunque molto violento ma che ha a che fare con la gestione della paura. E il rapporto con il mio corpo è eccezionale perché non lo vedo più in quanto oggetto da misurare. Mi sento bellissima perché il mio corpo funziona bene, perché mi piace quello che può fare e perché lo rispetto tantissimo.
Come donna, non mi sono mai domandata se fossi abbastanza bella o piacente. A me interessava solo sentirmi bene dentro al corpo che mi era stato donato e che era nato sbilenco. La bellezza è poi negli occhi di chi guarda: ho delle brutte mani ma a una persona con cui ho avuto una bellissima relazione in passato piacevano. Non ho mai amato la perfezione e non l’ho mai ricercata: mi annoia. Mi piace tenermi bene ma per sentirmi bene, anche in ciabatte e in tuta.
Arcuri: qualcuno ti ha mai chiesto se fossi parente di Manuela?
Durante un esame all’università, molto difficile tra l’altro. Risposi che era una mia lontana cugina e mi ha portato bene. Il cognome, del resto, è lo stesso e ha le stesse origini ma fisicamente siamo molto diverse.
C’è un ruolo che ti piacerebbe interpretare in questo momento?
Il detective. Mi piacerebbe girare un action movie, sparare, tirare pugni… far quelle cose che impari in mesi di training. Ma mi diverto moltissimo a interpretare anche la cattiva della situazione. Sono a un punto in cui non mi chiedo quali siano i sogni da realizzare: al momento, mi chiedo dove sono i miei desideri. Sono ancora alla ricerca di una risposta, anche se il mio lavoro mi permette di far sentire la mia voce, di raccontami e di guardarmi dentro.
“Una bionda vestita di rosa”, si è aperto così il nostro incontro. Come va con quel pregiudizio lì?
Siamo sulla giusta strada, ce la faremo. Dopo aver visto il film La società della neve, mi sento come Fernando: mi è stata data la skill della responsabilità per gli altri e va utilizzata. Non per una questione di vanità: quando ti vengono dati dei doni molto faticosi, devi capirne la peculiarità e usarli, soprattutto quando sei all’interno di un gruppo di persone.
Sul set di Viola come il mare 2, spronavo i ragazzi più giovani a non lasciarsi spaventare delle difficoltà: le paure vanno affrontate. Non sento nemmeno quella morte: mi dispiacerebbe semmai pensare di aver sprecato tempo. Come in un film di Nolan, il tempo è l’unica legge a cui dobbiamo sottostare.