Alice Filippi, regista degli episodi 3 e 4 di Hanno ucciso l'Uomo Ragno – La leggendaria storia degli 883 in onda venerdì 18 e dell’episodio 6, non solo ha vissuto in prima persona l'epoca che ha visto nascere il mitico duo, ma ha trovato nella serie tv Sky un’opportunità di riscoperta e crescita. Quello che emerge chiaramente dalla sua intervista è il profondo legame che ha stabilito con la storia di Max Pezzali e Mauro Repetto, due ragazzi di provincia che, pur senza grandi aspettative, hanno cambiato la musica italiana. Questo stesso spirito di tenacia e sogni in apparenza impossibili ha colpito Alice Filippi fin dall'inizio.
Quando le è stata offerta la possibilità di partecipare alla serie, la sceneggiatura non l’ha conquistata solo per il fascino nostalgico degli 883, ma soprattutto per i temi universali che ancora oggi risuonano con forza. Alice Filippi stessa ha riconosciuto nella determinazione di Max e Mauro, che non avevano neanche una chiara idea di come iniziare a fare musica, una storia di amicizia e perseveranza che può parlare tanto agli adulti quanto ai giovani di oggi.
Rivedendo negli occhi dei protagonisti quelle stesse emozioni e sfide che lei stessa, nata nel 1982, aveva vissuto negli anni '90, Alice Filippi ha saputo trasformare insieme a Sydney Sibilia e a Francesco Ebbasta la serie tv in un racconto che va oltre l’iconicità della band. Di suo, è poi riuscita a riportare in vita l'essenza della provincia italiana, fatta di sogni grandi e di paure, ma soprattutto di persone normali che, grazie a un'amicizia straordinaria, riescono a superare ogni limite.
Questa è la vera forza del progetto: Alice Filippi ci ricorda che le storie più potenti non sono quelle di eroi lontani, ma quelle in cui ognuno di noi può riconoscersi, e che, come gli 883 ci insegnano, anche i sogni più improbabili possono diventare realtà. Il racconto pian piano diventa però sempre più ampio e, nel ripercorrere la sua personale esperienza, Alice Filippi racconta cosa ha ad esempio significato per lei dirigere un film come Sul più bello mentre privatamente viveva quello che definisce il periodo peggiore della sua vita o cosa la spinge tutti i giorni a volersi occupare di regia.
Emerge così il ritratto di una regista che, in continua evoluzione, rifugge ogni etichetta e guarda sempre in avanti, con la voglia di mettersi in gioco e testare anche i propri limiti. Con o senza pasta abrasiva.
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Intervista esclusiva ad Alice Filippi
Cosa ti ha convinto a prender parte a un progetto che raccontasse la storia degli 883?
Qualche anno fa avevo visto un post su Instagram con la foto di un cadavere sotterrato la cui mano usciva fuori, come nella copertina del disco Hanno ucciso l’Uomo Ragno e con la scritta “Chi sia stato non si sa” rimandando a un generico “prossimamente” quello che sembrava essere un progetto sugli 883. In quel preciso istante mi son detta che era una meraviglia l’idea di qualcosa sul gruppo e mi son mangiata le mani per non averci pensato io…
Ma, per ironia del destino, è poi toccato a me quasi per caso far parte della triade che ha diretto la serie tv in onda su Sky. Mi trovavo in Groenlandia, la casa di produzione, per altro quando, una volta letta la sceneggiatura dei primi episodi, sono stata immediatamente conquistata da come attraverso il pretesto degli 883 si parlasse di sogni, amicizia e talento. E poi per chi come me ha vissuto quegli anni si trattava di fare un bel tuffo nel passato.
La serie ha la straordinaria capacità di parlare anche ai ragazzi di oggi.
Ha al centro una storia totalmente universale con protagonisti due ragazzi che vogliono fare i musicisti ma che, non sapendo suonare, non sanno nemmeno da che parte cominciare. Considerando le loro origini e la loro provenienza, hanno un sogno troppo grande ma non demordono e non mollano, grazie anche alla loro grandissima amicizia. Ed è questo che mi ha illuminata: il bellissimo messaggio insito nel racconto, in grado di arrivare anche ai giovanissimi che non sanno chi siamo gli 883: seppur non li abbiano mai vissuti per questioni anagrafiche, questa storia parla anche di loro…
…perché quello che in fondo stupisce è la straordinaria normalità dei due protagonisti, due ragazzi di provincia come tanti. E il mondo della provincia è lo stesso in cui sei cresciuta tu: cosa sognavi negli anni Novanta?
Quando gli 883 muovevano i loro primi passi, ero piccolina: avevo dieci anni. Ho cominciato ad ascoltarli e mi hanno accompagnato fino ai vent’anni, per tutti gli anni del liceo. Come tutti i ragazzi di provincia, sognavo di andare in America… un sogno che al quarto anno delle superiori si è poi concretizzato ma ho impiegato un anno a convincere mio padre a lasciarmi partire. Ovviamente era contrario all’idea che partissi da sola per gli Stati Uniti per un anno e tutti i giorni stavo con a portata di mano il figlio a cui mancava solo la sua firma e due o tre penne… “Se si decide a firmare e la penna non funziona, sono finita”: era il mio incubo!
Hanno ucciso l'Uomo Ragno: Foto episodi 3 e 4
1 / 9Un legame quello con l’oltreoceano che diventa poi fondamentale nel tuo percorso, visto che è all’Academy di New York che ti diplomi in Regia. Perché concludere lì gli studi quando avresti anche potuto farlo in Italia?
Avevo cominciato a lavorare nel cinema come assistente alla regia con Carlo Verdone. Sono stata al suo fianco per 15 anni ed è stata una bella gavetta, grazia alla quale ho ricevuto grandissimi insegnamenti da lui che considero un mio ‘padrino’ artistico: mi ha insegnato a lavorare con gli attori e a gestire un set, oltre che tantissime altre cose. Sono poi venuti tanti altri set e tante altre produzioni ma il mio sogno nel cassetto continuava a essere un altro: fare la regista e realizzare quel mio progetto che tenevo in tasca.
Mi è sembrato allora giusto prendermi una pausa dal mio lavoro di assistente e aiuto regia, partire per New York e mettermi lì alla prova.
Ed è stato semplice? Eri comunque lontana anni luce dal tuo mondo, dalla tua famiglia e da tutto quanto.
Inizialmente è stato strano: mi sentivo totalmente persa, chiedendomi cosa ci facessi lì o cosa volessi fare. Il dubbio di aver sbagliato c’era ma, frequentando la scuola di cinema con tanti altri studenti provenienti da diverse parti del mondo, per me è stato molto costruttivo vedere come, oltre a condividere il desiderio di diventare registi, tutti noi fossimo accomunati dalla stessa paura di metterci in gioco ed esporci al giudizio altrui dubitando persino della propria idea.
Non c’era la paura del fallimento?
Quella c’è sempre, soprattutto dopo. Quando frequenti la scuola, sei in qualche modo protetto. Le paure più grandi arrivano quando punti su un tuo progetto, soprattutto il primo. Nel mio caso, la responsabilità è stata anche più grande perché avevo deciso per il mio primo film di raccontare la storia della mia famiglia e, in particolare, di mio padre. Era una storia a cui ero particolarmente legata e avevo sulle spalle il peso di non dover tradire le aspettative di chi veniva raccontato. Un peso che mi è tornato anche per la storia degli 883: parliamo sempre di persone reali di cui hai timore del giudizio. L’importante è sempre cercare di dare il meglio…
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Negli anni in cui hai lavorato come assistente alla regia sei stata al fianco di tantissimi uomini, da Giuliano Montaldo a Clint Eastwood e Sam Mendes. Non ci sono però nomi femminili nella lunga lista: un caso o vale sempre il mito di Eva contro Eva?
È un caso ma anche una questione di statistica: quante sono in percentuale le registe donne? Sicuramente, il loro numero è di gran lunga inferiore a quello degli uomini. Fortunatamente dopo il #MeToo, qualcosa si è mosso e anche grazie alla famosa “quota rosa” il mondo del cinema si è aperto di più alle cineaste. Non è stata dunque una questione di scelta.
Parlando in termini matematici, il rapporto sul set di Hanno ucciso l’Uomo Ragno è di due registi uomini a una regista donna. Come è stato organizzato il lavoro tra di voi?
È Sydney Sibilia, il capo progetto, che ha messo in piedi la squadra che ha poi compreso anche me e Francesco Ebbasta. Abbiamo cominciato a lavorare tutti e tre insieme sin dai provini, quando si dovevano scegliere gli attori che avrebbe dovuto interpretare Max Pezzali e Mauro Repetto. C’è stato un momento in cui sembravamo i tre giudici di Masterchef per cui gli attori avevano bisogno di tre sì per proseguire nei provini: tra di noi c’era però una bella sintonia perché eravamo allineato e ci confrontavamo parecchio su cosa cercassimo per i due protagonisti… se non li avessimo trovati, la produzione si sarebbe fermata per quanto era fondamentale che fossero giusti.
Poi, ci siam dati delle linee guida condivide sulle lenti con cui girare, sul look che volevamo dare alla serie e sulla direzione da intraprendere. Ognuno avrebbe girato la sua parte ma per questioni organizzative, legate soprattutto alle location, capitava di ritrovarci tutti e tre sul set lo stesso giorno per girare ognuno le proprie sequenze sul luogo scelto: ci muovevamo quasi a staffetta ed è stato divertente anche “rubarsi” le inquadrature con la scusa di dare continuità al racconto (ride, ndr).
Le puntate sono tutte diverse tra di loro. Possiamo ad esempio considerare gli episodi 3 e 4, i primi diretti da te che vedremo, di “rottura” dell’equilibrio?
Sì, anche se in realtà l’episodio 3 è quello in cui i due protagonisti si mettono alla prova: è la puntata degli esami ed è anche quella in cui vediamo cosa hanno combinato in quella tavernetta. È un episodio che mi piace molto perché, oltre a essere divertente, rispecchia in toto cos’è l’adolescenza e, soprattutto, quel momento in cui, posto di fronte agli esami, ti ritrovi a dover scegliere cosa sarai per il resto della vita quando ancora non hai le idee chiare. Tornando indietro nel tempo, ricordo come alla domanda “cosa vuoi fare?” dovevi necessariamente trovare una risposta, con l’incubo di non poterla più cambiare. Ma fortunatamente le idee possono mutare, non è in quell’istante che si decide tutto.
Beh, un po’ come è successo a te: volevi far l’attrice e sei diventata regista. Da regista, realizzi un primo film di finzione dal grande successo, Sul più bello, ma decidi di non dirigerne i seguiti e la successiva serie tv. Per quale ragione?
Sono molto affezionata a quel film, a tutti gli attori e alla produzione che mi ha dato la grandissima possibilità di esordire. Ma, nonostante ciò, non volevo rimanere incastrata in un genere: purtroppo, in Italia c’è, soprattutto di fronte a un successo, la tendenza a ingabbiarti come se tu possa fare solamente quello. A me, invece, interessava sperimentare: mi ritengo una regista in grado di toccare più corde, dal dramma alla commedia, e per questo non voglio precludermi altre possibilità (chissà, non escludo un crime in futuro). Variare era dunque importante per la mia crescita personale e artistica.
Ho un bellissimo ricordo di quel set: eravamo quasi tutti esordienti e ci siamo fidati nel metterci alla prova, in un periodo tra l’altro complicato come quello segnato dal CoVid. Ma dovevo andare oltre…
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L’oltre è stato SIC, un documentario su Simoncelli e sul mondo dei motori, qualcosa per stereotipo di molto maschile…
…se non fosse che i motori hanno da sempre fatto parte della mia vita. Mio padre Pier Felice è stato un pilota di rally così pilota di auto da corsa è anche mio fratello Luca. Sono stata sin da piccola più in pista che al cinema, ad assistere a qualsiasi tipo di corsa o gara con al centro qualcosa che avesse un motore. In qualche modo, potevo raccontare quel mondo, un universo che capisco e che non giudico.
E all’orizzonte c’è il tuo nuovo film di finzione.
È in lavorazione, lo stiamo scrivendo e quindi incrocio le dita: è più complicato…
Perché sei donna?
No, perché ci sono state nel frattempo tante cose in mezzo che ne hanno allungato i tempi. Dopo Sul più bello, è venuto SIC ed è poi arrivata la serie tv sugli 883, che mi ha impegnata per due anni. Mentre per il mio primo film la storia mi è arrivata ed è stato tutto più semplice, per questo nuovo progetto sono partita da zero con un soggetto da sviluppare e con tanti passaggi davanti a me che devono essere fatti. La strada è un po’ più lunga ma spero presto di poter essere sul set.
’78 – Vai piano ma vinci era il titolo del doc su papà. Hai mai avuto la sensazione di star andando piano?
Nel realizzare un film metti sempre tutto te stesso, il tuo tempo, le tue emozioni e il tuo vissuto. Quindi, reputo che sia un bene andare piano, scegliere con calma il progetto che fa battere il cuore e non avere troppa fretta. Anche perché, se avessi corso all’impazzata, magari sarei stata occupata e non avrei potuto girar la serie tv sugli 883! Bisogna quindi darsi il tempo di valutare bene cosa fare: certe volte ci si azzecca e altre no ma di sicuro la fretta è sempre una cattiva consigliera.
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In un film porti anche il tuo vissuto. Cosa non metteresti mai invece?
Non c’è nulla che considero tabù o di cui non vorrei parlare…
…anche perché quale più grande tabù della malattia o della morte, già da te affrontato?
Tra l’altro, in quello che considero essere stato il periodo più difficile della mia vita. Il giorno in cui ho cominciato il casting per Sul più bello, mio marito ha avuto un incidente terribile: è stato in coma e non si sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto o come si sarebbe ritrovato se ce l’avesse fatta. Ragione per cui in quel film c’è molto del mio vissuto di quel momento… e forse sta lì il motivo inconscio per cui non ho voluto realizzare i sequel.
Definisco spesso quel periodo come bipolare, passavo da un’emozione all’altra ritrovandomi un minuto prima in rianimazione con mio marito che non sapevo se si sarebbe mai risvegliato e quello dopo al bar dell’ospedale per incontrare la troupe.
Ricordo che ero sempre molto colorata esteticamente proprio perché volevo darmi energia: “Se mi vesto colorata e allegra, forse lo divento anch’io”. E mi ha aiutata, così come mi ha aiutata l’essere madre di tre figli: non potevo permettermi di essere triste e disperata, dovevo aver fede e dir loro che ce l’avremmo fatta. Ma mi ha sostenuta anche il girare: mio marito non avrebbe mai voluto che mi fermassi ed io proseguivo con la speranza di fargli poi un giorno vedere il film. E, per fortuna, lo ha poi visto.
È in quei frangenti che comunque impari veramente a guardare all’essenza delle cose, a ripulirti la testa dai tanti pensieri inutili che spesso ci arrovellano e che non servono a nulla di fronte alla vita e alla sua importanza.
Sorridendo, ti aiutano i tuoi figli sul lavoro?
Tantissimo. Anche perché hanno uno sguardo freschissimo su tutto: organizzo sempre proiezioni dei miei progetti in casa sia con i miei figli sia con altra gente che conosce bene l’argomento che sto trattando o altra totalmente aliena dallo stesso. E in quelle occasioni i miei figli mi hanno sempre dato degli ottimi consigli: siamo una squadra!
Se ti chiedessero perché ti occupi di regia, quale sarebbe la risposta?
Mi piace e mi affascina raccontare storie e viverle. Quando si è coinvolti dall’interno in un progetto e dai veramente te stesso, è come vivessi realmente ciò che porti in scena. Nel caso di Hanno ucciso l’Uomo Ragno, ho rivissuto gli anni Novanta e ho sentito il sapore di tante emozioni… Sì, perché si ha comunque la possibilità di esplorare tante emozioni differenti anche solo dialogando con gli attori: è scavando nel loro profondo che ottieni la reazione che stavi cercando. Un regista è anche uno psicologo: deve cercare di capire quali sono gli umori dei personaggi e delle persone che lo circondano.
…e chi capisce le emozioni del regista?
Non ha importanza… le emozioni del regista rivivono anche attraverso i personaggi. Secondo me, poi, il regista deve essere anche un bravo attore: non può sempre svelare le proprie carte sul set: è il comandante della nave e come tale deve dare fiducia alle persone con cui ha a che fare, a tutti gli artisti che necessitano di guida ma anche di ascolto… è da loro che spesso possono arrivare spunti molto interessanti, come è capitato con Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giuggioli, molto propositivi sul set di Hanno ucciso l’Uomo Ragno.
Non parlo solo degli attori ma anche delle altre figure: scenografi, musicisti, costumisti e via di seguito, necessitano del conforto del regista per andare tutti nella stessa direzione. E il regista, quindi, non può permettersi di non avere le idee chiare. Martin Scorsese raccontava di avere un’ansia pazzesca quando saliva sull’auto per recarsi sul set: da quel momento in poi, avrebbe avuto mille persone ognuna con domande diverse a cui doveva rispondere in maniera decisa e immediata. E se aveva l’ansia Scorsese figuriamoci noi altri!
A proposito di grandi nomi, ce n’è stato mai uno di ispirazione?
Danny Boyle e il suo 127 ore. È un film che ho rivisto infinite volte quando dovevo girare il doc su mio padre per la parte in cui era rinchiuso in una soffitta da cui doveva scappare: è stato d’ispirazione per capire come rendere interessante una storia che per la maggior parte del tempo si svolge in un unico ambiente, in una situazione claustrofobica.
Ma quel padre che non voleva firmare quel famoso nulla osta, che ne pensa oggi della figlia regista?
È molto contento, ovviamente. Anche perché quello di cui mi occupo è qualcosa che va al di là della nostra famiglia, che ho sempre voluto, che mi sono cercata e che mi sono costruita da sola. Come tutti i papà, ne è orgoglioso.
Paura di deluderlo quando hai raccontato la sua storia?
Paura? Terrore, direi, anche perché mio padre è molto precisino: appartiene alla schiera di coloro a cui non sfugge nulla. Per farvi capire, riusciva a vedere anche la più piccola riga in macchina quando da neo patentata la usavo: giravo ai tempi con la pasta abrasiva per usarla eventualmente prima di rientrare a casa!
Nel raccontare la sua storia, avevo però bisogno di allontanarmi dalle informazioni che avevo per farla diventare da particolare a universale. Per mesi, ho dovuto prendere le distanze anche da lui non raccontandogli più niente di quello che stavo facendo. Ha visto il film a fatto compiuto: è stata una prova d’ansia ma gli è piaciuto e ne sono stata felice!
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