Quando si pensa a un'attrice emergente, il pensiero spesso va a giovani talenti che muovono i primi passi in un'unica città, magari con sogni di Hollywood, ma la storia di Alice Lamanna è diversa. La raggiungo telefonicamente mentre è a Londra, in Accademia, per uno degli spettacoli di fine anno. Alice Lamanna, a soli 22 anni, ha già vissuto in quattro città diverse – Miami, Londra, Roma e Dubai – un'esperienza che riflette il suo spirito cosmopolita e la sua determinazione.
LEGGI ANCHE - Silvia D’Amico: “L’incoscienza di essere me stessa”, l’intervista esclusiva
La sua passione per la recitazione inizia presto, all'età di sette anni, ispirata dalla scuola steineriana che frequentava e dalla sua ammirazione per la saga di Harry Potter. Una determinazione che non ha mai vacillato e che l'ha portata ad affrontare la vita da giovane attrice con grande responsabilità e passione, senza mai considerare la sua vocazione come un sacrificio.
Alice Lamanna non si è mai accontentata di meno della migliore formazione, e la sua strada l'ha portata alla prestigiosa MountView Drama School di Londra, dopo essere stata notata a Dubai durante una performance teatrale. Il suo talento e la sua tenacia l'hanno condotta a interpretare ruoli sempre più impegnativi, culminati nella partecipazione alla serie Prime Video Those About to Die, ambientata nell'antica Roma. Qui, ha trovato non solo un lavoro appagante, ma anche una famiglia tra cast e crew, legami che hanno reso indimenticabili i mesi di riprese.
Nel corso dell'intervista, Alice Lamanna racconta di Cordelia, il personaggio che interpreta nella serie, una vestale dell'antica Roma. Attraverso il suo racconto, emergono dettagli storici affascinanti e le similitudini tra le sfide di Cordelia e quelle dei giovani di oggi. Ma Alice non è solo un'attrice: la sua passione per la fotografia e la filosofia arricchiscono il suo percorso artistico e personale, rendendola un esempio di curiosità intellettuale e di continua crescita.
Nonostante i successi, Alice Lamanna non nasconde le sue paure e le sue insicurezze, mostrando una vulnerabilità che la rende ancor più autentica. Dal timore dei topi alla paura del tempo che scorre inesorabile, Alice ci ricorda che dietro ogni grande attrice c'è una persona con le sue debolezze e i suoi sogni.
Intervista esclusiva ad Alice Lamanna
“Sono a Londra, in Accademia, per uno degli spettacoli di fine anno: solitamente ne facciamo tre all’anno”, mi risponde Alice Lamanna quando la raggiungo telefonicamente. E già il piccolo particolare su dove si trovi rispecchia uno degli aspetti che più contraddistinguono la giovane attrice, cosmopolita per vocazione ma anche per necessità. “È il terzo progetto di quest’anno ed è una dark comedy che riadatta un famoso testo russo sul suicidio, Dying for”, aggiunge subito sul saggio che l’attende.
Sei giovanissima, hai appena 22 anni ma hai già vissuto a Miami, Londra, Roma e Dubai.
Scherzando, potrei dire che mi manca solo l’Africa. Fondamentalmente, ho seguito il lavoro di mio padre mentre alcune destinazioni sono arrivate quasi per caso. A Londra, ad esempio, arrivo dopo aver portato in scena un musical da preadolescente a Dubai: sono stata notata da un gruppo di selezionatori che venivano dall’Inghilterra. Ho scoperto così la scuola di recitazione S. Young Theatre School quando avevo ancora l’età per le scuole medie: la prima volta ci sono stata con mia madre per cinque giorni, ho superato il provino e mi sono dovuta trasferire. Per sei mesi, nonostante la giovanissima età, ho vissuto da sola in una casa collegio, prima che tutta la famiglia mi raggiungesse.
Sono dopo rientrata in Italia ma ho poi preferito concludere la formazione a Londra, nell’Accademia che ancora frequento, la MountView Drama School.
Quando hai realizzato che da grande avresti voluto fare l’attrice?
Ho deciso che avrei fatto l’attrice a sette anni. Ero già avvezza a far spettacolini per chiunque venisse a trovarci a casa, familiari o amici dei miei, ma è stato a sette anni che ho capito che recitare era un lavoro vero e proprio. La molla è scattata frequentando una scuola steineriana, dove per aiutarci a comprendere meglio le lezioni si metteva in scena ciò che studiavamo. Ma molto ha fatto anche la passione per la saga di Harry Potter e il sapere che Emma Watson aveva solo nove anni quando ha cominciato la sua professione: anche da piccoli, si poteva dunque farlo. E da quel momento non ho più cambiato idea.
Bel sinonimo di autodeterminazione…
Non c’è mai stato altro che mi piacesse tanto quanto la recitazione. Del resto, non potresti affrontare questa professione se non ci fosse la passione.
Quali sacrifici ha comportato per te la tua vocazione?
Non mi piace molto la parola sacrificio perché comporta un’accezione negativa: non ho mai visto la recitazione come un sacrificio, anzi. Ha comportato semmai delle responsabilità in più. Può sembrare un dettaglio stupido ma a scuola ero solita non fare mai molte assenze, proprio per preservare quelle che avrei potuto fare per lavorare o prendere parte a dei provini. Forse sento il peso di qualche rinuncia oggi che sono a Londra: amo Roma, mi piace moltissimo e non vorrei mai lasciarla. La considero la mia città e l’unica ragione per cui mi ritrovo in Inghilterra è la scuola che sto frequentando, in cui sto imparando realmente tantissimo.
Those About to Die: Le foto della serie tv
1 / 21Beh, per ironia del destino, non solo ami Roma ma sei stata catapultata nell’Antica Roma per la serie tv Those About to Die.
Quei nove mesi di riprese sono per me indimenticabili, anche perché ho conosciuto durante le riprese quella che sarebbe diventata la mia migliore amica (in verità, abbiamo legato tutti moltissimo). E forse è anche questa la ragione per cui ho poi trovato Londra più difficile da sopportare rispetto a quando ero più piccola: da sempre amo il cambiamento ma adesso mi piace pensare di vivere a Roma e di dovermi spostare regolarmente a blocchi di sei settimane!
Nella serie tv, interpreti Cordelia. Chi è dal tuo punto di vista?
Cordelia è una vergine vestale, una figura molto particolare nell’antica Roma, dove due donne prestavano servizio per trent’anni alla dea Vesta, senza poter nel frattempo avere rapporti sessuali o sposarsi. Era donne che venivano trattate come divinità in terra e che avevano il compito di mantenere sempre vivo il fuoco nel tempio: il suo spegnimento, in caso contrario, veniva considerato un cattivo auspicio.
Tuttavia, non erano donne che erano sottomesse al volere degli uomini. Avevano infatti un loro potere politico e uno stipendio. Anche quando si ritiravano dal servizio, erano anche libere di non sposarsi (in molte non lo facevano) perché erano economicamente indipendenti: erano molto più emancipate di quanto si creda o pensi. Avevano anche grande voce in capitolo e considerazione, tanto che a loro erano riservati anche i posti migliori nelle arene per assistere ai combattimenti tra gladiatori o alle corse delle bighe.
Nonostante viva nell’antica Roma, Cordelia ha problemi molto simili a quelli che hanno i ragazzi di oggi con i loro genitori. A volte, si comporta non molto lontanamente da come faremmo noi, soprattutto con la madre impersonata da Gabriella Pession.
Come ti sei trovata a lavorare al cospetto con alcuni dei mostri sacri del cinema internazionale come il regista Roland Emmerich o gli attori Anthony Hopkins e Iwan Rheon?
Benissimo, non trovo un altro aggettivo. Era un lavoro molto di ensemble, di gruppo, in cui vigeva il rispetto massimo per tutto ciò che si stava facendo. Il fatto che la maggior parte del cast fosse inglese è un particolare che ho particolarmente apprezzato: la loro educazione, seppur talvolta può sembrare finta, è qualcosa che a livello professionale fa la differenza. Si è trattato comunque di uno dei lavori più internazionali a cui ho preso parte, con una crew e un cast composti da italiani, americani, inglesi e tedeschi. Per non parlare del clima che si respirava tra gli attori: trascorrevamo tantissimo tempo insieme, abbiamo consolidato rapporti e ci siamo vissuti Roma d’estate, la parte dell’anno in cui tende a svuotarsi. E dagli attori più grandi non potevi che rubare qualcosa.
Non ti creava ansia?
In parte sì ma era dovuta alla consapevolezza di far parte di un progetto ambizioso con un enorme budget a disposizione, con talenti incredibili e altrettante scenografie e costumi: la paura era sempre quella di sbagliare o di non essere all’altezza quando era il tuo turno di stare in scena. Ma ero circondata da persone carinissime, dalla crew agli attori, sempre pronte ad aiutarti per il raggiungimento di un obiettivo comune: il miglior risultato possibile. Per certi versi, ho vissuto l’esperienza come un campo scuola, uno di quelli in cui stringi legami fortissimi in pochissimo tempo sentendosi come in famiglia prima che arrivi la fine del tutto.
Dopo la chiusura del set, è stato sicuramente tristissimo ma quando vivi qualcosa del genere è tutto molto più amplificato, sia nel bene sia nel male. Ma non aveva paragoni ritrovarsi anche solo a scambiare quattro chiacchiere in sala trucco e parrucco.
I costumi e le acconciature della serie tv sono curati nei minimi dettagli. Qual era la cosa più antipatica da fare o da gestire?
Rispetto ad altre colleghe, era quella che in sala trucco impiegava meno tempo. Prima delle riprese, ho fatto ad esempio crescere i capelli, ragione per cui sono arrivata a un punto in cui non mi servivano le extensions che altre dovevano applicare. Le acconciature rimanevano comunque molto elaborate, ragione per cui trascorrevo circa 40 minuti tra trucco e parrucco ma ciò che maggiormente poteva infastidirmi era la continua perfezione a cui le vestali erano chiamate: a ogni take, c’era qualcuno che correva a sistemare il vestito bianco o i dettagli. Non c’era nulla che doveva differire tra noi, che per necessità dovevamo essere tutte identiche e impeccabili. Poca cosa, comunque, rispetto a chi doveva nascondere i tatuaggi o sottoporsi costantemente alla rasatura dei capelli, come capitava a Victor von Schirach per impersonare Passus.
Una delle tue più grandi passioni è la fotografia. Hai scattato sul set?
Sì, ma… usavo una macchinetta usa e getta con un rullino che si è arrotolato su se stesso e ha rovinato le fotografie. Quella per i ritratti fotografici è una passione che è nata nel frequentare il liceo artistico all’Istituto Cine-Tv Roberto Rossellini, dove ci si cimenta con la fotografia, la ripresa e il disegno animato, tanto che in un futuro lontano non mi dispiacerebbe provare con la regia cinematografica. Ho cominciato a scattare foto perché desideravo anche capire come funzionassero gli obiettivi, a cosa servisse una lente anziché un’altra e come avrei dovuto regolarmi con l’esposizione.
Sono un po’ nerd per certe cose, anche se ho imparato più dalla pratica che dalla teoria. Soprattutto, quando con la scuola andavamo prima della pandemia in giro per l’Italia, da Palermo durante la settimana della legalità a Firenze, e mi ritrovavo con una camera in mano a scattare foto o a girare video, circondata da videomaker o fotografi da cui potevo apprendere e imparare più che potevo. Avevo tra le altre cose letto che Stanley Kubrick, prima di passare alla regia, era un fotografo e, amando le sue simmetrie, rappresentava un bel modello da seguire.
Oltre alla fotografia, sei una grande appassionata di filosofia…
La filosofia è qualcosa che ancora oggi studio quando ne ho la possibilità. Secondo me, è molto importante per il periodo storico che viviamo ma anche per me stessa. Non riesco a stare zitta e mi piace avere un’opinione su tutto: la filosofia rappresenta invece quel momento in cui non importa più ciò che penso io ma leggere e ascoltare il modo di ragionare e di pensare di qualcun altro, contestualizzandolo nel tempo. L’ho anche seguita al primo anno di università e, una volta finita l’Accademia, se sono libera da impegni professionali, torno subito a riprenderla: mi perderei ore e ore a sentire chi ne sa più di me spiegarmi un concetto.
La filosofia permette di capire e sondare chi siamo ma anche di vincere le nostre paure. Quali sono le tue?
C’è una paura concreta che non riesco a superare e che mi terrorizza: i topi. È la mia fobia maggiore e a Londra sto vivendo un incubo continuo… ma ne ho anche un’altra più grande per qualcosa di metafisico: il tempo. Odio, ad esempio, essere in ritardo o perdere tempo: il non poter tornare indietro mi spaventa. Forse mi salva l’aver scelto un lavoro per cui occorre essere sempre bambini!
Chi ti ha fatto perdere tempo nel tuo percorso?
Credo che non dipenda tanto dagli altri ma da me stessa: avrei potuto fare di più, mi dico spesso. Il paradosso è l’aver optato per un mondo come quello del cinema che di per sé ferma il tempo e lo cristallizza con i suoi film… è molto bello che sia così ma per me rivedermi è sempre un trauma non tanto per una questione estetica quanto per la qualità recitativa. È un lavoro il mio in costante evoluzione per cui oggi non sono quella che ero ieri e domani non sarò quella che sono oggi perché, comunque, conoscerò e avrò esperito molte più cose. Il desiderio continuo di voler imparare fa sì che non sia mai soddisfatta.