“Non sono stata a Cannes”, mi risponde Alma Noce quando le chiedo se ha presenziato all’anteprima internazionale di L’arte della gioia, la serie TV Sky di Valeria Golino di cui è coprotagonista e che arriva nei cinema, divisa in due parti (il 30 maggio e il 13 giugno), grazie a Vision Distribution. “Da un lato, i festival sono bellissimi perché rappresentano il momento in cui i progetti a cui hai lavorato prendono il volo. Dall’altro lato, invece, sono terrificanti per l’impegno che richiedono: sono un tour de force”.
Alma Noce interpreta Beatrice Brandiforti, un personaggio complesso e sfaccettato nell’adattamento televisivo del celebre romanzo di Goliarda Sapienza. Beatrice è la più giovane della famiglia Brandiforti, una ragazza che, inizialmente avvolta da un'innocenza quasi infantile, si evolve nel corso della storia affrontando un percorso di crescita e scoperta di sé. La sua sete di affetto e il bisogno di dare e ricevere amore, anche in un contesto familiare spesso arido di sentimenti, la rendono una figura affascinante e commovente. Questa evoluzione, che la porta a confrontarsi con le aspettative della sua famiglia e a trovare la sua identità, rappresenta uno degli elementi chiave della narrazione.
Durante l’intervista esclusiva che ha concesso a The Wom, Alma Noce condivide con noi le sfide e le emozioni del suo percorso artistico. Racconta come sia stata selezionata per il ruolo in modo del tutto inaspettato, un processo che ha iniziato quasi per caso e che si è trasformato in un’avventura incredibile. La sua performance è stata profondamente influenzata dalla complessità del personaggio di Beatrice, e Alma Noce riflette su come questa esperienza l’abbia aiutata a esplorare nuove sfaccettature della sua arte e della sua persona.
Alma Noce descrive, inoltre, il suo rapporto con la regista Valeria Golino e il cast, evidenziando la complicità e il supporto che hanno caratterizzato il set. Parla della sfida di interpretare scene forti e intense, del rapporto con il proprio corpo e di come sia riuscita a trasformare le proprie vulnerabilità in punti di forza per la sua interpretazione.
Last but no least, Alma Noce ci offre uno sguardo personale sul tema dell’emancipazione femminile, centrale ne L’Arte della Gioia. Con sincerità, riflette sulle difficoltà e le conquiste legate alla ricerca della propria identità e libertà, temi che risuonano profondamente con la storia di Beatrice e con le sue esperienze personali.
Intervista esclusiva ad Alma Noce
Nella serie tv L’arte della gioia interpreti Beatrice Brandiforti, un personaggio che definire impegnativo è riduttivo. Cosa ti ha spinto a sostenere il provino per il ruolo?
La storia che si cela dietro al provino è molto particolare. Mi era arrivata la richiesta di un self tape che poi non ho fatto per il ruolo di Modesta. Di per sé, i self tape mi spaventano, soprattutto quando ci sono dei progetti che mi interessano molto e farli da sola mi crea un bel po’ di difficoltà: faccio parte della categoria di coloro che hanno bisogno del rapporto diretto col regista. Non sono riuscita, quindi, a realizzarne uno in tempo.
Tuttavia, qualche tempo dopo, sono stata contattata dalla mia agenzia che mi invita ad andare a fare da spalla per un provino per la serie. E sono andata, anche perché penso che sia sempre interessante vedere come lavorano gli altri.
Quando poi alle audizioni è arrivata Valeria Golino, nel vedermi ha cominciato a urlare che ero io Cavallina. Mi ha chiesto allora di sostenere un mio provino che, andando bene, ha fatto sì che mi scegliesse per il ruolo, una roba per me del tutto inaspettata: ero arrivata lì proprio pensando di andare incontro a una giornata di battute spensierate e invece mi sono ritrovata a ottenere la parte di un personaggio fondamentale per quella che poi si è rivelata un’avventura incredibile. Una volta avutane l’opportunità, non potevo far parte di questa storia enorme: in un certo qual modo, è come se fosse stata Beatrice a cercare me e non viceversa.
Quello di Beatrice è un personaggio che va incontro a un’evoluzione incredibile nell’arco del racconto. Quali aspetti di lei hai trovato affascinanti e quali inquietanti?
Mi spaventa il suo essere avvolta da quell’incoscienza dei bambini, bellissima, e dal bisogno costante di dare e ricevere amore e attenzioni anche in un contesto in cui l’umanità e i sentimenti sono inariditi per tutta una serie di avvenimenti. È come se fosse schermata da tutto ciò che accade intorno a lei: è inquietante quanto si possa essere incoscienti di quello che succede anche all’interno delle mura della propria casa. Nel leggere il romanzo per prepararmi al ruolo era un aspetto che mi suscitava per certi versi un po’ di rabbia: com’era possibile che non si rendesse conto di ciò che succedeva?
Con il proseguire della storia, la sua vita però cambia portandola a un ribaltamento interessante nel cercare di prendere una sua posizione. L’ho sempre trovata tenerissima e in netta contrapposizione con il personaggio di Modesta: uno dei punti affascinanti della storia è rappresentato proprio da questi due personaggi femminili così diversi tra loro; eppure, legati in maniera molto profonda.
Beatrice vive un forte conflitto derivante dalle aspettative della sua famiglia che inevitabilmente si scontrano con l’affermazione della sua identità. È qualcosa che hai sentito anche tu?
Assolutamente sì ma non dico nulla di eccezionale nel sottolineare come sia qualcosa che tutti quanti abbiamo in comune: alcune persone riescono a liberarsene prima di altri quando ad esempio lasciano la famiglia, crescono e iniziano a capire chi sono; altre, invece, rimangono incastrate per più tempo e c’è persino chi per tutta la vita non riesce a fare una scelta per non deludere chi ha di più caro, soprattutto se sono pochi. E sì, mi ci sono rivista: sarebbe stato impossibile il contrario.
Quando è stato il momento in cui hai capito che era più importante il tuo desiderio di autoaffermazione che le aspettative altrui, anche familiari?
Molto spesso, come accade a Beatrice, in famiglia si vive schermati fino a quando non arriva l’esigenza di capire cos’è il mondo che c’è fuori, facendolo anche in modo sbagliato. Autoaffermarsi è sempre qualcosa di avventuroso e la prima volta in cui si muovono i primi passi spesso si sbaglia… Quel momento per me è arrivato quando è diventata incontenibile la curiosità di che cosa fosse tutto e di che cosa fossi io. Niente di anomalo, come dicevo prima: è inevitabile che a un certo punto della cresciti arrivi quella scossa elettrica che ti porti a capire cosa vuoi realmente.
La tua biografia però vuole che quella scossa in te sia arrivata molto presto, sin quando da piccola fingevi di essere morta mandando in tilt tua madre. A sette anni, poi, ti ritrovi già a recitare in un film che si chiamava Claang: The Game. Cosa hai provato quando il gioco si è trasformato in altro?
Probabilmente non avevo ancora sviluppato quel pensiero critico che mi facesse capire come uno scherzo familiare stesse diventando qualcosa di professionale. Ricordo però come, quando ho cominciato a recitare, sin dai primissimi lavori sentissi un forte senso di libertà nel proporre chi non ero io. Claang: The Game era ad esempio un film in costume in cui interpretavo una dea telepatica, qualcosa di insolito che vivevo come un gioco di immaginazione. E a sette anni l’immaginazione è infinita: adoravo il pensiero per cui potessi essere qualsiasi altro da me, esplorare ogni tipo di vita e sentirmi distante da ciò che poi nella realtà mi apparteneva, vivendo anche situazioni non etiche o non giuste. Un concetto che da allora non mi ha mai lasciata… In quell’occasione, mi sono divertita molto, era per me come stare a casa: il mio inizio è stato morbido, senza alcun panico.
È arrivato dopo il panico? Avvertivi la paura del peso delle aspettative che altri ti trasmettevano nello sceglierti per i loro progetti?
Quand’ero bambina, no: mi divertivo e basta, era tutto molto spontaneo. Con l’andare avanti, però, soffrivo il peso dei rifiuti: ho iniziato ad avere uno sguardo più critico e si è innestata in me tutta una serie di dubbi e di insicurezze. Ed è stato fondamentale che fosse così: mi ha poi portato a una riflessione su come fare al meglio il mio lavoro, su come crescere personalmente e su come sfruttare le mie vulnerabilità per cercare di migliorare sempre ciò che faccio. Anche perché ho sempre considerato il mio lavoro uno dei più belli al mondo: il cinema rappresenta il sogno e ti dà la possibilità di sognare.
Ho dunque cercato di cogliere blocchi, momenti critici e difficoltà, e di traslarli affinché fossero funzionali al personaggio che interpretavo: ognuno di loro ha portato le sue insicurezze ma è bastato rendersi conto che da quelle poteva nascere qualcosa che, appartenendoti, portasse a un risultato ottimale.
Hai trovato la tua identità nel frattempo?
È una domanda a cui non ho ancora trovato risposta. Chi sono fino in fondo molto probabilmente non lo saprò fino all’attimo prima di morire. È un po’ macabra come affermazione ma è in quell’ultimo attimo che avremo il quadro completo. Per il resto, mettiamo insieme tasselli giorno dopo giorno.
Cosa in questo processo di costruzione d’identità vorresti scoprire?
La libertà, l’emancipazione dal pensiero degli altri e anche dal mio che qualche volta mi ingabbia. Sono fondamentalmente una persona che sta cercando la sua libertà. Da cosa, non lo so: forse da tutto. Mi sono sempre sentita una viaggiatrice, ho viaggiato tantissimo da piccola con mia madre, e oggi che viaggio di meno fisicamente mi sembra di attraversare la vita come se passassi ogni volta da un Paese diverso, come se a ogni tappa cambiasse capitolo.
Mi manca ancora forse un po’ di sicurezza e di forza. Ma è un viaggio infinito, sia per le donne sia per gli uomini: non so se ci sia un momento in cui si può dire di aver raggiunto quella consapevolezza che ti fa dire di essere emancipato.
Era l’assenza di tale consapevolezza che ti faceva vivere i ‘no’ professionali come personali?
Ogni ‘no’ mi sembrava qualcosa rivolto a me come persona. Era come quando ai compleanni si invitavano tutti a te dicevano invece che non potevi andare… Mi mancava la consapevolezza del fatto che ogni ruolo richiede il suo interprete, che non tutti possiamo avere i requisiti fisici o caratteriali per qualsiasi personaggio e che magari qualcun altro ha più talento di te. Oggi, fondamentalmente, se non mi prendono per un ruolo, so che c’è un motivo che esula da me: non è mio, appartiene al regista e devo rispettare la sua scelta. Ho smesso di prenderla sul personale.
L’emancipazione femminile di cui si parla anche in L’arte della gioia passa anche attraverso il corpo delle donne. Che rapporto hai avuto e hai con esso?
Sono stata in conflitto con il mio corpo. Molto spesso mi dico che probabilmente non sarebbe andato così se non avessi scelto questo lavoro: per ogni ruolo, posso cambiare voce, risata, movimenti ma non il mio corpo. Posso sì ingrassare o dimagrire ma non posso andare incontro a una metamorfosi totale: i miei lineamenti rimarrebbero gli stessi. Ogni persona ha una faccia che va di pari passo con chi è. Quando ho interpretato dei personaggi che non sentivo appartenermi fisicamente, avrei voluto veramente trasformarmi in altro per sentirmi più completa.
Ho subito anche e tanto tutto quello che ruota intorno all’immagine del corpo. Viviamo in un’epoca in cui gli standard estetici imposti, spesso irraggiungibili, cambiano alla velocità della luce ed io spesso ho provato, non riuscendoci, a inseguirli. Oggi, fortunatamente, sono molto più tranquilla a riguardo.
Mi dispiace solo non poter vivere le metamorfosi perché considero il mio corpo come un’estensione di chi sono, uno strumento che uso e che metto a disposizione del mio lavoro. Tanto che non ho avuto mai problemi anche con le scene di nudo se sono funzionali al racconto: non mi piacciono quando invece non hanno alcuna rilevanza nel racconto e le si usa per vendere un prodotto. Ho detto ad esempio di no a un provino per un progetto che prevedeva una ventina di scene di sesso che nulla apportavano alla storia.
Il tuo corpo è stato funzionale, ad esempio, anche nel film La ragazza ha volato, con una scena molto dura e forte di un paio di minuti. Ti ha generato sofferenza psicologica interpretare una ragazza vittima di stupro?
Assolutamente sì. Era una scena di violenza sessuale in cui per scelta della regista, Wilma Labate, non c’era nudo ma la sofferenza non è arrivata lì per lì mentre stavo sul set a girarla. L’ambiente era uno dei più confortevoli in cui ho lavorato e in cui ho incontrato persone stupende, ragione per cui mentre giravo è stato come se fossi distaccata da quello che stavo portando in scena. È quando sono tornata in albergo che ho pianto ed è stato un pianto irrefrenabile: è come se avessi vissuto di riflesso ciò che accadeva a quella ragazza e, pur essendo finzione, ne ho avvertito il pesantissimo stress psico-fisico. Avrei dovuto avere un distacco quasi immorale per non avvertirlo…
Di scene che si definirebbero forti ce ne sono diverse anche in L’arte della gioia. Lo sguardo femminile della regista ti ha in qualche modo rassicurata? Ti saresti sentita nella tua comfort zone se dall’altro lato della macchina da presa ci fosse stato un uomo?
Molto onestamente, non saprei: probabilmente, no… dipenderebbe sempre da chi si trova dall’altro lato: sapere che c’è una persona che nei tuoi confronti non ha nessun tipo di desiderio sessuale ti può mettere a tuo agio, restituendoti molta più fiducia. Sono state queste le mie prime scene di nudo integrale e sono felice di averle fatte con una donna in regia e con una donna come compagna di scena.
Dover girare delle scene di nudo insieme a un’altra donna ha generato in te qualche difficoltà?
No. Per certi aspetti è stato forse anche più bello: io e Tecla abbiamo quasi la stessa età, stiamo vivendo un periodo molto simile della vita con tutto ciò che si porta appresso, e questo ha fatto sì che ci fosse molta più consapevolezza e complicità in quei momenti. Conoscevamo l’una le vulnerabilità dell’altra e in qualche modo ci siamo tutelate. È più complesso instaurare tale modalità con un uomo: siamo genericamente diversi con problematiche sì uguali ma differenti. Non voglio comunque generalizzare, anche perché ci possono essere donne con cui scatta la competizione…
L'arte della gioia: Le foto della serie tv
1 / 37Crescendo, hai mai sentito il peso del tuo nome?
Da bambina non lo comprendevo. avrei voluto all’epoca anch’io chiamarmi diversamente ma, crescendo, mi sono innamorata di Alma, richiama qualcosa come la ricerca spirituale che considero fondamentale e credo che mi rispecchi tantissimo.
Per esigenze professionali, hai dovuto lasciare Torino la tua città. Qual è stata la rinuncia più grande che hai dovuto fare?
Ho rinunciato alla sicurezza e alla protezione. Quando vai a vivere completamente da solo, devi imparare a cavartela senza contare su nessuno se non sulla conoscenza che hai tu del mondo. E, quindi, un po’ di sicurezza e di protezione mi sono venute a mancare.
L’arte della gioia è stata girata in Sicilia. Qual è il ricordo più bello che ti porterai di quest’esperienza?
Ce ne sono tanti. Ogni volta che arrivavo sul set era uno shock per me: mi emozionavo nel vedere ciò che tutti insieme stavamo facendo, dagli attori alla regista, dai costumisti alla scenografa. Era una sensazione che su un set capita di rado: non sempre c’è una ricerca estetica così attenta anche ai dettagli dell’immagine o alla costruzione della messa in scena.
Porterò con me anche il ricordo di quel corsetto che, una volta indossato, quasi non mi lasciava respirare o il rialzo di cinque centimetri a un piede che mi teneva appositamente storta e che qualche problema mi ha comportato dopo, tanto da dover ricorrere alla fisioterapia. Ma anche la stanchezza, i momenti di sconforto e l’entusiasmo, anche perché per me era tutto un sogno…
… o i vestiti, incredibili che non vedevo l’ora di indossare, nonostante qualche danno da me fatto come nel caso di una gonna bellissima di inizio Novecento il cui tessuto fragile non ha retto. Alla fine, ripensandoci, anche il corsetto mi piaceva: mi faceva assumere una posizione giusta per Beatrice e per quel senso di costrizione che si portava dentro.
Quale sarebbe la critica più ingiusta che potrebbero rivolgerti dopo aver visto la serie tv?
Di non essere riuscita a trasmettere la purezza da bambina che si cela dietro al personaggio. Ma, essendo il romanzo molto noto, ho anche paura che l’idea che le persone hanno maturato di Beatrice non trovi corrispondenza in come l’ho interpretata io o nella mia fisicità.