Da giovedì 27 giugno Fandango porta al cinema Amen, il primo film del regista romano Andrea Baroni, presentato al Torino Film Festival 2023 e prodotto da TNM Produzioni. La storia si svolge in un casolare di campagna fermo nel tempo, dove vive una famiglia profondamente religiosa che segue rigorosamente le Scritture del Vecchio Testamento.
Le tre figlie, Sara (Grace Ambrose), Ester (Francesca Carrain) e Miriam (Valentina Filippeschi), sono cresciute sotto l'egida di un padre padrone, Armando (Luigi Di Fiore), e di una nonna dogmatica, Paolina (Paola Sambo), dopo la morte della madre (Silvia D’Amico). La loro vita è scandita dai lavori nei campi e dalle severe pratiche religiose, finché l'arrivo di Primo (Simone Guarany), un nipote di Paolina, non sconvolge il loro equilibrio, portando nuove sfide e rivelazioni che cambieranno per sempre le loro vite.
Andrea Baroni, con il suo film di debutto Amen, ci regala un'opera intensa e profonda che esplora i confini tra fede, autorità e desiderio. Ambientato in un paesaggio rurale italiano, il film trasporta lo spettatore in un microcosmo dominato da una rigida disciplina religiosa e da una costante tensione emotiva. Baroni dimostra una notevole maturità artistica: la sua regia è sicura e ben calibrata, riuscendo a creare un'atmosfera claustrofobica e al tempo stesso intrisa di bellezza rurale.
La sceneggiatura, scritta dallo stesso Baroni, è ricca di dialoghi intensi e momenti di silenzio carichi di significato. La scelta di utilizzare la religione come filo conduttore per esplorare i temi della repressione e del desiderio è particolarmente efficace, offrendo spunti di riflessione profondi e attuali.
Amen è un film che affronta tematiche universali attraverso un contesto specifico. Il tema del limite, caro a Baroni, è esplorato in tutte le sue sfaccettature: il limite imposto dalla religione, dalle norme sociali e dai legami familiari. L'arrivo di Primo funge da catalizzatore per il cambiamento, mettendo in luce i desideri repressi e le tensioni nascoste all'interno della famiglia.
Baroni riesce a toccare corde emotive e a sollevare domande cruciali sulla fede, l'autorità e la libertà personale. Amen è un film che merita di essere visto e discusso, un'opera che lascia il segno e invita a riflettere sulle dinamiche umane e sociali. Ma di tutto ciò e di molto altro ancora abbiamo parlato con il regista.
Intervista esclusiva ad Andrea Baroni
“Avrei voglia di portarlo ovunque, parlarne e farmi conoscere”, è una delle prime cose che Andrea Baroni ci dice quando lo raggiungiamo telefonicamente per parlare di Amen, suo straordinario film di debutto. È ha anche giustamente ragione: qualsiasi autore ha il desiderio di non tenere nel cassetto la sua opera o di non spiegarla al pubblico soprattutto quando, come nel caso del film Amen, al di là del binomio “Eros e Thanatos” sono tanti i temi che potrebbero avere risonanza nei ragazzi di oggi, quella famosa Gen Z che tutti vorrebbero conquistare.
“Ne parlavo qualche giorno in un podcast con un gruppo di tutti registi emergenti, da Francesca Mazzoleni a Carlo Sironi. In effetti, tutti cerchiamo di capire come intercettare quella generazione, come ci viene chiesto dalle produzioni, ma il tema è abbastanza vago e e lo riteniamo anche impossibile da maneggiare. C’è più che altro la volontà di parlare rispetto al luogo: piattaforma e sala cinematografica sono due cose molto diverse. Con Amen, non dico di aver fatto qualcosa per la Gen Z, però sarebbe bello confrontarsi con loro sulle tematiche del film”.
La situazione non è bellissima per i nuovi autori italiani.
Sì, e manca forse una sensibilità nel vedere e capire quello che stiamo facendo. Alla fine, io che sono arrivato al cinema tardi e in maniera rocambolesca (non ho studiato Cinema né pensavo mai di fare il regista) ce l'ho fatta a portare il film al cinema, ma è stata una fatica enorme. E per i giovani colleghi diventa quasi impossibile.
È terribile anche per il senso di riconoscimento della propria identità. Il tuo primo film arriva a 41 anni, eppure l’etichetta ti vuole come “giovane regista esordiente”.
Amenè un film che ha avuto un percorso strano. In realtà, è stato girato quattro anni fa, in un momento particolare durante il CoVid. Era un film totalmente indipendente ed arriva solo adesso al cinema proprio perché non aveva alle spalle una struttura canonica. È stato quando tre anni Fandango l’ha notato, che abbiamo aperto una discussione con il Ministero. Il nostro è dunque un’opera che da amatoriale è diventata istituzionale: come ci ha detto un’importante avvocatessa, in passato c’era stato solo un altro film con un percorso simile, Io sono un autarchico di Nanni Moretti. E, quando l’ho saputo, da romano e morettiano la notizia non poteva che riempirmi di gioia.
Al di là dei finanziamenti e dei mezzi di produzione, qual è stata la difficoltà maggiore che hai incontrato da esordiente? Proprio quest’anno, in seguito ai David di Donatello, c’è stata una bella discussione su cosa voglia dire essere “esordienti”.
È un tasto è stato motivo di dibattito tra tutti noi registi. Ovviamente so che quest’anno hanno esordito Neri Marcorè, Margherita Buy e Luca Zingaretti e li temo perché magari hanno fatto anche film giustissimi e importanti ma che non concorrono con noi “esordienti” né dal punto di vista del budget né da quello del personaggio riconoscibile.
Prima di Amen, avevo realizzato dei cortometraggi che erano andati anche molto bene. C’erano dunque delle produzioni interessate a sviluppare i miei progetti ma nel momento in cui stavo per finalizzarne uno è arrivato il CoVid che ha rimesso tutto in discussione. Per rispondere alla domanda, la fatica maggiore è ottenere fiducia da parte di una produzione e di una distribuzione per fare qualcosa di innovativo che non abbia una riconoscibilità immediata. Spesso serve avere un illustre precedente per potersi fidare.
È una situazione molto diversa da quella che si prospetta in altri Paesi, dove i giovani registi esordienti vengono anche selezionati in concorso in importanti festival.
Ho vissuto molto all’estero e, avendo lavorato come assistente in produzioni in Francia e in Spagna, è molto diversa la percezione del cinema e del come si lavora anche sul rispetto della figura del regista. Basti vedere come in Francia e da qualche tempo anche in Spagna ci sia la voglia di creare uno zoccolo duro di giovani autori, che poi dominano a livello internazionale.
Sono autori, tra l’altro, che vengono coccolati anche dai grandi festival: se fossi il selezionatore di un festival in Italia, la prima cosa che farei è dare possibilità alle opere prime di essere viste senza pensare a tutti quei fattori secondari che potrebbero portare poi visibilità sui mass media.
In tutta sincerità, per Amen mi sarei aspettato qualcosa in più a livello festival. Anche perché sono un competitivo: non vedo l’ora prima o poi di essere in concorso anche a Venezia e di poter dire la mia.
Amen: Le foto del film
1 / 38Sei un competitivo ma cosa ti ha spinto a fare cinema dopo esserti laureato in Medicina e Chirurgia?
La ragione vera la tengo per me: la racconterò nel terzo film, qualora io riesca sempre a farlo. Diciamo solo che era un po' nelle stelle arrivare al cinema. Al di là di Medicina, ho frequentato il teatro a Roma già da giovane, da quando avevo 16 anni, e scrivevo da giornalista. Tra scrittura e immagini, c’era sempre qualcosa che mi faceva tornare al cinema…
Quando poi ho fatto la mia prima esercitazione ho capito che era quello che volevo fare e che non avrei più abbandonato la sensazione che mi restituiva. È stato dunque il caso che ha fatto sì che arrivassi al cinema ma la mia volontà era narrativa: avevo un bagaglio e sentivo che dovevo raccontare le tante vite vissute. Potevano essere tanti i mezzi per farlo ma, molto freddamente, mi sono detto che il cinema era il mezzo che più giusto per farlo. Non l’unico ma il più giusto.
Hai dichiarato che Amen è un film che nasce anche dalla tua esperienza personale con il concetto di religione. È così?
Ho frequentato scuole cattoliche per 12 anni e la religione è stata una parte importante della mia vita familiare: l’ho vissuta attraverso la mia famiglia, estesa anche ai miei nonni e a tutte le persone che mi circondavano. Inoltre, mi sono interessato ad una comunità neocatecumenale, e questo mi ha permesso di capire meglio le dinamiche del gruppo religioso.
La religione non è il centro del film e non mi interessa neanche giudicarla, era più qualcosa che conoscevo e mi interessava. Quando ho poi visto la location in cui abbiamo girato il film Amen, questa mi ha ricordato un microcosmo, un recinto perfetto per raccontare quella sensazione: la religione era perfetta per dare un limite anche molto duro alla narrazione.
Crescendo, hai però studiato medicina, come accennavamo prima. Come hai vissuto lo scontro secolare tra fede e scienza?
Domanda giustissima, perché c'è stata proprio una ricerca. Mi sono allontanato dalla religione durante il liceo, studiando filosofia e cercando di approfondire sia i filosofi religiosi che quelli più laici. Quando ho iniziato a studiare medicina, al secondo anno, ho incontrato la neurofisiologia, che mi ha fatto capire che molte emozioni e sensazioni potevano essere spiegate biochimicamente. Questo mi ha allontanato ulteriormente dalla fede, ma allo stesso tempo mi ha dato la volontà di capire la motivazione del percorso all’interno delle comunità religiose.
Crescendo, ho capito che la fede è qualcosa che va al di là della mente ed è istintuale. Sono molto invidioso di chi ha un percorso di fede e ho provato anche ad averlo. A Roma, c’era un parroco che si chiamava don Fabio Rosini (la sua figura ha ispirato il film Se Dio vuole) che 15 o più anni fa teneva un corso serale nei fine settimana molto frequentato: andando anch’io, è arrivata la consapevolezza che tutto ciò non faceva per me. Ho realizzato che c’era una via molto scientifica e che non mi interessava quella fideistica, che comunque non avevo. E quindi continuo a vivere nel dubbio…
Ecco perché ho girato Amen: non dico che è stato catartico ma ho rivissuto delle sensazioni ricreando dinamiche a cui volevo dare risposta.
Le due giovani protagoniste di Amen, Sara ed Ester, si ribellano ai limiti imposti dalla famiglia e dalla religione con l'epifania dell'eros, che si manifesta tramite la comparsa di Primo, un personaggio venuto quasi dal nulla. Anche tu, ovviamente, da adolescente avrai dovuto fare i conti con la comparsa del desiderio. Come l'hai affrontato?
Tema molto interessante: ovviamente, mi sono fatto delle domande anch’io. Nonostante una famiglia religiosa e un'educazione in quel senso, ho vissuto il momento delle prime volte con estrema piacevolezza. Per me è stato estremamente facile, non ho avuto quel tipo di limite che invece ho raccontato nel film.
La tua esperienza personale è stata dunque diversa da quella delle protagoniste del film…
Esattamente. Personalmente non ho avuto grandi difficoltà, ma intorno a me vedevo amici e conoscenti che subivano quel tipo di pressione e senso di colpa che veniva imposto dalla scuola e banalmente anche dalla società in cui vivevo. E che ho voluto riportare nel film. Anche se io non vissuto in prima persona in modo così difficoltoso le prime volte, la sessualità e la scoperta dell’altro sesso, ho sentito l'importanza di raccontare ciò che tanti coetanei hanno dovuto subire.
La figura di Paolina, la nonna, mi ha fatto riflettere sul patriarcato, anche se non è il tema principale di Amen. Spesso sono le donne stesse le vere nemiche della libertà e dell’emancipazione femminile.
Lo penso anch’io. Penso di essere cresciuto, in maniera bonaria, in una famiglia estremamente patriarcale, dove peròle donne recitavano il ruolo dei maschi. Ciò che mi ha sempre mandato fuori di testa è quella rassegnazione implicita dietro a certi comportamenti. Maschio o femmina che tu fossi, dovevi rispondere a un canone dettato che andava bene per tutti: “Perché devi cambiare le cose? È così che si fa”. Ma se io voglio rompere la tradizione, chi me lo impedisce? Qual è il rischio che corro? Perché devo vedere ogni mia idea troncata sul nascere perché ‘è così che si fa’?
Le due giovani protagoniste di Amen usano il loro corpo come proiezione della loro mente. È stato difficile gestire un set con due giovani attrici che dovevano mettersi a nudo anche fisicamente?
No, non è stato difficile. Grace Ambrose e Francesca Carrain sono state molto professionali e c'era molta fiducia tra noi. Con Grace, avevamo già lavorato insieme e c’era un rapporto di grande fiducia: inizialmente avevo pensato a lei per il ruolo di Ester quando poi invece ho deciso di affidarle quello di Sara. Quando è arrivata Francesca, si è creata una sorta di famiglia sul set: loro due con Valentina Filippeschi sembravano veramente sorelle. Le ho spinte a essere una famiglia contro il padre e contro la nonna: ho instillato in loro dei contesti che non solo sono esplosi ma che sembravano del tutto reali. Talmente reali che Francesca e Grace sono ancora oggi amiche per la pelle, qualcosa di raro.
La prima scena girata in assoluto con Francesca è stata proprio quella in cui nell’orto si denudava di fronte a Primo. La temevo moltissimo ma è stato come se Francesca da sola avesse trovato una chiave che poi si è accordata con il resto del gruppo. Non solo suonava la nota della rivoluzione all’interno delle sorelle ma spingeva tutto il nucleo a schierarsi da una parte e dall’altra.
Tutto è avvenuto con grande naturalezza. Vengo dal teatro lecoquiano: per me, un attore o un’attrice sono un corpo nello spazio. E la nudità fa parte di questo gioco. Sappiamo che non è semplice (tanto che oggi ci sono tutte le misure del caso) ma per quanto mi riguarda con i miei attori è come se ricreassi un ambiente teatrale in cui ci si fida l’uno dell’altro.
Per riassumere, dunque, nessuna difficoltà, se non la temperatura dell’acqua della vasca, purtroppo non caldissima, in cui Grace doveva immergersi per più scene.
Tentando di non spoilerare molto, il finale del film è un happy end dal tuo punto di vista?
No, odio essere consolatorio e non volevo esserlo. Volevo semmai che il finale desse un ultimo calcio in pancia allo spettatore, lasciando una sensazione di rassegnazione e riflessione. Non c'è un happy end: lascio un attimo prima respirare lo spettatore prima di dargli un’ulteriore considerazione lineare con quello che racconto prima. Non a caso uno dei registi che più apprezzo è Michael Haneke: non consola mai ma è molto realista rispetto a quella che è stata la sua narrazione.
Vediamo Armando, il padre delle ragazze, affrontare Primo. Quando la rabbia sembra aver preso il sopravvento, “assolve” però il nemico. Perché tale scelta?
Nei tanti diversi montaggi del film prima di arrivare a quello definitivo, raccontavo maggiormente alcune linee narrative che poi sono state sacrificate. Una di queste spiegava la storia di Primo con Armando prima del suo arrivo al casolare, qualcosa che poi ho scelto di non inserire preferendo la strada del “non detto” sul retroterra dei personaggi. La scelta di salvare Primo è legata al carattere di Armando, che è succube della madre e non riesce a portare avanti un’idea che sia sua.
Cosa vorresti per il tuo film?
Vorrei avere l’opportunità di confrontarmi con il pubblico che non deve per forza catturare le impressioni filosofiche o le sovrastrutture che ho messo nel film. Vorrei che seguisse solo la narrazione e mi dicesse la propria. Questo è ciò che più mi interessa dall’uscire in sala dopo così tantissimo tempo.