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Andrea Arcangeli: “La paura di non vivere qualcosa fino in fondo” – Intervista esclusiva

Andrea Arcangeli
Al cinema nell’horror Omen – L’origine del presagio, Andrea Arcangeli si racconta a TheWom.it seguendo la scia della parola ‘paura’. Con coraggio, resilienza e forza.
Nell'articolo:

Andrea Arcangeli è in questo momento in Guatemala. Ma poco prima di partire, mentre è in treno, ci lascia entrare nei suoi pensieri con un’intervista improntata sulle paure. La sua vita è un intreccio di esperienze che si spandono ben oltre i confini italiani, portandolo a confrontarsi con culture e lingue diverse. Andrea Arcangeli è un attore che ha saputo navigare attraverso i vasti mari del cinema internazionale, ritrovandosi ora al centro di un progetto ambizioso che promette di incutere timore e fascino, il film Omen – L’origine del presagio, tuttora nelle sale, in cui nella Roma degli anni Settanta interpreta il personaggio di Paolo.

Nell'intervista che segue, Andrea Arcangeli non si limita a discutere la sua carriera o i suoi successi; piuttosto, esplora con noi un tema tanto universale quanto intimo: la paura. Dal timore di non vivere pienamente la vita, alle ansie legate all'accettazione del proprio aspetto fisico e del giudizio altrui, Andrea Arcangeli ci offre uno spaccato profondo del suo essere, senza filtri.

Questa conversazione è un viaggio che ci porterà a scoprire come le paure di Andrea Arcangeli, lontane dall'immobilizzarlo, fungano da catalizzatori per un'esplorazione personale senza fine, spingendolo a sfide sempre nuove e a ruoli che richiedono un impegno emotivo e fisico notevole. Attraverso il suo racconto, si delineerà il ritratto di un uomo che, pur consapevole dei rischi e delle insidie del mestiere, accetta con resilienza e coraggio la sfida di essere sempre più umano, davanti e lontano dalla camera.

Prepariamoci a scoprire le molteplici sfaccettature di un attore che non ha paura di mostrarsi vulnerabile, di affrontare l'ignoto e di trasformare ogni nuovo ruolo in un'opportunità di crescita personale e professionale.

Andrea Arcangeli (Foto: Davide Musto; Total look: Canali; Styling e Press: Other Agency).
Andrea Arcangeli (Foto: Davide Musto; Total look: Canali; Styling e Press: Other Agency).

Intervista esclusiva ad Andrea Arcangeli

Omen – L’origine del presagio ti permette di recitare in un progetto internazionale. Era già accaduto altre volte in passato ma come ci sente nel sapere che il proprio lavoro varcherà i confini nazionali per essere visto nelle sale di tutto il mondo?

Ho avuto il mio battesimo di fuoco con Trust, la serie tv diretta da Danny Boyle. Anche in quel caso ero consapevole di come fosse un progetto enorme e con attori americani di prim’ordine, per cui il carico di aspettative è gigantesco: si sente una grande responsabilità. Col tempo, ho imparato o, almeno, ho cercato di farlo a scindere quello che è il mio lavoro dalle sorti che il progetto avrà, si rischia altrimenti di rimanere incatenati a un senso di responsabilità che schiaccia. Che sia un lungometraggio internazionale o il cortometraggio diretto da uno studente di una scuola di cinema, ciò che ti viene richiesto è di fare un buon lavoro evitando di finire fuori binario.

Rischia una lingua non tua, in questo caso l’inglese, di farti deragliare?

Sia per Trust sia per Omen – Il primo presagio, mi sono dovuto adattare alle ovvie esigenze di sceneggiatura: in entrambi i casi, veniva richiesto un inglese simil maccheronico. Parliamo sempre di progetti ambientati negli anni Settanta per cui recitare da italiano con un inglese fin troppo pulito sarebbe stato sbagliato: abbiamo dunque provato a essere il più coerenti possibile con l’epoca storica in cui le storie erano ambientate.

Omen – Il primo presagio è chiaramente un film horror. E horror fa rima con paura. Di cosa ha paura Andrea Arcangeli?

Al di là delle paure infantili che un po’ tutti quanti proviamo, dal buio ai ragni, alcune volte ho paura di non riuscire a fare tutto ciò che vorrei, di perdere delle occasioni e di non riuscire a vivere qualcosa fino in fondo. Il solo fatto di rendermi conto di queste mie paure in qualche modo mi spinge a far di tutto per superarle. In questo momento, ad esempio, sono in treno, diretto a Milano, da dove domani parto per il Guatemala da solo. Ogni tanto mi concedo delle fughe a tempo indeterminato (non ho ancora il biglietto di ritorno) per non arrivare a un punto della mia vita in cui mi pentirei di non averlo fatto. Per evitarlo, mi rimbocco le maniche e vado via, con tutte le difficoltà che un viaggio in solitaria presenta.

Perché da solo?

Difficilmente, in viaggio ci si ritrova da soli ma mi serve che la premessa sia quella di essere da solo. Inevitabilmente, ci sarà dopo la scoperta di altre persone, di altri stimoli e di altre storie ma devo cercarli. Partire con qualcuno significherebbe limitarsi a chi è con te: andare da solo, invece, mi fa sentire totalmente aperto a qualsiasi cosa che accadrà. Allo stesso tempo, stare da solo mi è utile per ascoltarmi di più e anche meglio.

Sei in quella delicata fase di vita in cui dall’essere un ragazzo stai divenendo un giovane uomo: ascoltarsi di più è un’esigenza che nasce anche da ciò?

Sì. I viaggi da solo si rivelano anche molto difficili e molto pesanti. Non sono quasi mai di vacanza alla leggera ma ho bisogno che siano così affinché mi lascino dopo un bagaglio enorme, che serve a me e serve al mio lavoro. Sono fondamentalmente viaggi che, da un lato, mi portano a conoscere il mondo e altri esseri umani affinché mi regalino le loro di esperienze ma che, dall’altro lato, mi permettono di affrontare un’introspezione molto intima e forte, in modo da usare poi quello che provo in scena.

C’è una ragione particolare per cui hai scelto il Guatemala?

Non proprio. Sono stato l’anno scorso in Messico a girare un film che uscirà prossimamente, Casi el Paraiso (con nel cast anche Maurizio Lombardi, ndr). Abbiamo lavorato quasi solo a Città del Messico, per cui avevo voglia di tornare in Centro America, anche con la scusa di riprendere a parlare lo spagnolo, una lingua che avevo imparato per quel set e che non volevo perdere. Già due anni fa avevo vissuto un’esperienza simile nelle Filippine ma questa volta volevo andare dall’altra parte del mondo rispetto all’Asia. Si tratta sempre di posti con culture molto forti e radicate e a me piace scoprire culture che siano lontane dalla mia.

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Hai mai avuto paura di crescere?

Alterno fasi in cui ho un’enorme urgenza di crescere ad altre in cui ho paura di farlo. Ogni anno della mia vita si è rivelato sempre diverso portando a nuove scoperte di me e a sforzi nuovi da affrontare. Ho cercato di non privarmi di nulla, vivendo anche ciò che non avevo voglia di vivere realmente. Ma viverlo mi serviva proprio a capire me stesso e le mie esigenze.

E crescere significa mettersi anche duramente alla prova, come hai fatto fisicamente per il film Come pecore in mezzo ai lupi, per cui hai perso oltre venti chilogrammi. Fa paura la forza insita nel proprio corpo?

È semmai bello realizzare quanta forza abbia il proprio corpo, una forza spaventosa che può dettare le regole tanto nel fisico quanto nella testa. Lavorare in quel film mi ha messo fisicamente sotto torchio ma mi ha permesso di conoscere molto il mio corpo, di capire quanto e come potessi usarlo a mio favore, quale potenziale avesse insito, quanto anche delicato fosse e quanto bisognasse prendersene cura: un corpo va amato e va rispettato. Nonostante sia stata un’esperienza durissima, se me ne dovesse ricapitare un’altra simile, la accetterei proprio perché il corpo è uno strumento di narrazione e come tale occorre saperlo usare, al pari della voce.

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Nel caso del film di Lyda Patitucci, interpretavi un personaggio maschile dalla spiccata sensibilità, ribaltando con Isabella Ragonese gli stereotipi legati all’identità di genere. Che rapporto hai con la tua sensibilità?

Dalle persone a me vicine, da mia madre a quelle di cui sono stato innamorato, mi è sempre stato detto di essere una persona molto sensibile. Ma di più non saprei dire: non ho una visione specifica della mia sensibilità. Mi rendo però conto di come ci siano tante cose che mi tocchino più di quanto io mi aspetti che facciano… ma è a anche bello che sia così perché, dovendo da attore mettere in scena le storie delle vite degli altri, devo essere il primo ad avere un certo grado di sensibilità nei confronti del mondo, sarei altrimenti limitato.

Il mio lavoro, dunque, è proprio quello di affinare il più possibile la mia sensibilità e di essere più in contatto con ciò che ho dentro. Faccio l’attore delle storie che altri voglio che vedano ma lo faccio anche come terapia per me stesso. So che mi serve per scoprire aspetti di me sotto personaggi che hanno un altro nome: è la ragione per cui non c’è mai fine al lavoro dell’attore, le sfaccettature che si possono trovare dentro di sé sono infinite.

Quale sfaccettatura hai scoperto dentro di te che ti ha sorpreso?

Un certo aspetto resiliente che mi permette di superare prove o ostacoli anche quando tutto sembra molto nero ai tuoi occhi. Ho realizzato di avere come la capacità di superare o di utilizzare a mio favore le cose che non vanno: determinati meccanismi e dinamiche inverse possono portare a epifanie molto più potenti di quelle che si erano già preventivate.

Ed è questa resilienza che ti porta spesso a scegliere ruoli molto complessi per progetti che sono meno commerciali e più artistici come ad esempio Il muto di Gallura?

Sono stati paradossalmente quei ruoli a venirmi a cercare e a bussare alla mia porta. Non godo del privilegio che hanno altri attori o altre star di poter scegliere cosa fare. Dei progetti che mi vengono proposti, opto per quelli che reputo più interessanti e ultimamente molti di questi sono stati collegati da un sottile fil rouge: il mettersi alla prova. Ma non era un mettersi alla prova fine a se stesso o sterile, per vedere quanto bravo fossi a trasformarmi: celava sempre personaggi che valevano la pena di essere interpretati e che a me come attore davano delle lezioni che valevano la pena di essere apprese.

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Immaginavi da adolescente che la passione per la recitazione potesse trasformarsi in un lavoro che ti mettesse così umanamente alla prova?

In tal senso, fondamentale per me è stata la scuola che ho frequentato, la S.M.O. (Spazi Mentali Occupati), perché aveva come obiettivo quello di connetterci con noi stessi ancor prima di insegnarci il mestiere. Anche perché non era facile per una scuola di Pescara, non proprio connessa con il mondo di Hollywood o con il centro del cinema italiano, prometterci di diventare attori: è una realtà molto piccola quella della città, per cui sarebbe pretenzioso, quasi una bugia, promettere a dei giovani studenti il successo nel mondo del lavoro (cosa che poi a me o a Francesco Centorame è capitata).

La scuola aveva come scopo primario metterci in contatto con la nostra interiorità, con quello che avevamo dentro. E, a distanza di anni e di esperienza sul campo, mi rendo conto che è il fulcro del lavoro dell’attore non consiste soprattutto nel lavoro che si fa sull’uomo.

Non fa paura interpretare per un film una persona realmente esistente che può giudicare il lavoro fatto? Sei stato protagonista di Il divin codino, in cui interpretavi Roberto Baggio. Una sfida che diventa al tempo stesso motivo di resilienza ma anche di coraggio.

È stata una delle tante mie avventure e sfide lavorative che più somiglia alle mie sfide di viaggio: non so cosa avverrà ma devo farmi trovare pronto. Ho potuto farlo perché c’erano circostanza per me adatte, a partire dalla presenza e dalla vicinanza con Roberto Baggio: abbiamo parlato di vita ad esempio di vita e di buddismo… se da un lato interpretare qualcuno in vita poteva essere una tragedia, dall’altro lato ho cercato di tirare fuori il meglio da quell’esperienza.

Il calcio era al centro di quel film. Ma di sport nel tuo percorso ne hai praticati tanti, dal basket alla ginnastica artistica. Che ruolo ha avuto lo sport nella tua vita?

Ho passato tantissimi anni della mia vita a praticare spor al punto di pensare che un giorno sarei diventato uno sportivo o di vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi: praticando ginnastica artistica, Yuri Chechi era per me un idolo.

Cosa ti spingeva a cambiare così tanti sport?

Ho avuto l’esigenza di farlo sin da quando ero piccolo: probabilmente ho sempre cercato degli stimoli dall’esterno che potessero riempirmi. Ho fatto molti sport ma anche tantissime altre cose, come ad esempio suonare diversi strumenti. Mi interrogo spesso sul benessere e su dove trovarlo: all’esterno o dentro di noi. In questo periodo, sto ad esempio leggendo un libro di un monaco tibetano buddista che suggerisce come, sebbene siamo portati a cercare all’esterno le risposte, dentro di noi ci sia già tutto ciò di cui abbiamo bisogno.

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Nel tuo caso, si dice spesso che sei un ‘bel ragazzo’: è stata la bellezza più una condanna o un dono?

Ho perso da poco un ruolo per una serie tv perché non ero abbastanza ‘bello’. Mi è stato detto a chiare lettere che volevano un ‘bono’ per quel ruolo… ragione per cui non ho mai considerato la bellezza né un vantaggio né uno svantaggio: alle volte, può tornare utile mentre, altre volte, può essere un boomerang. Tuttavia, l’argomento è talmente delicato che non mi fido più neanche di dire realmente quello che penso perché la fuori è pieno di cerberi che azzannerebbero qualunque risposta vagamente sbagliata, come è successo recentemente ad Alessandro dei Santi Francesi, che ha dovuto subire una gogna mediatica assolutamente folle. In generale, non si è più padroni di dire quello che si pensa perché viene costantemente rimaneggiato da chi poi lo legge.

Hai mai avuto paura del pregiudizio?

Ci sono stati in cui, quando delle volte facevo nuove conoscenze, è stato una sorta di ostacolo da superare per guadagnare un rapporto sincero con gli altri. Spesso, purtroppo, tanti miei colleghi hanno un ego così smisurato da metterlo al primo posto, davanti a tutto e tutti: di conseguenze, negli altri scatta un meccanismo di autodifesa per cui mi sono ritrovato a essere trattato con sufficienza per evitare che fossi io a trattarli in quel modo. Non nascondo che ha ferito molto proprio perché nella vita ho sempre cercato di essere limpido con gli altri. Ci si aspetta che il lavoro di attore sia sempre tutto rose e fiori o riconoscimenti a destra e a manca ma così non è: il pregiudizio mi ha chiaramente fatto star male.

E la solitudine in generale, al di là dei viaggi, ti ha mai fatto paura?

Non penso. Appartengo alla schiera di coloro che quando ne hanno bisogno ricercano la solitudine. Vivo molto alla giornata, per cui anche la solitudine va bene: l’importante è non abituarsi a essa perché altrimenti si finirebbe per non voler più la presenza degli altri. Ma di per sé non condanno la solitudine: non è detto che sia un male, anzi…

Andrea Arcangeli: Film e serie tv

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Casì el Paraiso.
2/11
Come pecore in mezzo ai lupi.
3/11
Trust.
4/11
La donna per me.
5/11
Il muto di Gallura.
6/11
Il Divin Codino.
7/11
Romulus.
8/11
The Start-Up.
9/11
Loris sta bene.
10/11
Dei.
11/11
Aldo Moro - Il professore.
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Hai mai temuto l’amore in senso lato?

Sì, l’amore mi fa paura al pari dei ruoli molto difficili, delle sceneggiature impegnativi e dell’andare dall’altra parte del mondo da solo. Sono tutte situazioni in cui bisogna dare il massimo e che meritano il 100% delle nostre facoltà. L’amore, poi, è un sentimento sul quale non si può passare con leggerezza: occorre dedicarcisi fino in fondo. E forse è questo che fa paura.

Tra parlare e tacere cosa scegli?

Tendo a tirare tutto fuori anziché tenere dentro: provo quindi in ogni situazione a dire ciò che penso. Anche perché sulle cose non dette continuerei a rimuginare e prima poi da qualche parte verrebbero fuori.

Chiudiamo con una paura effimera. Cosa ti spaventerebbe di più tra una scena di nudo frontale e una con un incontro di boxe?

Un incontro di boxe. Ne ho già fatti di finiti e ho preso dei pugni in faccia non da poco…

Andrea Arcangeli (Foto: Davide Musto; Total look: Canali; Styling e Press: Other Agency).
Andrea Arcangeli (Foto: Davide Musto; Total look: Canali; Styling e Press: Other Agency).
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