Andrea Bosca è il protagonista, insieme a Giuseppe Fiorello e Claudia Vismara, del film di Rai 1 I cacciatori del cielo, in onda mercoledì 29 marzo in prima serata. Prodotto da Gloria Giorgianni per Anele con Luce Cinecittà in collaborazione con Rai Documentari, I cacciatori del cielo racconta la vera storia di Francesco Baracca, asso dell’aviazione militare e civile, e va in onda in occasione delle celebrazioni per il Centenario della costituzione dell’Aeronautica Militare.
Diretto da Mario Vitale (con la consulenza storica di Paolo Varriale), il film I cacciatori del cielo mischia fiction, documentario, immagini d’archivio, “interviste” realizzate ai protagonisti della vicenda e animazione per raccontare un’epopea i cui temi echeggiano ancora oggi: guerra, fratellanza, grandi ideali, amicizia e amore. Mentre Giuseppe Fiorello nel film I cacciatori del cielo dà vita a Francesco Baracca, Andrea Bosca interpreta Bartolomeo Piovesan, un personaggio di fantasia che nell’economia del racconto aiuta “l’Asso degli assi” a mettere a punto il velivolo con cui, con sacrificio e dedizione, conseguirà il maggior numero di vittorie aeree durante la Prima guerra mondiale.
Di Piovesan, del film I cacciatori del cielo ma anche di molto altro abbiamo voluto parlare con Andrea Bosca, un attore il cui impegno è da sempre sotto gli occhi di tutto. Timido, riservato e introspettivo, Andrea Bosca si è sempre guardato dentro consapevole dell’idea che non si deve restare con le mani in mano: tutto si fa, soprattutto quando si mette in relazione il proprio bambino interiore con l’adulto che si è diventato.
Con il Piovesan del film I cacciatori del cielo, Andrea Bosca condivide molti aspetti, dalle origini di provincia (venete per il personaggio, piemontese per l’attore) agli ideali. Non stupisca dunque se nel corso di quest’intervista gli sentirete dire che “l’aereo si costruisce mentre si pilota” o “occupatevi e non preoccupatevi”, due massime che ha fatto proprie e che, lungi dall’essere lezioni di vita impartite, possono aiutare tutti quanti.
Intervista esclusiva ad Andrea Bosca
Bartolomeo Piovesan, il tuo personaggio, è uno dei pochi che non è realmente esistito. Chi è?
Bartolomeo Piovesan è un ragazzo di campagna. Proviene dalle campagne venete, parla in italiano perché ha dovuto impararlo per andare a scuola ed è un giovane veramente semplice. Nonostante le sue umili origini, ha una grande passione e curiosità per i motori, un mondo che ha solo potuto sognare fino a quando non incontra Baracca.
Sebbene provengano da contesti differenti, Baracca dall’alta borghesia e quasi nobiltà e Piovesan dal nulla, la grande intuizione di Francesco è quello di tramandare cultura a Bartolomeo, permettendogli di istruirsi per poter cambiare, evolvere e crescere. Io ho sempre amato crescere, studiare e comprendere attraverso le persone, non mi è mai piaciuto l’apprendimento freddo: mi piace apprendere sul campo con qualcuno che ti spiega le cose.
L’aspetto bello di Bartolomeo è che un grande amico, una persona che ha una grande dignità: viene dal popolo, si rimbocca le maniche e riesce a riscattarsi grazie all’istruzione, alla passione, allo studio e all’umiltà di imparare. Con Francesco Baracca condivide gli stesso valori: entrambi vogliono difendere e proteggere le stesse cose. Vivono in un’epoca in cui la tecnologia era gli albori, gli aerei che pilotano o aggiustano non erano altro che velivoli rudimentali, ma nel loro sperimentalismo si aprono l’uno all’altro, allo sconosciuto.
È questa la bellezza di entrambi i personaggi: credo che il vero eroismo sia quello che vivono tutte le persone che hanno rispetto di se stessi, degli altri e della vita, aprendosi allo sconosciuto e condividendo rispetto e passione. La soluzione comunitaria è più forte rispetto a quella dettata dall’isolamento di chi non rispetta gli altri e se stesso.
La tua riflessione si può traslare nella situazione che viviamo anche oggi quando neghiamo collaborazione a una barca di migranti in cerca di speranza che solca i nostri mari a rischio della vita.
In questi giorni, sto portando in teatro La luna e i falò di Cesare Pavese. Nel mio monologo dico spesso che non bisogna dire “gli altri si arrangino”, bisogna aiutarli. È inevitabile fare i conti con la miseria ma è il modo a cui rispondi che fa la differenza. Non possiamo far finta che chi arriva da noi per tanti motivi legati alla geopolitica mondiale non esista o delegare a qualcun altro il da farsi: è molto più facile passarsi la patata bollente di mano in mano. Baracca e Piovesan non si dicono mai “È colpa tua”, si prendono le loro responsabilità e gestiscono insieme le difficoltà altrimenti non ne uscirebbero vivi.
Sebbene sia di fantasia, il personaggio di Bartolomeo permette di riflettere sulle conseguenze reali della guerra. Perde un fratello nel primo conflitto mondiale e si confronta dunque in famiglia con la perdita e il lutto. È un modo, se vogliamo, di riflettere sui tanti conflitti che attanagliano ancora oggi il mondo.
In guerra, si perde e basta: non c’è chi vince. Certo, c’è chi ci guadagna ma sono in pochi. La popolazione perde sempre. Perde tutto quello che ha costruito, la propria umanità, i figli: è veramente triste come la scelta di sparuti individui decida il destino di tanti.
La storia ce lo insegna e dovremmo ricordarcelo sempre: tutti quanti abbiamo avuto un nonno o un bisnonno che ha lasciato le penne in guerra o da cui abbiamo sentito racconti tristissimi. L’Italia è stata costruita da quella gente lì e nei luoghi in cui abbiamo girato I cacciatori del cielo sono in molti a ricordarsi cos’è un conflitto: fa quasi impressione.
Reciti in veneto. È stato facile per un piemontese?
Sono felice che tu mi chieda di quest’aspetto. La bellezza della trasformazione è sempre stata uno dei cardini della mia carriera. Non volevo recitare in un generico veneto e per tale ragione ho chiesto a un mio amico regista (che vive lì) e poi a un fonico di Treviso (Alberto) di aiutarmi con la lingua.
Mi sono state di supporto anche diverse persone della troupe: volevo essere rispettoso e ho fatto del mio meglio per riuscirci nei confronti di una terra che spesso viene rappresentata in maniera generica facendo sì che la gente non si senta rappresentata. Ho voluto fare la mia piccola ricerca con chi ho conosciuto e ho cercato di parlare come loro. Ci ho messo un po’, ho vissuto con le cuffiette ad ascoltare registrazioni in veneto per un po’ di tempo ma senza perdere mai l’intento di rispettare la lingua.
Hai citato Pavese. Lo stai portando in teatro ma sarai presto anche al cinema protagonista di un film tratto da Pavese e diretto da Laura Luchetti, La bella estate.
Ho girato da protagonista Febbre da fieno, il primo film di Laura, e da allora siamo diventati amici, mi definisce il suo “attore feticcio” e come tale devo essere in tutte le sue opere. In questo nuovo film, una storia di ragazzi, c’era un personaggio di Torino che potevo interpretare e, quando Laura chiama, io vado in nome sia dell’amicizia fraterna che ci lega sia del talento che le riconosco.
La parola amicizia emerge dal film di Mario Vitale insieme alle parole terra e famiglia.
Amicizia, terra e famiglia per me sono la vita. A queste parole aggiungerei anche rispetto e amore, che completerebbero le ideali cinque dita di una mano. Fanno tutte parte di un bene sotterraneo, molto profondo, che passa attraverso le persone, le cose e il territorio. Tra loro c’è come un filo rosso, quasi poetico, che per me le lega. Se non ci fosse, non ci sarebbe nemmeno l’anima dei personaggi e delle storie che racconto.
È un filo invisibile ma è molto resistente: deve esserci affinché un’interpretazione abbia profondità e tocchi il cuore delle persone, per far sì che ad esempio che I cacciatori del cielo non sia soltanto la storia di un eroe ma anche e soprattutto la storia di esseri umani.
Esseri umani a cui dedichi anche il tuo impegno al di fuori del set. Sei tra i fondatori della onlus Every Child is My Child, un’associazione che si occupa soprattutto di bambini. Cosa significa pensare al futuro dei bambini per chi come te non ha ancora figli?
Non ho ancora avuto la fortuna di avere figli ma posso dire che prendersi cura dei bambini da proteggere è qualcosa che ti dà tanto e se possiamo farlo insieme diventa ancora più significativo. È importante vedere i frutti del proprio impegno e dell’aiuto portato agli altri: ti fa capire quanto sei piccolo rispetto a quello che è il bisogno di quel momento. Per usare le parole di Pavese, il mondo va aggiustato: non deve esistere chi non ha nome o casa. Non c’è alcuna differenza tra noi e quei bambini: noi siamo solo nati in un posto molto fortunato in cui non abbiamo avuto l’orrore di una guerra che da un giorno all’altro spazza via ogni cosa.
Se penso ai Siriani, trovo inconcepibile che da un giorno all’altro sono passati dall’essere come noi al non avere niente. Sono spesso stato sul posto e sono contento che la scuola che finanziamo con la onlus Insieme si può fare sia diventata nel momento del terremoto una casa rifugio per tante persone sfollate: non c’è mai limite a quello che si può fare, dipende da quali sono le risorse. Sono un piccolo ingranaggio di tutto ciò, un servitore ma sono felice quando qualcuno che vede i miei film o le mie storie scopre Every Child is My Child e decide di darci una mano: collaboriamo per far qualcosa insieme, non risolve tutti i problemi del mondo ma qualcosa risolve. È bello farlo insieme e vedere quei bambini felici.
E tu sei stato un bambino felice?
Io sono stato un anche un bambino felice e questo mi ha reso anche un attore. Un bambino per essere veramente felice deve essere libero di esprimere tutte le sue emozioni: non solo la felicità ma anche la tristezza e la rabbia. Penso che un adulto sano sia un adulto che sa esprimere sentimenti ed emozioni senza paura e limiti, senza doversi chiudere dentro a un’identità rigida. Se il nostro bambino interiore può esprimersi, è sano ed è comunque sempre amico del nostro adulto, tutto va bene: si può fare qualsiasi cosa.
Non hai nascosto sui social che c’è stato un momento della tua vita in cui hai provato una sorta di blocco sul palcoscenico: in quel momento il tuo bambino interiore comunicava con il tuo io adulto?
È stato un momento che sono riuscito a superare grazie a un lavoro personale di analisi. Ho cercato di instaurare un dialogo anche molto fertile, tra l’immaginario e il reale, fra queste due persone e di trovare un ponte. In mezzo, c’erano delle situazioni di disagio: mi ero allontanato dalla mia comfort zone e ho quindi dovuto ascoltare molto di più quella parte bambina che avevo forse un po’ messo da parte. Quando ti ritrovi in una situazione nuova, devi cambiare una serie di robe e ti ritrovi a dover reimpostare la tua vita. E si fa e si impara. Adesso che ne sono fuori, sono grato anche a quel momento.
Si può fare e si fa: tornano spesso nelle tue parole. Mi sembra di intuire che non sei tipo da stare con le mani in mano a piangersi addosso…
Non possiamo permettercelo. Non ho capito ovviamente la formula della vita ma vivo dei momenti di riflessione e dei momenti di azione: devono esserci entrambi. A volte c’è la possibilità di riflettere, altre invece quella di fare. Si riesce ad andare avanti perché si costruisce l’aeroplano mentre lo si pilota: non si aspetta solo il momento giusto o propizio per farlo, occorre far fruttare in quello specifico momento ciò che si ha, che si immagina o che arriva dall’intuito.
Non sempre si va sul sicuro, ci si butta e le risorse vengono fuori da sé. È un po’ come quando giri una scena: l’hai studiata e discussa ma poi ti ritrovi con variabili inattese da gestire, dalle richieste del regista all’emotività non sempre perfetta. Come diceva Roosevelt, fai quel che puoi con quello che hai: solo andando e facendo trovi le energie necessarie.
Le forze ti vengono nel momento in cui affronti qualcosa: le possibilità ti si aprono nel presente, se ti preoccupi non ti puoi occupare. È una lezione che mi ha dato l’aver interpretato il personaggio di Marco Pannella in Romanzo radicale di Mimmo Calopresti: non preoccupatevi ma occupatevi. È diverso: si costruisce l’aereo mentre lo si pilota in situazioni che non sai mai quali saranno ma in cui devi essere sempre pronto a correggere la rotta.
Un concetto che torna anche in I cacciatori del cielo: Piovesan, da meccanico, può capire a pieno i problemi del motore di un aereo solo quando vi sale per la prima volta, ascoltandone vibrazioni e rumori in volo.
Quanto siamo complessi come esseri umani: da un piccolo passaggio sensoriale riusciamo a capire cosa non va… che potenziale intuitivo abbiamo, che tecnologia c’è dentro di noi! Spesso deleghiamo alla tecnologia esterna o agli smartphone tutta una serie di cose senza pensare a quante facoltà sono insite in noi. Dovremmo affidarci maggiormente a noi stessi.
Mario Vitale, il regista di I cacciatori del cielo, in conferenza stampa ha ricordato come Baracca sia vissuto nello stesso momento in cui il cinema ha mosso i suoi primi passi. Quando si giravano i primi film, non c’era mica la possibilità di rivedere il girato subito dopo come accade oggi: bisognava affidarsi all’intuito per capire cosa si stesse girando. Quindi, immaginate che capacità di intuito avevano maestranze, operatori e tutti coloro che dovevano mettere in atto le loro azioni in maniera analogica…
Avevano una sapienza che ho visto anche a casa mia con mio padre artigiano e che ho cercato di far propria: sono un attore manuale e non digitale. Amo molto fare le cose col corpo: per me è sempre stato centrale. Lo considero una chiave per entrare dentro i personaggi: il corpo è uno strumento e come tale va usato. Sento di non poterne fare a meno.
Sei sereno in questo momento?
Sono felice. Ma vorrei riuscire a dare spazio alla creatività. A me piace molto la poesia: è una passione che non ho mai mostrato e mi piacerebbe darle voce, facendo conoscere quanto ho scritto negli anni. Mi piacerebbe cominciare a mostrare qualcosa: sono arrivato a quella maturità per cui posso dire “va bene, guardate anche qui”.
In qualche modo ritorna il discorso sul corpo: scrivere dà forma a un corpo immaginario…
Sì, ma è anche una battaglia fisica con la penna. Ho scritto molto a mano: l’inizio di molte poesie è legato alla penna, è come se mi concedesse una libertà maggiore. Immagino sia una cosa generazionale ma la penna in mano mi risveglia qualcosa, che magari poi continuo a scrivere con il pc.
Cosa ti auguri per I cacciatori del cielo?
Mi auguro che la gente lo veda. È stato fatto un grande lavoro e Mario Vitale, il regista, è stato bravo nel confezionare una storia che suona nuova e a cui ha saputo portare grande poesia. Trovo che Mario sia bravo nello scrivere e lo reputo un grande regista che ama affrontare le sfide anche di linguaggio.
Non è facile coniugare fiction, documentario, animazione e, se vogliamo, mockumentary, per via delle sequenze in cui i personaggi si rivolgono al pubblico come in un’ideale intervista…
Temevo molto le “interviste”: quando le si fanno a un personaggio così particolare come Piovesan con il suo accento, c’è il rischio di restituire qualcosa che suoni finto. Quando le ho lette in fase di sceneggiatura, ho subito pensato che fossero la parte più difficile del film, forse più delle sequenze animate.