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Andrea Bruschi: “Musica e cinema su binari paralleli” – Intervista esclusiva

andrea bruschi
In occasione dell’arrivo su Sky e Prime Video del film Ferrari, incontriamo uno degli attori italiani più apprezzati dalle produzioni straniere: Andrea Bruschi. Con lui, ripercorriamo il suo percorso tra professionale e privato, passato e futuro.

Intervistare Andrea Bruschi equivale a immergersi in un viaggio che attraversa città, arte e tempo. Mentre si trova a Genova, una giornata assolata fa da sfondo a un dialogo che collega immediatamente due estremità d'Italia, Genova e Palermo, con una storia di migrazioni e incontri che risale a secoli fa. Questo intreccio di luoghi si riflette nella carriera poliedrica di Andrea Bruschi, il cui curriculum vanta una significativa presenza in produzioni internazionali, sottolineando una scelta di vita che trascende i confini geografici. La sua esperienza a Berlino e Londra non solo ha arricchito il suo percorso attoriale ma ha anche plasmato il suo approccio artistico in generale, permettendogli di esplorare e confrontarsi con diverse culture e linguaggi.

Berlino, in particolare, emerge come una città fondamentale nel suo sviluppo personale e professionale, offrendogli opportunità e stimoli che Genova, nonostante il suo amore per la città natale, non poteva fornire. L'attrazione per la new wave, l'espressionismo, e figure come Bertold Brecht hanno aperto a Andrea Bruschi un mondo artistico ricco e variegato, segnando indelebilmente la sua gioventù e la sua carriera.

Dal suo esordio nel mondo della musica alla transizione verso il cinema e la recitazione, Andrea Bruschi traccia un percorso che evidenzia la stretta interconnessione tra le diverse forme d'arte. L'incontro con Fernanda Pivano e la successiva partecipazione a Il partigiano Johnny rappresentano momenti chiave che dimostrano come la vita e l'arte possano intrecciarsi in modi inaspettati, guidati da passione e curiosità.

Lavorare con registi del calibro di Michael Mann, Peter Greenaway e Joe Wright non solo testimonia la versatilità e il talento di Andrea Bruschi ma anche la sua capacità di inserirsi in contesti artistici diversificati, contribuendo a progetti che spaziano dal cinema alla televisione. La sua partecipazione a produzioni internazionali come M - Il figlio di Mussolini e Lidia Poet 2, così come il suo impegno in serie di rilievo nazionale, riflettono un desiderio costante di esplorare nuove sfide e di arricchire il proprio bagaglio culturale e professionale.

In questa intervista, Andrea Bruschi non solo condivide i momenti salienti della sua carriera ma anche le riflessioni su arte, cultura e vita, offrendo uno sguardo intimo sul percorso di un artista che continua a cercare, a esprimersi e a connettersi con il mondo in modi sempre nuovi e sorprendenti.

Andrea Bruschi (Foto: Gianluca Moro; Press: Licia Gargiulo @Gargiulo&PoliciCommunication).
Andrea Bruschi (Foto: Gianluca Moro; Press: Licia Gargiulo @Gargiulo&PoliciCommunication).

Intervista esclusiva ad Andrea Bruschi

“Sono a Genova, in una bellissima giornata di sole”, mi risponde Andrea Bruschi quando gli chiedo dove si trova. “Ma tu sei a Palermo. E Genova e Palermo hanno uno strano rapporto che va ormai avanti da secoli: tutti quelli che partivano in nave dal sud erano costretti a passare da qui e chissà in quanti si saranno fermati. La sorella di mia nonna aveva sposato lo zio Nino, che era appunto di Palermo! Spero di tornare presto nella tua città: ci sono stato l’ultima volta nel 2010 e so che nel frattempo è cambiata tantissimo da un punto di vista culturale”.

Ferrari, il film di Michael Mann a cui hai preso parte, sta per andare in onda su Sky Cinema e approdare sulle varie piattaforme, tra cui Prime Video. Nel guardare il tuo curriculum, sembra che tu ci abbia preso gusto con le produzioni internazionali.

Diciamo pure che sono un po’ la mia priorità ma rimane il fatto che le cose, comunque, nella vita accadono anche senza volerle e sono frutto anche di una scelta di vita esistenziale fatta tanto tempo fa. Avendo vissuto a Berlino e a Londra, conosco bene le lingue e ciò mi ha aiutato nel mio percorso attoriale ma anche in quello artistico in generale. Sono stato molto fortunato e spero di continuare su questa linea.

Berlino è stata una città imprescindibile per te: cosa ti ha dato che Genova non ti dava?

Berlino o Londra rappresentano per chi viene da città italiana sì grande ma sempre di provincia una realtà difficile da restituire a parole... Ma Berlino è la città che più mi ha segnato perché ci ho vissuto per quasi dieci anni. Ci sono stato per la prima volta nel 1986 con l’Interrail, c’era ancora il Muro che la divideva in due e, da musicista, ero attratto dall’essere al centro di un percorso musicale che mi interessava: era lì che David Bowie, Nick Cave e i Depeche Mode avevano registrato alcuni dischi ai famosi studi Hansa ed era lì che la new wave aveva la sua culla, contenendo non solo la musica ma anche il cinema e il teatro.

Ho avuto così modo di conoscere l’espressionismo o Bertold Brecht, aprendomi a un mondo artistico nuovo. Ero un adolescente e sperimentavo altre esperienze di vita da quelle che la mia città avrebbe potuto offrirmi, andando alla ricerca di una dimensione diversa. Anche se per me l’Italia rimane sempre la più importante culla culturale del mondo, c’era il desiderio di vedere altri posti, confrontarsi con modi diversi di intendere l’arte e la voglia di imparare un’altra lingua.

Sono molto contento di averlo fatto perché qualunque cosa ho vissuto mi ha dato la possibilità di essere molto aperto e di approfondire quello che poi è diventato il mio percorso artistico ma anche esistenziale. Credo di aver acquisito anche l’esperienza che mi occorreva per esprimermi e per confrontarmi con il reale, accumulando una memoria importantissima che torna fuori tutte le volte che serve.

Lo hai appena ricordato: cominci il tuo percorso nel mondo della musica. Cos’è che ti ha fatto poi optare per la recitazione portandoti sul set del tuo primo film, Il partigiano Johnny?

Nella mia vita, musica e cinema sono sempre andate di pari passo. Ho un fratello più grande di sette anni che ha sempre fatto musica e ho dunque visto da vicino tutto quello che la musica comporta, dal come formare una band a come muoversi nell’ambiente. Ma sono anche cresciuto a Genova in un quartiere come San Fruttuoso, dove c’erano tanti cinema di terza o quarta visione. I miei genitori lavoravano e stavo spesso con mia nonna: è stata lei a portarmi a vedere tantissimi film che hanno contribuito ad alimentare e accrescere la mia immaginazione.

Le due passioni scorrevano in parallelo ma era molto più semplice, dl mio punto di vista, provare a fare musica che pensare di diventare attore: mi sembrava impossibile riuscire a essere coinvolto in un film, la cui produzione allora era avvolta da un alone di magia e mistero che oggi è un po’ scomparso. E, quindi, sono partito dalla musica, anche se il mio primo spettacolo teatrale amatoriale risale a quando avevo nove o dieci anni. Ma, pur facendo musica, cercavo un altro modo per esprimermi e seguivo un laboratorio di recitazione. Per me, i due mondi in realtà rappresentano le due facce della stessa medaglia, quella dell’interpretazione.

Come sono arrivato al mio primo film? La storia è abbastanza curiosa. All’esame di maturità, ho portato una tesi sulla beat generation per l’inglese. Studiando Fernanda Pivano, che era di Genova, mi sono concentrato su Il partigiano Johnny, un libro scritto in inglese da Beppe Fenoglio e poi tradotto da lei in italiano. La vita poi è strana, le energie si muovono, ho cominciato a realizzare diversi cortometraggi e sono diventato amico di Pivano, convincendola a fare un film con me che si chiamava 500, che poi mi ha aperto la strada per Il partigiano Johnny.

Com’è stato conoscere Fernanda Pivano?

L’ho conosciuta negli ultimi anni della sua vita ma mi ha raccontato un sacco di cose e le ho fatto un milione di domande. Era una donna fantastica, oltre che importantissima per la cultura italiana: la sua figura andrebbe spiegata meglio nelle scuole per il ruolo che ha ricoperto, non è stata solo una traduttrice ma una traghettatrice delle opere altrui sdoganandole.

Ferrari: Le foto del film

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Nasci il 1° maggio del 1968 a Genova, una data che racchiude in se due elementi simbolici ma che ti hanno sicuramente connotato: il 1° maggio e il 1968, l’anno della ribellione giovanile…

La Francia non era molto lontana da Genova, tanto che mio padre mi ha raccontato che quando sono nato io c’era anche un bel fermento all’università di Genova.

…ma muovi i primi passi nel teatro parrocchiale, senza che per questo tu possa essere definito un attore parrocchiale. Eppure, Michael Mann nel film Ferrari ti vuole proprio come prete, una curiosa coincidenza.

Michael Mann è un genio assoluto. Nell’affidarmi in ruolo mi ha fatto un lungo discorso su come il mio personaggio fosse un prete di sinistra, attento alla working class e alle sue esigenze. Parla infatti alla messa dei meccanici ed è dalla parte del popolo, dei lavoratori. Mi dispiace che in molti abbiano frainteso quale fosse l’obiettivo del regista: chi si aspettava un biopic televisivo è rimasto deluso dimenticandosi di essere di fronte all’opera di un autore che, come ha sempre fatto, prende una storia o una situazione specifica per spiegare le problematiche di un essere umano, le ossessioni che vive e la sua interiorità. Chi voleva vedere un racconto didascalico è rimasto sicuramente spiazzato ma non si va al cinema solo per divertirsi ma anche per pensare o riflettere.

La lista degli autori con cui hai lavorato è lunga: non c’è solo Michael Mann ma anche Peter Greenaway, Peter Del Monte e potrei continuare ancora.

Io lo definisco il frutto di un percorso esistenziale. C’è chi fa un film o una serie tv e diventa famosissimo, fermandosi solo a quel titolo, e chi, come è capitato a me, diventa poliedrico, entra in progetti che lo rappresentano e riesce a essere apprezzato da tantissime persone, le stesse che ha apprezzato e amato come cinefilo e come artista.

Ed è un percorso che è fatto di tanti titoli in arrivo, a partire da M – Il figlio di Mussolini, la serie tv diretta da Joe Wright che vedremo su Sky.

Interpreto il Ministro Liberale del primo governo di Mussolini, il cui progetto era quello di creare la prima autostrada italiana scontrandosi anche con il Duce. Joe Wright è un regista straordinario che mischia il classico con l’avanguardia. Ho scoperto solo dopo aver lavorato con lui che il suo lavoro è un’opera lirica: mi ha fatto piacere rientrare in quella pletora di attori che gli piacevano per come aveva in mente ogni ruolo.

Il mio ministro non è presente in tutte le puntate ma non potevo perdermi l’esperienza di lavorare con un autore del suo calibro: credo che il risultato farà discutere e parlare molto non solo in Italia ma anche all’estero sia per l’interpretazione di Luca Marinelli sia per la storia che, nel bene o nel male, è straordinaria. Tra l’altro, sono rimasto piacevolmente sorpreso di come Wright usi la musica sul set per creare la giusta atmosfera: quando sono arrivato per girare e ho sentito la musica di Philip Glass (non so poi quale sceglierà per il suo racconto), ne sono rimasto ad esempio estasiato.

Ti vedremo anche nella seconda stagione di Lidia Poet, la serie italiana da record su Netflix.

Sono contentissimo di farne parte perché avevo visto la prima stagione e mi era piaciuta. Entro in scena nei panni del Duca Marchisio, un po’ l’antagonista del fratello di Lidia Poet. Ma, anche in questo caso, non si può spoilerare nulla sulla trama: è tutto tenuto sotto chiave. Posso però raccontare di come sia stata fantastica l’esperienza sul set, dove ho lavorato principalmente con la regista Letizia Lamartire trovandomi benissimo: è una regista molto attenta che sa cosa vuole raccontare e con che frequenza farlo. Mi ha guidato in questo ruolo e anch’io non vedo l’ora di vedere cosa abbiamo fatto.

Non era ovviamente la prima volta che venivi diretto da una donna: eri in Chiara, il film di Susanna Nicchiarelli presentato due anni fa in concorso a Venezia.

Interpretavo il Papa, la Chiesa mi perseguita forse per via del mio viso antico. Anche con Susanna Nicchiarelli mi sono trovato benissimo nonostante la sfida produttiva: recitavo in latino e in volgare, un’altra lingua. Sia Susanna sia Letizia fanno parte della grande ondata, se così vogliamo definirla, di registe che possono finalmente dare la loro visione contemporanea sul femminile, anche se a me piace definirle semplicemente due grandi registe: più che vedere la differenza tra uomo o donna alla regia, valuto come l’autore o l’autrice vuole raccontare la storia in mano. E loro due sono sicuramente tra le eccellenze degli storyteller italiani del cinema e della televisione contemporanei, come lo è anche Alice Rohrwacher, di cui ho amato La chimera, per me un film meraviglioso.

E, giusto per non farti mancare nulla, oltre che per Sky e per Netflix, hai lavorato anche per la Rai in un progetto che ad aprile vedremo su Rai 1: la serie tv Il clandestino con Edoardo Leo.

Sono il cosiddetto protagonista di puntata di uno degli episodi della serie. Con Rolando Ravello, il regista, ci conosciamo da 25 o 30 anni: da attore, aveva recitato in 500 e ci siamo incontrati quando a Roma frequentavo i primi laboratori di recitazione. Siamo legati da una profonda amicizia, negli anni ci era persi un po’ di vista e, quando mi ha richiamato per questo ruolo, non ho esitato nell’accettarlo perché desideravo tornare a lavorare con lui: si è costruito una carriera magnifica con progetti molto interessanti, basti vedere la serie tv Vivere non è un gioco da ragazzi.

Andrea Bruschi.
Andrea Bruschi.

Con i giovani tu hai lavorato in Dove soffia il vento, film uscito nelle nostre sale il 29 febbraio…

L’opera di un giovane autore molto interessante, in cui interpreto il padre del protagonista Jacopo Olmo Antinori e di Yile Yara Vianello. È un film molto complesso con una sua visione forte, che non strizza l’occhio alle mode e che si rivela severo, rigido e, se vogliamo, anche algido per come gioca con le emozioni e con lo spingerti a chiederti a fine visione “ma io chi sono?”.

Il film affronta il tema della religione (che ancora una volta torna). Che rapporto hai col sacro?

Molto profondo. Avverto la mancanza del sacro nella società odierna, anche se ne intravedo spiragli di ritorno. Mi interessa più l’aspetto sacro che il dogma di per sé: l’esperienza religiosa è insita nell’uomo dall’origine della coscienza umana.

Hai anche preso parte a una serie tv trasmessa la scorsa estate da Canale 5: Signora Volpe, di produzione inglese. Non ti fa sorridere come vengano raccontati gli italiani dalla fiction popolare estera?

La spesso tanto vituperata e spesso invidiata Italia è vista come un paradiso non artificiale ma reale, possibile da visitare con poche ore di volo con la macchina o con un treno. Ciò che più colpisce all’estero sono la bellezza dei paesaggi e lo stile di vita, motivo per cui si tende a mostrarli o a raccontarli. Può sembrare superficiale la mia spiegazione ma, avendola vissuta da vicino, conosco tale realtà, che permette di mostrare non solo i capoluoghi di provincia ma anche le città più piccole: da questo punto di vista, l’Italia non è semplicemente una nazione ma un continente vero e proprio di cui è difficile raccontare tutte le diversità. Ci sono autori come Mann che scavano più in profondità e altri che invece preferiscono la cartolina… ma ci sono anche delle belle cartoline.

A proposito di cartoline di un’epoca che è stata, sei tra gli interpreti della seconda stagione della serie tv L’imperatrice, con al centro la principessa Sissi.

È una serie in cui c’è stata molta attenzione per gli attori italiani scelti. Entro nel racconto nei panni di un ex militare lombardo con tutta la sua famiglia. Sono entrato nel cast pensando che si trattasse semplicemente di una rispolverata della storia di Sissi che siamo abituati a vedere: mi sono poi dovuto ricredere. Ho notato, oltre alla cura per i dettagli, anche una certa attenzione per noi attori stranieri, aiutati in tutto per tutto a integrarci.

C’è ancora qualche ruolo che ti manca da interpretare, quello dei sogni?

Nel mio percorso d’attore, ogni ruolo interpretato ha qualcosa di me. Per quanto più o meno simile a me, ogni personaggio mi permette di ripescare in dinamiche, anche spiacevoli, o in aspetti che mi rappresentano. Quindi, è difficile per me dare una risposta a questa domanda. Potrei dirti qual è il ruolo forse più vicino a me, quello interpretato per il film Un mondo fantastico, l’opera prima di Michele Rovini, la storia di due cinquantenni che si trovano in difficoltà. Uno dei due è un musicista che da Barlino ritorna in Italia per un lavoro da precario a scuola: interpretarlo mi ha permesso di mettere molto delle mie esperienze.

Avevamo cominciato dalla musica e da Berlino e lì siamo ritornati.

Ma la musica è sempre con me. Sono in procinto di registrare un altro disco con il mio gruppo, una sorta di opera in certi sensi. Ho scritto un soggetto con un fumettista molto bravo, Andrea Ferraris, su una storia ambientata a Genova nel 1959 in un night club e da questo mi sono lasciato ispirare per le canzoni. Tanto che vorrei che il disco uscisse con allegato il mini fumetto. Mi manca la musica quando non la faccio…

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Andrea Bruschi.
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