Definire Andrea Ottavi un giovane attore è riduttivo. È vero che lo vedremo in sala dal 14 febbraio in Finalmente l’alba, il film di Saverio Costanzo presentato in concorso allo scorso Festival di Venezia, ma è altrettanto vero che Andrea Ottavi è anche un pittore, scultore e fotografo, che incanala nell’arte tutte le sue emozioni sin da quando era bambino.
Figlio di una pittrice e di un ristoratore, Andrea Ottavi ha cominciato ad esempio a dipingere già da bambino: in casa, tele e colori non mancavano mai e i suoi primi esperimenti si sono indirizzati verso gli elefanti, partendo con il disegnarli dalla coda, forse il loro elemento più vulnerabile. Un po’ come ci appare lo stesso Andrea Ottavi: al di là della sua imponente altezza, nel corso della nostra intervista in esclusiva rivela un animo nobile, sincero e pulito, che lo rende un giovane uomo la cui vulnerabilità (o coda, per amor di metafora) è la continua ricerca di qualcosa più grande di lui.
Che la si definisca esigenza di raccontarsi o altro, la recitazione in Andrea Ottavi è diventata sempre più un bisogno impellente da colmare, una necessità in grado di regolare il turbinio che porta con sé sin da quando adolescente ha scoperto che il teatro poteva dare un nuovo corso alla sua vita rimettendo in ordine pensieri e personalità. Ben conscio delle difficoltà e della precarietà di un lavoro come quello di attore (anche la sua fidanzata Beatrice Aiello è una giovane e talentuosa attrice), Andrea Ottavi continua ancora oggi nonostante i ruoli e i film che arrivano (lo vedremo presto anche in Flaminia, debutto alla regia di Michela Giraud) a lavorare come cameriera nel ristorante del padre poco fuori Roma. Forse anche per mantenere quel contatto tra sogno e realtà che un po’ è anche al centro del film di Saverio Costanzo.
Intervista esclusiva ad Andrea Ottavi
Nel film Finalmente l’alba, interpreti Riccardone, colui che all’inizio della storia un po’ come Caronte traghetta la protagonista Mimosa e sua sorella Iris nel mondo del cinema. Che esperienza è stata per te?
Incredibile ma anche curiosa al tempo stesso. Ricordo che, una volta vinto il provino, sono andato a una prima prova costumi e a un aiuto regia ho chiesto chi ci fosse nel cast. Non che fosse per me rilevante, non avrebbe cambiato il mio giudizio: un film di Saverio Costanzo sarebbe stato ugualmente importante ma eroi incuriosito dalle persone con cui avrei dovuto lavorare. Mi è stata mostrata una lista di nomi che non conoscevo: un po’ come facciamo tutti, sono andato poi a googlarli per rendermi conto che erano fittizi e inventati. Ed è da lì che ho compreso che il cast sarebbe stato incredibile…
Interpreto Riccadone: sulla carta doveva essere Riccardo ma molto probabilmente è diventato Riccardone per via della mia statura, sono alto 1 metro e 94! Potremmo definire Riccardone un sedicente lavoratore del mondo del cinema perché, effettivamente, non si sa bene quale sia il suo ruolo all’interno del sistema. Dice di essere amico di qualcun altro che lavora nel cinema e con tale scusa approccia Mimosa e Iris, promettendo loro un provino per un grosso film americano che si sta girando a Cinecittà. Diviene in tal modo la chiave che apre la porta del cinema a Mimosa ma mi piace definirlo come un affabulatore dal momento che lo vediamo muoversi di espedienti e stratagemmi.
Sulla carta il personaggio fa pensare tantissimo, anche se declinato in maniera diversa al Walter Chiari di Bellissima.
Sono stati in molti a dirmelo, soprattutto chi ha avuto la possibilità tra le comparse di aver lavorato con lui. Tuttavia, non ho preso ispirazione dal personaggio che interpretava, cercando di restituire la mia versione di quegli affabulatori che ruotavano intorno al mondo del cinema romano.
L’affabulatore è colui che racconta storie, fabule. E il cinema per te è sicuramente una favola.
Ho cominciato a fare delle figurazioni speciali da molto giovane. Mi piaceva l’idea di poter recitare ed ero stato anche preso per ACAB, il primo film di Stefano Sollima. Ma mio padre non mi lasciò libero di prendere parte alle riprese perché dovevo sostenere gli esami di maturità… A quel punto, pensai di aver perso il treno della mia vita: mi svegliavo pensando che mi stesse sfuggendo di mano quel sogno a cui tanto tenevo. Non colpevolizzo mio padre, sia chiaro.
Nasco da una famiglia di ristoratori (tuttora continuo a lavorare come cameriere nel ristorante che prima era di mio nonno e adesso è di mio padre) e ho vissuto un’adolescenza non tormentata ma movimentata: ero un disturbatore, un vulcano con qualche chilo di troppo (pesavo tra i 120 e 125 kg) che aveva bisogno di incanalare le sue energie. Sono stato allontanato da due scuole, mi hanno anche cacciato da tennis e da pallanuoto. A nulla servivano le sedute dagli psicologi, occorreva che arrivasse la recitazione a calmarmi, a educarmi.
Finite le superiori, mi ero iscritto a Scienze Politiche. Mi mancavano quattro esami alla laurea quando grazie a un mio amico sono riuscito ad andare in tournée con un piccolo spettacolo, semi-amatoriale. Mi ha stravolto l’esistenza: ho lasciato l’università per cominciare a studiare recitazione in maniera seria. E incredibilmente mi si sono aperte davanti varie occasioni: mio cugino frequentava un corso di recitazione con Mario Pizzuti, ‘perché non vieni con me?’ e sono andato. Mario è ancora oggi una delle persone che sente e che mi segue.
Eppure, già a quattordici anni avevi tenuto la tua prima personale come pittore.
Disegnavo già da piccolo. Il mio soggetto preferito erano gli elefanti: cominciavo sempre dalla coda, non chiedermi perché (non ho una risposta) ma conservo ancora quei disegni… ma era quasi naturale che disegnassi: mia madre dipingeva e casa mia era sempre piena di tele e pennelli a disposizione. Mentre mia madre oggi ha smesso, io continuo ancora a farlo: devo a lei non solo la passione per la pittura ma anche quella per l’arredamento e il design. Ho tuttavia sempre cercato di rimanere con i piedi per terra, un atteggiamento che mantengo ancora oggi. Come dicevo prima tra le righe, continuo a lavorare in sala nel ristorante ai Castelli Romani di papà (il mitico Da Gastone): il mio obiettivo è riuscire a lavorare con costanza come attore ma conosco bene le difficoltà e la precarietà che questo mestiere comporta.
Per due ruoli presi quest’anno, ad esempio, ci sono stati altri 15 o 16 provini per cui ho dovuto incassare dei ‘no’. Tra l’altro, quel lavoro da cameriere è anche fonte di distrazione per me: a differenza mia, vedo molti colleghi che non hanno modo di 'distrarsi' e, quindi, so che significa non avere una ‘via di fuga’ alle difficoltà che questo mestiere comporta. Al ristorante, vedo anche cento persone al giorno, mi mantengo occupato e non ho nemmeno il tempo di pensare alla mia carriera che procede lentissima.
Tra l’altro, con Beatrice condividi anche la passione per la fotografia: sono suoi alcuni degli scatti che vediamo sul tuo profilo Instagram.
Ci siamo conosciuti otto anni fa a un corso di recitazione tenuto da Mamadou Dioume, attore teatrale di Peter Brook. Le nostre strade si sono poi divise per incontrarsi nuovamente otto mesi fa. Aveva visto delle foto che avevo scattato a un suo collega e si era interessata all’autore.
Sei alto 1,94 m, hai struttura fisica che tu stesso definisci importante e hai raggiunto anche un certo peso. Hai mai considerato il tuo corpo limitante?
Di sicuro, non mi toglievo facilmente la maglietta in spiaggia. Quei chili sono qualcosa che mi sono portato dietro nel tempo: ancora oggi se mangio troppo, ho paura di tornare a com’ero prima. Ma devo anche essere onesto: il mio corpo non ho mai avuto chissà che problemi con il mio corpo, non è stato mai causa di una vera e propria sofferenza. Posso dire di essere oggi abbastanza a mio agio anche se la mia altezza spesso mi limita nel lavoro di attore: ho perso diversi provini all’ultima chiamata solo perché troppo alto da accostare al protagonista.
Il cinema, raccontato da Finalmente l’alba, è sogno. Cos’è per te sognare?
È cercare risposte e stimoli attraverso il mio lavoro. Da attore, mi piacerebbe più che altro poter ispirare e far riflettere gli altri: non mi interessa il successo in senso stretto, considero la recitazione una chiamata all’esplorazione dell’essenza umana. Accogliendo ciò che ogni personaggio ti dona, riesci sempre a comprendere l’altro ma soprattutto te stesso.
Pittura sin da piccolo e recitazione da molto giovane. Quando hai scoperto invece la passione per la fotografia?
La pratico ormai da molti anni. È sempre legata all’estetica dell’immagine: ogni volta che scatto un ritratto, non do chissà quali indicazioni… mi accontento di quello che vede il mio occhio. La passione per la fotografia nasce da autodidatta e ciò che mi interessa è proprio la bellezza dell’immagine. Vale per le foto ciò che vale per la pittura: non è importante ciò che vedo ma l’avere un’idea dietro a quello che sto vedendo mentre lo realizzo. Chiaramente, alla base c’è sempre la tecnica ma la tecnica non deve mai essere il fine: deve fondersi con un’idea.
Sarà per questo che non riesco mai a definire bene cosa faccio in pittura. A maggio, ad esempio, terrò al PMR Studio una personale di opere molto grandi, dai tre ai cinque metri, sul sonnambulismo ma è una metafora del mio dipingere di notte: mi piaceva il concetto della transizione notturna sospesa tra il conscio e l’inconscio. Nei quadri, quindi, cerco di esplorare l’incertezza di un mondo notturno in cui la coscienza si libera, lo stesso stato, quasi in trance, in cui mi ritrovo io quando dipingo.
Le opere molto grandi sono belle ma ‘pericolose’…
E infatti ho problemi alle spalle per dipingere. Sono sempre dal fisioterapista ma il problema maggiore è un altro: non sono mai totalmente soddisfatto. Forse, tra le mie tante opere ce n’è solo una che mi rende contento. E, in più, nei giorni in cui dipingo sono quasi intrattabile: dico spesso che la mia compagna è una santa.
Perché quadri così grandi?
Perché sono rimasto due anni fa affascinato dalla visione di Guernica a Madrid: mi ha rapito oltre che ispirato. Sono da sempre un appassionato di Picasso ma Guernica mi ha impressionato più di altre opere perché mi sono immaginato lui, piccolo piccolo, alle prese con quell’opera enorme che sarebbe entrata nella storia dell’Arte mondiale. Nel mio caso, la mia altezza non mi aveva mai favorito il lavorare su qualcosa di piccolo: con le opere più grandi riesco a passare la mia creatività dal mio corpo direttamente alla tela, sentendomi anche meglio nel potermi anche distendere su un quadro che è il doppio di me.
Contatto con il corpo ma anche contatto con la natura.
Essendo molto grandi, certe opere hanno bisogno di spazi che possano contenerle. Molte sono state realizzate a Rocca di Mezzo, in Abruzzo, in un enorme campo di montagna, per ottenere continuità e somiglianza. Il mio più grande conflitto è sempre stato quello di non trovare ancora un segno riconoscibile, tanto che spesso ci si chiede se le varie opere siano state fatte dalla stessa persona. Forse, oggi, l’astratto è quello che più mi rappresenta.
Astratto come astratti sono gli autoritratti che hai scolpito.
Mi piace lavorare con l’argilla: plasmo la materia. È talmente tanta l’esigenza di esprimere le emozioni che ho dentro che spesso non mi basta nemmeno ciò che faccio e vorrei più tempo per far molto di più. Ironicamente, mi ci vorrebbe un’altra pandemia per avere a disposizione tutto il tempo del mondo.
Che ricordi conservi invece dello spot pubblicitario per un noto brand a cui hai preso parte al fianco di Zendaya?
Lo abbiamo girato a due passi dai Castelli Romani, a Villa Aldobrandino, nello stesso pomeriggio in cui dopo il set c’era il funerale di un mio carissimo amico. Le emozioni quindi nel ripensare a quello spot sono contrastanti…. Tuttavia, c’è qualcosa che mi ha colpito e che porterò sempre con me: l’umiltà di attori e registi presenti. Spesso in Italia, più sono famosi più su un set se la tirano: Johan Renck, invece, che diretto episodi di Breaking Bad, fatto Vikings e girato videoclip per Madonna e David Bowie, è stato l’esatto opposto, con un approccio umano e solidale che ti permetteva di lavorare anche con un umore e un impegno diversi.
Oh, mio Dio! di Giorgio Amato e Sulla mia pelle di Alessio Cremonini sono state le tue prime esperienze al cinema.
Avevo già alle spalle molto teatro e diversi cortometraggi. A notarmi in un corso che seguivamo insieme per il film di Amato era stata la sua compagna: era quello che si definirebbe un mockumentary, c’era molta improvvisazione ed era divertente vedere come reagiva la gente comune per strada quando ci vedeva vestiti da apostoli.
Il film di Cremonini, invece, è arrivato dopo la presentazione a Venezia del cortometraggio Ambaradam: interpretavo uno skinhead nazifascista e Chiara Iaccarino, assistente casting, mi scrisse su Facebook (non avevo ancora un agente) per chiedermi se avessi ancora i capelli rasati perché stavano cercando qualcuno per il ruolo di un tossicodipendente per il lungometraggio su Stefano Cucchi. Quel ruolo poi venne cancellato ma lo scoprii solo al provino: mi diedero venti minuti per leggere le battuta per il personaggio di un carabiniere. Venni preso e lavorare con Alessandro Borghi fu un’esperienza incredibile, soprattutto nel vedere da vicino la sua spaventosa trasformazione fisica: è il sogno di ogni attore avere un giorno un personaggio per cui cambiare così tanto anche esteticamente.
A me piacerebbe molto ad esempio interpretare un transessuale ma per via del mio fisico finisco spesso per fare il militare o il carabiniere. Sarò un militare anche in Spam, un cortometraggio thriller psicologico diretto dall’austriaco Thomas Wagner, ma è un progetto che a differenza di molti altri mi ha particolarmente colpito: interpreto un soldato italiano sottoposto alla tortura del bianco, ossia a una reclusione dentro un ambiente privo di colori.
Ma ti vedremo anche in Flaminia, il film che segna il debutto alla regia di Michela Giraud.
Sarò Mirko, un ragazzo che sta in comunità e che avrà a che fare con Ludovica, la sorella della protagonista Flaminia. Passo le mie giornate con lei alla ricerca di una normalità che è distante dal mio mondo. È una commedia ma più di questo per volontà di Michela non posso dire (ride, ndr). Ci conosciamo con lei da diverso tempo: è stata una cliente del mio ristorante per molti anni ed era come stare in famiglia.