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Andrea Pinna, il suo lato b(polare) – Intervista esclusiva

andrea pinna
Il mio lato b(polare) è il libro con cui Andrea Pinna racconta la sua storia a stretto contatto con il disturbo bipolare. Per incoraggiare chi ancora è vittima di pregiudizi e allontanare uno stigma sociale che non ha ragione d’essere.

Andrea Pinna di vite sembra averne vissute tante ma comunque sempre meno dei 22 tentativi di suicidio o dei 25 vibratori clitoridei ricevuti in regalo di cui racconta in Il mio lato b(polare), libro appena arrivato nelle librerie grazie a HarperCollins. Nelle quasi 250 pagine del volume che è un memori che affronta il tema della sofferenza mentale, Andrea Pinna ripercorre la sua storia senza mai perdere la dissacrante vena ironica che lo accompagna sin dai tempi delle celebri “Perle di Pinna”.

Blogger, influencer, volto televisivo, scrittore, uomo: sono tante le vesti che ha indossato e indossa Andrea Pinna ma ce n’è una che non vorrebbe mai che gli si affibbiasse a mo’ di connotazione: bipolare. Sì, perché Andrea Pinna soffre di disturbo bipolare ma non lo è: non può un disturbo della salute mentale diventare tratto distintivo dell’individuo al pari di un segno peculiare nella carta d’identità.

In Il mio lato b(polare), Andrea Pinna cosa significhi ritrovarsi da un giorno all’altro a fare i conti con una malattia che, da latente, si è trasformata in una diagnosi durissima da accettare, anche per tutto lo stigma sociale che si porta appresso. Per rompere stereotipi e cliché, Andrea Pinna ha allora deciso di ripercorrere la sua storia (e non quella di tutti) per condividere momenti e ricordi che solitamente non si ha il coraggio di portare all’attenzione pubblica.

E le sue memorie sono lancinanti per chi legge: allucinazioni, droghe, alcol, notti insonni, tradimenti, atti di bullismo ed estrema violenza, il rapporto (ora essenziale ed esistenziale) con la madre. Le fasi di up e down si rincorrono una dietro l’altra, sono tanti gli attimi in cui Andrea Pinna rischia di perdere non solo gli affetti, il lavoro e tutto ciò che ha, ma anche la vita stessa. Le parole nel suo viaggio a ritroso si fanno immagini e non lasciano posto ai “si dice” o “alla fantasia” ma solo per lanciare un messaggio di incoraggiamento verso tutti coloro che hanno incontrato la malattia psichiatrica sulla sua strada.

Andrea Pinna.
Andrea Pinna.

Intervista esclusiva ad Andrea Pinna

“Per lavoro faccio varie cose ma le presentazioni sono forse una di quelle che mi piacciono di più: le patisco molto poco”, mi risponde Andrea Pinna quando, come faccio d’abitudine con ogni intervistato, gli chiedo come sta. So che per lui il momento è molto avulso: è appena uscito il suo nuovo libro, Il mio lato b(polare), e Andrea Pinna non si è risparmiato con le presentazioni aperte al pubblico o le ospitate tv. “Posso sentirmi sballottato ma sono molto felice perché comunque ho la possibilità di affrontare un argomento molto complesso”.

E l’argomento complesso che affronti è il bipolarismo di cui soffri. Nel libro, ti metti totalmente a nudo e, spesso, per farlo occorre avere anche coraggio.

Avrei avuto timore a raccontare la mia esperienza se avessi fatto del male agli altri: sì, li ho fatti soffrire o preoccupare ma ho sempre fatto male soltanto a me stesso. Ed è stata per me una grande fortuna: non era scontato che andasse così. Gli “scleri”, passatemi il termine, e i tanti danni provocati sono sempre stati rivolti a me e ho anche pagato pegno: non ho debiti con nessuno. Quando non mi sentivo a posto, ho avuto l’accortezza di non guidare mai”.

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Come racconti nel tuo libro quando passi in rassegna i tuoi 22 tentativi di suicidio.

Non ho mai pensato di andare contromano o di lanciarmi da un burrone: vicino a casa mia al mare c’è una curva che è famosa perché se vai dritto finisci direttamente in acqua ma non ho mai contemplato tale ipotesi, nemmeno nei non pochi momenti peggiori. Quando pensavo di farla finita, avrei sempre voluto farlo di notte per evitare persino che qualche bambino mi vedesse: alcuni valori ti rimangono dentro anche quando stai malissimo.

Perché hai deciso di chiamare il libro Il mio lato b(polare)?

C’è ovviamente dell’ironia: si evince facilmente. Ma ho voluto puntare l’attenzione su un altro aspetto: io non sono bipolare ma ho un disturbo bipolare. Una persona non può essere aggettivata con la sua malattia: non lo si fa quasi in nessun caso ma solo con i disturbi psichiatrici facendo sì che la persona diventi un tutto con la sua malattia. Il mio lato bipolare è una parte di me ma non il tutto.

È firmato A. Andrea Pinna: quella A. sta per Antonio, nome di mio nonno ma anche mio secondo nome. Dopo Le perle di Pinna, mi ero ripreso il mio nome Andrea e con i miei libri ho sempre voluto rendere omaggio anche all’altro mio nome, Antonio, nonostante nessuno mi abbia mai chiamato così.

Il mio lato b(polare) si apre con la dedica allo psichiatra Leonardo Tondo.

L’ho dedicato a lui ma alla fine ringrazio anche tutti gli altri medici che mi hanno avuto in cura. L’ho dedicato a lui perché racconto ovviamente la mia esperienza, altrimenti l’avrei dedicato agli psichiatri che come lui aiutano le persone a vivere. Ma ringrazio anche Dio e la mia famiglia che mi è stata, mi sta e mi starà accanto, così come ringrazio i tanti amici che per fortuna sono accorsi nel cuore della notte in determinate situazioni per incoraggiarmi o per non lasciarmi solo.

Purtroppo, però, nessuno tra amici, familiari, fidanzati o altro, può raggiungere lo stesso livello che raggiunge la medicina: non c’è abbraccia che valga quanto un farmaco e non smetterò mai di dirlo. La retorica del “non pensarci: ci sono tante persone che ti vogliono bene” è un po’ una truffa benevola se non interviene la medicina a curarti. Il problema è semmai che sembrano esserci medicine socialmente ben accette e altre che non lo sono: se un diabetico assume l’insulina nessuno ha da ridire nulla ma se qualcuno chiede uno psicofarmaco, non certo per hobby, la gente è pronta a guardarlo male, come se fosse un eroinomane.

 Sembrano dimenticare o ignorare il valore che hanno nelle cure, anche perché anche solo azzeccare la terapia giusta da seguire non è così semplice come sembra: non stiamo parlando di un antidolorifico per cui uno vale l’altro, gli effetti collaterali sono tanti. Con tutto l’amore dei miei genitori e in un momento lavorativo in cui ero all’apice, senza le medicine pensavo solo a uccidermi. Quando ho cominciato invece a prenderle, il pensiero è svanito nonostante abbia poi vissuto anche alcune tragedie una dopo l’altra.

Lo stigma sociale è purtroppo ancora forte. Lo avverti anche in questi giorni in cui stai presentando il libro in giro per l’Italia?

Fortunatamente, non ho ancora percepito nulla di doloroso. Ma lo stigma sociale è qualcosa che ho sofferto molto in passato. C’è un detto vecchissimo che dice che la depressione è la malattia dei ricchi annoiati: è una stupidaggine grande come il mondo. La depressione non è collegata a una particolare condizione sociale, umorale o fisica: come l’influenza, può colpire tutti e in qualsiasi momento.

Andrea Pinna.
Andrea Pinna.

Nel tuo libro, fai ben capire cosa siano le fasi up e le fasi down che hai vissuto. Per la prima volta, qualcuno le racconta con coraggio dall’interno e non dall’esterno. Guardando a quei momenti, cosa hai imparato? Riconosci i segnali che ne presagiscono l’arrivo?

Paradossalmente, tra le due, le down sono le meno pericolose: rimani a letto senza far nulla. Nelle fasi up, invece, sei convinto di essere un supereroe e, quindi, fai cose che ti fanno male, come ad esempio dormire due ore a notte, non smettere mai di lavorare (persino ad agosto), mandare mille mail, rispondere a tutti i messaggi che ti arrivano sui social e fare programmi a lungo termine di cui poi ti pentirei. È stato in una fase up che ho preso per esempio in affitto una casa da tremila euro al mese: un po’ too much anche per me ma l’ho fatto perché ero convinto che sarebbe andato tutto alla grande.

Del down ti accorgi subito, dell’up no: solo con il tempo impari a riconoscerne i campanelli. Uno psicoterapeuta mi faceva fare un esercizio molto intelligente: nelle fasi di medium, mi invitata a scrivere una lettere a me in down e una a me in up in modo che, quando in up sto per comprarmi mille euro di abbigliamento, la leggo e modero il mio acquisto.

Nei momenti di up, quando ti senti un superuomo, non fai altro che indebolire il tuo stesso corpo, anche se non te ne accorgi. Se il tuo cervello va a mille, il tuo corpo a un certo punto cede. E tra i tanti episodi di cedimento ne ricordo persino uno in contesto particolare: ero in visita al campo di concentramento di Terezin e, avendo dormito per una sola ora, sono letteralmente crollato su una panchina, svenuto dal sonno.

In Il mio lato b(polare) sono tanti i nomi che compaiono (ma anche che non compaiono): fidanzati, amici, conoscenti, ospiti anche solo immaginati e via di seguito. Ma compare anche quell’insegnante che alle scuole medie ti appellava come “signorina Pinna”.

Era la mia professoressa di matematica delle scuole medie. Ma l’ambiente delle medie frequentate non era tra i più raccomandabili: sono tanti gli episodi di violenza e bullismo che ho subito perché in me la maggior parte dei miei compagni riconoscevano un soggetto debole. Dico sempre di aver frequentato una buona scuola elementare, una pessima scuola media e una meravigliosa scuola superiore…

Alle medie avevo in classe compagni di 17 anni, dei piccoli criminali che rubavano motorini, spaccavano le macchine dei professori davanti a loro stessi o rinchiudevano le professoresse dentro un armadio costringendo il resto della classe a suonare il flauto per non far sentire le loro urla. Ho convissuto in quegli anni con un certo tipo di violenza ma in qualche modo mi sono salvato.

Non lo racconti ovviamente per giustificare quello che è stato dopo. Ma lo fai per far ripercorrere a noi le varie tappe della tua lenta discesa agli inferi. In quest’ade, ritrovi anche in maniera dolorosa il rapporto che avevi con tua madre.

E non lo faccio per puntare il dito contro mia madre. Mia mamma è una persona assolutamente meravigliosa che per noi figli e, soprattutto, per me ha fatto di tutto. Non mi ha semplicemente più riconosciuto nel momento in cui da bravo bambino molto intelligente e studioso sono andato incontro a una mia rivoluzione all’università. È sempre stata una donna molto intelligente, anche se non è un luminare, ma aveva bisogno di capire chi fosse suo figlio, andava educata e spettava a me farlo e lavorarci sopra.

Andrea Pinna.
Andrea Pinna.

Scegli di aprire il racconto del tuo percorso di sofferenza con un episodio molto violento, che ti ha portato a contatto con dei ladri in casa e con la polizia. Leggendo le tue parole, non so chi di loro ti abbia fatto meno male. Perché hai scelto di partire da quel momento?

Leggo molti libri ma non sono uno scrittore di professione. Guardo molti più film e molte più ancora serie tv. Di queste, amo quelle che procedono per flashback o fast forward, per salti temporali. Indeciso da cosa partire per il mio racconto, ho puntato su un evento apicale per spiegare poi cosa è successo prima o dopo. Sicuramente, la rapina in casa è stato un momento che mi ha segnato ma non tanto per la rapina in sé ma quanto per come si è conclusa: i ladri non hanno portato via nulla, sono stati ripresi dalle telecamere e presi, ragione per cui temevo che prima o poi avrebbero cercato la loro rivalsa facendomi del male… eravamo in piena epoca CoVid e in pochi sarebbero di sicuro accorsi ad aiutarmi.

Nel tuo libro, torna spesso una parola che fa male: tradimento. Ne hai vissuti diversi, sentimentali e amicali.

Dopo le varie brutte esperienze, oggi ci metto un po’ più di tempo a fidarmi degli altri. Anche in amore: dopo essere stato tradito dal mio primo amore con il mio coinquilino e dal secondo per ben 12 volte, è normale che sia geloso e che a pagarne il prezzo possa essere stato anche il mio ultimo ragazzo… era super fedele ma per un anno l’ho torturato perché non gli credevo: mi sembrava strano che lo fosse, lavorando tra l’altro a contatto con il pubblico.

Riesci oggi a distinguere chi ti è veramente amico o no?

Ho, per fortuna, uno zoccolo duro di amici. Ci sono quelli che mi sono fatto a Cagliari alle scuole elementari, medie o superiori, e ne ho molti anche a Milano, qualcuno anche famoso: loro sono più o meno una certezza. Ma molti sono anche quelli che si sono allontanati nei momenti in cui io “svalvolavo”, senza consolarmi o aiutarmi. In tanti avevano paura che frequentandomi potessero perdere i loro clienti e che fossero come me: poco affidabili nel lavoro. La mia presenza o vicinanza poteva rovinare la loro immagine. Oggi, curandomi, sono molto più affidabile di prima, fermo restando che anch’io posso ammalarmi o arrabbiarmi come tutti quanti. E chi si è allontanato forse mi ha anche fatto un grande favore: non perdo più tempo.

Tra le varie allucinazioni da te vissute, dolorose non solo sul piano psicologico, ne racconti una che un pizzico di invidia me l’ha generata: la cena con amici speciali come Cate Blanchett, Brad Pitt, Scarlett Johannson e Gina Lollobrigida.

Mi sono invidiato da solo. Il problema è stato quando il giorno dopo, vedendo i bicchieri vuoti, ho realizzato che non aveva bevuto nessuno e che nessuno era stato in casa mia.  

Il tradimento di un amico ha generato una shitstorm nei tuoi confronti a causa di un meme condiviso di stampo razzista, un’accusa infondata che ti è piovuta addosso.

Mi si può accusare di qualsiasi cosa ma non di razzismo e chi mi conosce lo sa bene: non ho perso neanche un follower per quella storia. Ho trovato incredibile che mi si accusasse di razzismo quando il mio impegno è sempre stato sotto gli occhi di tutti, riconosciuto anche da una targa della Regione Lombardia. Non c’è cosa peggiore di dover provare la verità: se fosse successo in un altro periodo, mi sarei incazzato e sarai andato a casa della persona in questione per discuterne… ma in quel momento non ce la facevo.

Ciò che mi ha fatto più male è stato l’aver cercato di coniugare il mio malessere a un’accusa imperdonabile proprio quando non potevo difendermi: è stato un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Avevo sì condiviso quel meme nelle mie stories ma non avevo nemmeno prestato attenzione al contenuto.

Lo dicevamo in apertura: 22 tentativi di suicidio.

Sì, di cui almeno 15 goffi. Una volta ho provato a uccidermi sbattendomi la testa: il risultato sono stati due ematomi… dovevo dopo registrare un podcast e non ero proprio così “carino”. Ho provato più volte anche l’overdose da farmaci e alcune volte quella da droghe di cui non conoscevo neanche il nome: la mia idea era quella di morire mentre ero svenuto, non volevo soffrire. Il bello era anche che, quando sentivo che stava per accadermi realmente qualcosa, chiamavo mia sorella chiedendo aiuto: la psicoterapia mi ha aiutato a capire che non ero così coraggioso da volermi uccidere perché in realtà apprezzavo la vita tanto quanto tutto ciò che stavo per perdere.

Ti vuoi bene oggi?

Sono pieno di difetti, ho anche dei pregi ma fondamentalmente mi voglio bene. Non ho mai fatto parte della schiera di coloro che dicono che la vita è bella (non so mai se lo dirò) ma è diverso dal dire che voglio morire. Anche se non ho paura della morte: quando arriverà, l’importante è che non arrivi con sofferenza. Mi voglio amare, anche se certe volte non mi sopporto… sono pieno di contraddizioni e la pigrizia è il difetto peggiore che mi caratterizza.

Non sono un credente ma ho una santa preferita, Santa Teresa di Lisier: di origine francese, era stata mandata in convento dove ogni suora faceva qualcosa. Da ricca, non sapeva fare assolutamente nulla, motivo per cui tutti la trattavano male perché incapace. “Dio mi ama così come sono: sono mediocre e non so fare niente” fu la storica frase con cui ribaltò l’idea del cattolicesimo sulla perfezione: amiamoci così come siamo ed evitiamo di strafare per inseguire un mito che non esiste.

Andrea Pinna.
Andrea Pinna.
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