Anna Ammirati, attrice campana con una carriera poliedrica che spazia dal teatro al cinema, ci offre uno sguardo intimo e sincero sulla sua esperienza professionale e personale, rivelando le sfide e le conquiste che hanno segnato il suo percorso. L’abbiamo incontrata nel contesto di On Air. Season 01, evento che, organizzato e diretto da Simona Gobbi, si è tenuto a Palermo dal 13 al 15 giugno scorso, dove Anna Ammirati ha preso parte a un talk tematico per discutere su come cinema e serie tv possano essere portavoce del cambiamento sociale.
Durante questa intervista, Anna Ammirati condivide il suo punto di vista sul concetto di successo, la gestione della notorietà e il delicato equilibrio tra vita privata e carriera. Inoltre, ci racconta del suo rapporto con i social media e di come affronta il giudizio degli altri, distinguendo tra critica costruttiva e maldicenza. E la maldicenza è qualcosa che Anna Ammirati ha conosciuto direttamente subito dopo il suo folgorante esordio cinematografico, che le ha scaraventato addosso anche l’obiettivo iper invasivo dei paparazzi.
Riflettendo sulle sue prime esperienze sul palcoscenico e il sostegno ricevuto dalla madre, Anna Ammirati esplora anche il ruolo della “scelta” nella sua vita, non solo professionale ma anche personale, una parola che insieme a “studio” diventa inevitabilmente sinonimo di libertà ed emancipazione. Emerge così pian piano un ritratto di una donna forte e consapevole, capace di trasformare le difficoltà in opportunità di crescita e di affermare la propria identità con determinazione e grazia.
Intervista esclusiva ad Anna Ammirati
Siamo soliti utilizzare l’espressione “attore o attrice di successo”. Ma come vive o percepisce il successo a livello personale e professionale un attore? Cosa ti fa dire “sì, sono un’attrice di successo”?
Noi attori abbiamo sempre un rapporto di odio e amore con il successo, un concetto complesso. Pur condividendolo sempre con i colleghi, per me, il successo è essere riconosciuti per il proprio lavoro. Non è la fama o le foto: quando qualcuno ti riconosce, apprezza il tuo lavoro o ti ferma per strada per dirti che si è identificato nel tuo personaggio, significa che hai fatto bene. È quello il rapporto sano con il successo e non quello che una volta si identificava con quanti paparazzi avevi al seguito.
Hai menzionato i paparazzi: la tua esperienza con loro, soprattutto quando hai esordito non è stata particolarmente felice.
Quando ho esordito, giovanissima, a 19 anni nel 1997, l'attenzione dei paparazzi è stata molto violenta per me: sinceramente, non mi è piaciuto per nulla e non ho un bel ricordo di quel tipo di successo e ciò che comportava. Oggi forse ne sarei felice o lo avrei gestito a modo mio per la donna che sono ma allora non ero pronta ai paparazzi che mi seguivano ovunque con i loro obiettivi. Mi sono sentita quasi violentata e privata della mia libertà: una volta, mio fratello venne a trovarmi da Napoli e uscì una foto che insinuava fosse il mio fidanzato.
Non sapevo se piangere o ridere: era assurdo e invasivo. Anche episodi normali venivano distorti, come quando mi fotografarono mentre fumavo una canna fuori da un locale, qualcosa di normalissimo per qualsiasi ventenne, e uscì fuori uno stupido articolo che per me fu molto violento: mi sentivo come se, rientrando a casa, avessi trovato tutto a soqquadro per via di un ladro… l’effetto era lo stesso.
Oggi non ci sono più i paparazzi ma ci sono i social media, dove tutti sono pronti a giudicare e a distorcere la realtà. Come convivi con gli hater?
Fortunatamente, non ho mai avuto a che fare con gli hater. Spero di non avere mai questo problema, ma se dovesse succedere, consapevole di quanto possano essere molto violenti, agirei subito a livello legale. Oggi siamo molto più tutelati rispetto al passato, ci sono avvocati specializzati nel web che possono intervenire rapidamente: è più semplice risalire al responsabile, portarlo in tribunale e farsi risarcire per i danni provocati alla propria immagine.
Per quanto riguarda i social, però, hater a parte, siamo noi i responsabili di ciò che vogliamo comunicare o meno. Siamo noi che decidiamo cosa postare, che indichiamo dove siamo o che dichiamo cosa stiamo facendo: abbiamo un grande potere in mano e da grandi poteri derivano sempre grandi responsabilità: non possiamo sempre addossare la colpa agli altri per il giudizio che ne deriva.
Come gestisci il giudizio degli altri?
Credo che il giudizio sia insito nell'essere umano: chiunque abbia un pensiero critico, giudica perché una delle funzioni più naturali della nostra mente è il comparare. Giudicare non è quindi necessariamente negativo, dipende dal contesto. Tuttavia, la maldicenza, ovvero parlare male degli altri senza motivo, è un'altra cosa. Il giudizio può essere costruttivo, mentre la maldicenza è solo dannosa e può far star male perché sfocia anche in una notizia non vera o in qualcosa di inventato.
È fondamentale distinguere tra giudizio e maldicenza. Nel senso lato del termine, il giudizio è una cosa buona: è giusto che si giudichi se ho fatto più o meno bene il mio lavoro così com’è corretto che io possa giudicare quello degli altri e avere la libertà di esprimere il mio pensiero. Viviamo in un’epoca per cui spesso si ha paura di dire ciò che si pensa ed è paradossale: vogliamo essere tutti liberi ma poi ci lasciamo ingabbiare dal politicamente corretto o dal timore, nel mio campo, di non lavorare solo perché abbiamo sottolineato come, secondo noi, un film o uno spettacolo teatrale siano venuti male. E, quando manca il confronto, si rischia di arrivare alla dittatura.
Hai mai subito maldicenze che ti hanno ferita?
Soprattutto dopo il mio esordio con Monella, un’esperienza che io avevo vissuto benissimo e di cui non ho nulla di negativo da sottolineare. Su quel set, mi sono divertita molto e, soprattutto, sono stata protetta da Tinto Brass, un grande regista, un genio che come spesso succede in Italia assurgerà a mito il giorno, speriamo il più lontano possibile, non sarà più con noi.
Forse è stato a livello personale che la maldicenza mi ha ferito maggiormente, quando qualcuno che non ho mai conosciuto ha inventato relazioni che non ci sono mai state, persone sfigate che pur di tirarsela dichiaravano di essere stati con me anche per un anno. Ma chi li ha mai visti se non in occasioni sociali in cui ci si stringeva la mano o si chiacchierava civilmente? Questo tipo di maldicenza mi ferisce molto perché tocca la mia sfera personale, intima e anche sessuale perché dire di essere stati insieme un anno sottintende anche che si sia condiviso lo stesso letto.
Hai citato prima la parola “dittatura”. Oggi, in base al punto di vista politico, viviamo nella “dittatura del fluido” o, viceversa, nella “dittatura che non riconosce la fluidità”. Sull’argomento, hai condotto un podcast per Il Fatto Quotidiano. Cosa ti ha lasciato quell’esperienza?
Mi ha insegnato il potere della condivisione e dell'evoluzione continua a cui possiamo andare incontro: è la nostra salvezza, la trasformazione è fondamentale per non restare ingabbiati in vecchie convinzioni che non si servono più. Questo non vuol dire che vada abolita la tradizione: abbiamo degli esseri umani che hanno contribuito a delle cose meravigliose e basti pensare come ad esempio l’Italia sia più sana rispetto ad altri Paesi e quanta ricchezza culturale conservi. Però, l’evoluzione è necessaria, soprattutto per gli artisti per conservare un proprio pubblico.
Il concetto di fluido non significa che dobbiamo diventare qualsiasi cosa ma che dobbiamo semmai trasformarci. Non riguarda solo la sfera sessuale, ma anche l'identità di genere e l'evoluzione personale. Essere fluidi significa essere aperti al cambiamento e al pensiero diverso. Si è fluidi anche quando ci si evolve seguendo il flusso della vita.
Da Fluid, ho imparato molto parlando con giovani che si identificano come fluidi, un concetto che non c’entra niente con l’orientamento sessuale. Parliamo semmai di identità di genere, per cui ad esempio ci sono donne che non si riconoscono nel loro genere ma a cui piacciono gli uomini: a essere messo in discussione è solo il corpo, un involucro che non sempre ci rappresenta. Da neofita o boomer come mi chiama mia figlia, ho cercato di capire cosa significassero termini come pansessualità, genderqueer o cisgender. Ed è stato illuminante, oltre che una continua scoperta.
Per l’ultimo episodio, poi, ho conversato con uno dei famosi femminielli napoletani, una donna di quasi settant’anni che mi ha raccontato cosa fosse essere transessuale negli anni Ottanta a Napoli. ed è venuta fuori tutta un’altra storia e un’altra realtà. Credeva che con l’intervento di transizione avrebbe risolto i suoi problemi ma così non è stato, hanno continuato a picchiarla a sangue per la strada diverse volte solo perché transgender, costretta a confrontarsi con transfobia, omofobia, bullismo e discriminazione… una realtà che oggi fortunatamente tende a essere diversa.
A proposito di corpi in cui riconoscersi, come vivi il rapporto con il tuo corpo e la tua identità di genere?
Sono sempre stata in pace con il mio corpo: sono femmina e vorrei rinascere femmina sotto qualsiasi forma, non solo umana. Sono fiera di essere tale e di avere il mio corpo. Non lo dico da un punto di vista femminista ma credo che la possibilità di generare vita sia una potenza enorme. La gravidanza è stata per me un'esperienza psichedelica e potentissima: avere un essere umano dentro di me è qualcosa di incredibile, un viaggio vero e proprio fatto nel mio caso, per via degli ormoni, anche da un totale delirio di onnipotenza.
Il tuo percorso professionale è lungo e variegato. Tuttavia, c’è un dato anagrafico che colpisce: hai avuto la tua prima esperienza teatrale a otto anni. Cosa ti portava a stare su un palcoscenico?
A otto anni sul palco mi ci ha portato mia madre. Mia madre aveva in qualche modo intravisto in me bambina il talento dell’attrice, il mestiere che rispondevo di voler fare da grande quando qualcuno mi poneva la domanda. È sempre stato il mio sogno: non c’è stata mai una volta in cui abbia risposto il medico, l’avvocato o il veterinario… E mia madre, percependo le mie potenzialità, non ha fatto nulla per ostacolare il mio percorso, ma lo ha forse nutrito: tutte le volte che c’era la possibilità di salire su un palco, che fosse per una compagnia teatrale amatoriale o per le recite scolastiche, mi sosteneva.
Ed è così che a otto anni mi sono ritrovata a recitare in una commedia di Scarpetta. Mia madre aveva degli amici che lavoravano per quella compagna teatrale e parlando con loro mi ha permesso di vivere quella bellissima prima esperienza che mi ha fatto capire quanto bello fosse stare su un palco circondata di gente.
E se tua figlia volesse seguire le tue orme?
La sosterrei come nessuno ha mai fatto con me. Sì, mia madre nutriva le mie aspirazioni ma, facendo tutt’altro lavoro nella vita, non aveva gli strumenti utili per approcciarsi a questo mondo. È anche la ragione per cui sono andata via di casa a diciotto anni, dopo il diploma, e me la sono vista da sola a Roma. A differenza sua, conoscendo tutte le sfumature del campo in cui anch’io mi sono mossa e mi muovo, innanzitutto la farei studiare perché per fare questo lavoro bisogna studiare, essere preparati e mantenersi sempre pronti.
Non si può improvvisare una professione: un bel viso, un bel corpo e una certa carineria possono sì essere utili, aiutano rendendo facile l’accesso ma non sono tutto. Il nostro lavoro richiede una preparazione costante e la capacità di affrontare l'incertezza e la continua attesa. Noi attori siamo continuamente in attesa di qualcuno che ti sceglie, dal regista al produttore e alla rete televisiva, ed è proprio durante l’attesa che devi studiare. Altrimenti non si arriva lontano: quando ti si prospetterà la prossima occasione, non sarai preparato ma fuori forma e con la memoria non allenata.
E, quindi, sì: insisterei nel farla studiare continuamente. Quasi nessuno ti spiega che devi farlo. Ecco perché, anche dopo l’Accademia, in molti si ritrovano a passare le giornate senza far nulla oppure a tirar tardi la notte per poi svegliarsi a mezzogiorno perché si è artisti. Ma non è quello il percorso di un artista…
Lo studio continua a essere fondamentale anche per te. Alla luce dei tanti ruoli interpretati, quale lavoro ti ha richiesto uno studio più approfondito?
Napoli-New York, l'ultimo film che ho girato con Gabriele Salvatores e in cui interpreto una donna del 1948. È stato un ruolo molto impegnativo perché mi ha portato a interpretare una figura femminile ben collocata in un periodo storico preciso, una di quelle che oggi quasi combattiamo e nei cui panni mi sono invece trovata comoda. Interpreto una donna che non lavorava, che aspettava a casa il marito e il cui più grande obiettivo era avere dei figli.
Con gli occhi dell’emancipazione femminile per cui anch’io sono sempre in prima linea, la sua posizione pare totalmente aberrante. Tuttavia, mi sono trovata a mio agio nei panni di Anna Garofalo, così si chiama, perché, comunque, la sua era una scelta di vita consapevole. Credo che molte donne in passato siano state felici scegliendo liberamente quel tipo di vita che comportava anche meno responsabilità: quasi quasi, se rinascessi fare una passeggiata in tale direzione non sarebbe male… manderei l’uomo ad affrontare i leoni e gli squali fuori casa e io rimarrei a giocare con i bambini: c’era anche dell’intelligenza in tale scelta.
È tornata fuori per due volte la parola “scelta”: è sinonimo di libertà?
Quando si riesce a fare una scelta in autonomia, sì. Scegliere è un grande potere che abbiamo come essere umani, sia nel bene sia nel male. Possiamo sempre scegliere di andare via da qualcosa che non ci fa più bene o da una relazione tossica, ad esempio. Chiaramente le scelte dettate da qualcosa di positivo sono le più facili da prendere e capisco quanto duro sia scegliere di andare via da una situazione tremenda. Ma è quando si riesce a farlo che si è finalmente liberi… La libertà è scegliere di stare meglio, di non accettare quel ruolo e di dire “no” a quell’uomo che ti fa stare male, soprattutto per una donna.
Ti è mai capitato di dover dire “no”? Qual è stata la molla che ha fatto scattare la tua scelta?
Il percepirmi come “vittima”, non ce la facevo più a vedermi tale: ero io che stavo provocando e nutrendo quel ruolo. Non ho subito abusi fisici o cose del genere ma vivevo in una situazione che mi faceva star male. È stato il tirarmene fuori che mi ha poi permesso di trasformare il vissuto in una potenza incredibile, di diventare “cazzuta” e di apparire diversa anche agli occhi degli altri, come se risplendessi di un’altra luce.
Parlando di donne forti, la mente va ad Agnese Borsellino, che hai interpretato per una docufiction di Francesco Micciché. Quanto è stato difficile entrare nella sua psiche?
È stato il lavoro più difficile che abbia mai fatto. Primo, perché avevo grande rispetto per la storia di Agnese e Paolo Borsellino e temevo di sbagliare, di fare qualcosa di troppo. E, secondo, perché dovevo entrare nell’identità di una persona realmente esistita. Interpretare Agnese Borsellino mi ha permesso di capire quanto siano attive e in prima linea le donne che supportano uomini straordinari come Paolo. Non sono passive o rispondenti a regole di un patriarcato inferiore, anzi, sono fondamentali. Leggendo libri, racconti e diari, ho capito che Agnese era una donna incredibilmente forte e coraggiosa: essere stata la moglie di un uomo come Paolo Borsellino le avrà richiesto una forza straordinaria.