Anna Gargano ci accoglie con quel raro mix di energia e pacatezza che rivela il profondo coinvolgimento con cui affronta ogni progetto. Sin dalle prime battute, emerge una volontà di condividere non solo il mestiere d’attrice, ma la sua dimensione intima e personale, quella più fragile e vera, una qualità preziosa che riflette il percorso di una donna che ha scelto la recitazione per svelarsi e riscoprirsi. Anna Gargano ci parla del suo lavoro come di una continua indagine dentro sé, un viaggio che, se per lei diviene terapia, per il pubblico è una finestra aperta sulle emozioni più pure.
Nel film Eterno visionario, in sala dal 7 novembre per 01 Distribution, la giovane attrice incarna Cele Abba, sorella di Marta, musa irraggiungibile di Luigi Pirandello, un ruolo che la costringe a esplorare temi di invisibilità, di ombra e di un’identità vissuta per sottrazione. Anna Gargano descrive Cele come una donna complessa, moderna, in bilico tra l’ammirazione per la sorella e il peso della sua ombra, tra il desiderio di libertà e l’eterno confronto. Un personaggio, quello di Cele, che si muove tra ribellione e fedeltà a se stessa, che in uno sfondo di silenzio e sottile tormento rivendica una libertà istintiva, non convenzionale, un riflesso, come ci racconta Anna Gargano, della stessa libertà che oggi persegue anche lei.
E, mentre ci confida come si sia avvicinata a questo personaggio con un atto d’immaginazione, data la scarsa documentazione su Cele, Anna Gargano ci fa immergere nella sua visione della recitazione come strumento di autenticità e di crescita. Non è solo interpretare, ci spiega, ma scavare nelle proprie zone d’ombra e portare alla luce pezzi di sé dimenticati o non accettati. Cele Abba diventa quindi l’opportunità per Anna Gargano di esplorare i limiti della propria vulnerabilità e autodeterminazione.
In questa conversazione, Anna Gargano rivela non solo il personaggio di Cele, ma anche quella parte di sé che si rivede nelle sue scelte e nei suoi istinti. Le sue risposte si rivelano un atto di introspezione sincera, il ritratto di un’artista che non si risparmia mai, mettendo a nudo la verità del proprio essere, e che trova nella recitazione un potente strumento per esplorare il reale, anche quando esso appare scomodo o fuori dalle righe.
Intervista esclusiva ad Anna Gargano
“È stupendo sapere che anche un progetto come Bocche inutili sia stato da voi particolarmente apprezzato”, risponde Anna Gargano quando le si fa notare come quel film, altamente drammatico, abbia rappresentato la prima volta in cui abbiamo apprezzato il suo lavoro di attrice. “Spesso, la gente valuta quei progetti ‘piccoli’ semplicemente perché dietro non c’è una grossa produzione o distribuzione, considerandoli a priori scadenti quando invece così non è: si raccontava il femminile e avevamo girato all’interno di un vero campo di concentramento”.
“Per un mese e mezzo, abbiamo respirato tutti quanti un’aria che ci faceva star veramente male”, continua Anna Gargano. “Anche solo per l’impegno che tutti abbiamo profuso, dalla regia al cast, e per il tema poco convenzionale trattato, sarebbe valso la visione”.
Oggi ti ritroviamo invece tra gli interpreti di Eterno visionario, il film che Michele Placido ha dedicato alla figura di Luigi Pirandello.
Ho un immenso rispetto per questo lavoro, fosse solo per essere stata diretta da un maestro che, al solo nome, mette una certa ansia. E forse è stata questa a spingermi a dare il massimo, vivendola come un atto di gratitudine nei confronti di un cineasta molto generoso nei confronti di noi giovani attori: recitare con Placido è una piccola fortuna che ti porta a crescere sia come artista sia come essere umano.
Interpreti Cele Abba, la sorella della mitica Marta Abba.
Marta e Cele sono state due attrici che Pirandello negli anni Trenta ha fatto entrare nella sua compagnia. Marta, in particolare, era la sua musa, colei che ha reso protagonista di diverse sue opere, un dettaglio di non poco conto nel rapporto tra le due sorelle. Come accade talvolta anche nella vita di tutti i giorni tra due sorelle che decidono di fare lo stesso mestiere, una è più fortunata e l’altra no. Cele vive dunque sulla sua pelle, dentro e fuori casa, come Pirandello condizioni in un certo senso tutta la sua famiglia e i rapporti in essere: credo che per lei sia stato un bel fardello vivere nell’ombra di chi, accanto a sé, aveva tutti i riflettori puntati addosso.
Uno degli aspetti che volevo cogliere era il dolore che sicuramente ha sopportato. Tra l’altro, pur facendo ricerche sul suo conto, sono poche le notizie che si trovano: tutto era talmente incentrato su Marta che di Cele non è rimasto quasi nulla. Ho dunque deciso di immaginarmela come una donna molto libera, non sottomessa e non vittima: uno dei privilegi che il non esser vista comporta consiste proprio nel poter fare ed essere ciò che si vuole senza paura di deludere le aspettative altrui.
Nell’esistere sostanzialmente per se stessa e non per gli altri, Cele si dimostra essere una donna avanti con i tempi, connaturata da una forte emancipazione anche sessuale. Oggi, la si definirebbe fluida. Come hai reso credibile questo lato del suo carattere?
Per me, è stato un continuo lasciarsi andare, non saprei definirlo diversamente. Considerata la premessa di libertà, Cele non deve dimostrare nulla a nessuno e, quando ciò accade, non si può che vivere d’istinti senza pensare al giudizio o al pregiudizio, come dovrebbe essere normale che sia anche oggi nella vita di tutti i quanti. Si è liberi fino a quando non si lede l’altro: dovrebbe essere un diritto lecito approcciarsi alla vita come realmente si desidera, vestendo sempre quei panni in cui ci si sente bene.
Certo, da un lato sembra fuori dal mondo che già negli anni Trenta una donna si prendesse così tanto spazio muovendosi con altrettanta autodeterminazione. Ma ricordiamoci sempre che anche Pirandello è stato un precursore in ambito teatrale: ha rotto dei sistemi prestabiliti rivoluzionandoli, anche se non tutti comprendevano la sua genialità o la sua portata. Ma, come autore, ha scelto di portare in scena il vero e il vero è anche scomodo.
Uscendo dal personaggio di Cele, quale è stata la prima volta in cui tu, Anna, ti sei sentita libera?
Non ho dubbi: su un palco mentre recitavo Lettere, una poesia stupenda di Alda Merini. Per me, si trattava della prima volta assoluta su quel palco che da sempre avevo sognato. Sin da bambina, il mio sogno più grande era la recitazione ma, provenendo da un paesino del meridione d’Italia, la consideravo una chimera lontana, talmente difficile da raggiungere che quando lo raccontavo alle amiche generavo in loro ilarità. Ridevano non perché non credessero nelle mie potenzialità ma semplicemente perché era qualcosa di inusuale e insolito per una ragazza da quelle parti…
Quella sera, tornando a casa, è stata una di quelle volte in cui mi sono data da sola una pacca sulla spalla per il coraggio e per aver creduto in me, nonostante quella vocina che continuava da ogni lato a dirmi che non ce l’avrei fatta. Ecco, quella è stata la prima volta che mi sono sentita libera di seguire semplicemente me stessa.
Quanti anni avevi?
24, non proprio quella che oggi si definirebbe una ‘giovane ragazza’. Non ho iniziato a recitare presto: sebbene a diciotto anni volessi già trasferirmi a Roma per seguire la mia inclinazione, le classiche lotte con i genitori che volevano più stabilità spingevano verso altre strade. Ma, dopo una breve parentesi nella moda in Puglia, ho deciso di prendere le mie cose e partire. Ero stanca di sentirmi limitata, costretta e costantemente fuori posto: era arrivato il momento di provarci… male che sarebbe andata, non avrei avuto il rimpianto di non averlo fatto.
Ti condizionava l’essere nata e cresciuta al sud?
Sinceramente? No. Anzi, reputo che sia stata una fortuna immensa nascervi. Credo anche che la mia recitazione sia anche il frutto di ciò che Adelfia, il mio paese che adoro a 8 km da Bari, mi ha dato: è un posto in cui la possibilità di approfondire i rapporti, vedere i sentimenti degli altri e di parlare dei tuoi, di dedicare del tempo ad amici e familiari, di stare con i nonni… è grazie a tutto ciò che ho costruito il bagaglio che oggi ho a disposizione, quello in cui ripescare le varie emozioni che mi servono. Ed io sono carica di emozioni grazie al luogo in cui sono cresciuta e in cui tornerei anche domani: se non fosse stato per il lavoro e per la volontà di seguire il mio sogno non me ne sarei mai allontanata.
Da dove hai tratto ispirazione per portare in scena il rapporto di sorellanza tra Marta e Cele?
Ho solo un fratello più grande a cui sono legatissima, non ho sorelle ma ho tante amiche che sono come tali. Fortunatamente, fanno un altro lavoro e mi sono risparmiata la sofferenza del confronto che vive invece Cele… Anche mio fratello fa tutt’altro mestiere ma con lui ho un rapporto di amore tale che non sento la differenza legata alla fratellanza o alla sorellanza: l’amore è amore, al di là del genere a cui si appartiene. Non ho dunque dovuto cercare riferimenti alieni da me: bastava guardarsi dentro e pensare al bene assoluto nei confronti delle persone che mi sono vicine.
Che bambina sei stata?
Una bambina felice che in casa definivano “tempesta”. Sono sempre stata un po’ estroversa e ciò non vuol dire che non sia una persona riservata, riflessiva o profondamente intima, soprattutto per quanto concerne i sentimenti. Ho avuto la famiglia sempre vicina, a dimostrazione di quel legame fortissimo che ci ha sempre contraddistinti. A casa mia, ad esempio, si è sempre parlato apertamente di tutto: bello o brutto che fosse l’argomento, ci si sedeva a tavola e lo si affrontava, come continuiamo a fare ancora oggi. Ciò ha fatto sì che non mi sentissi sola anche quando materialmente lo ero: so comunque di poter contare sui miei cari, sulla loro spinta e sul loro sostegno qualora cadessi.
È stato difficile dal punto di vista emotivo il trasferimento a Roma?
È stato duro andarsene e arrivare in una città immensa come Roma, con i suoi ritmi e con l’inevitabile senso di solitudine che ti restituisce rispetto a un piccolo centro, dove comunque c’è sempre un’amica con cui sorseggiare un caffè. Non è stato semplice, ad esempio, interfacciarsi da zero con gli altri ma il desiderio di affermarmi come attrice ha fatto sì che sopportassi il disagio che vivevo, era il sacrificio con cui dovevo scendere a compromessi.
La solitudine è stato il più grande ostacolo, l’ho sofferta ma, onestamente, l’ho anche sconfitta con il teatro, che per me si è rivelato essere una terapia in grado di infondermi coraggio. Mi ha insegnato che, andando in scena, non si può sbagliare: non c’è un secondo ciak a disposizione…
Il teatro è diventato così una sfida con me stessa tutti i giorni aiutandomi a uscire da Anna. Stare in tournée negli ultimi cinque anni da un lato è stato come prestare servizio militare ma dall’altro lato mi ha salvata: entrare dentro a un personaggio serve anche a farti alienare dai tuoi pensieri e ad avere altri punti di vista che ti aiutano a ridimensionare le preoccupazioni o i problemi.
Cosa ti spingeva e ti spinge a recitare?
Per me, recitare è dire la verità con un nome diverse: non è fingere ma è ricercare dentro te quelle emozioni che magari avevi nascosto o messo via perché pensavi fosse meglio così. Ti dà dunque l’opportunità reale di conoscerti e, soprattutto, di accettarti. E l’accettarsi è il primo vero passo verso la libertà personale. Questo lavoro ti mette di fronte a te stesso ed è per tale ragione che lo faccio.
Cosa ti ha permesso la recitazione di conoscere di te stessa che prima non sapevi?
Da ragazzina, mi è capitato di vestirmi di sicurezza, indossavo una bella corazza di coraggio e uscivo a testa alta di casa. Arrivando a Roma, ho cominciato a studiare da Gisella Burinato, che al primo giorno di lezione mi ha invitata ad andare in bagno a struccarmi: non si riferiva soltanto al rossetto che potevo aver messo sulle labbra ma alla mia persona, alle mille barriere che evidentemente avevo eretto per celare la mia insicurezza.
Il teatro mi ha aiutato ad abbracciare le mie insicurezze e a trasformarle in strumenti per il lavoro. Ma anche a scoprire il vero valore della gentilezza, quella cosa di cui parliamo oggi spesso per via di una società spesso molto tiranna. La gentilezza deriva in primis dalla conoscenza delle proprie fragilità: come fai a immedesimarti in un altro se non ti immedesimi prima in te stesso? Oggi ho totalmente metabolizzato tutto ciò ma ho patito molto la mia chiusura prima di capire che la vera apertura consiste nell’abbracciare l’essere umano nella sua totalità.
Nell’abbracciare me stessa, ho anche messo da parte il mio sentirmi da meno e ho iniziato a far valere la mia autostima, smettendo di sentirmi costantemente fuori posto nel mondo.
Erano gli altri a minare la tua autostima o era qualcosa che veniva dal tuo profondo?
Era una sensazione interiorizzata. Non nasciamo sentendoci da meno ma sono gli altri che contribuiscono ad accrescere il tuo malessere interiore lasciando che tu, però, permetta loro di farlo. Ho dunque imparato a non permetterlo e ancora continuo a imparare con l’esperienza che vivo e con quella che dovrò vivere. Di sicuro, ho appreso che bisogna accogliere i consigli delle persone giuste, individuando realmente chi ti vuole bene e chi mangia allo stesso piatto della tua sensibilità. Purtroppo, quando si è giovani, si prende tutto da tutti e, con la memoria che mi ritrovo, ricordo qualsiasi parola e circostanza che mi ha fatto soffrire: mi porto dietro frasi pronunciate da altri con estrema leggerezza che in me si tramutava in pesantezza.
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Eterno visionario: Le foto del film
1 / 11“Si vive d’istinti”: qual è quello che più ti caratterizza?
Mi muove il sentire… sento le persone e ciò mi porta oggi ad avvicinarmi ad alcune o a stare lontana da altre per salvaguardare me stessa. Ho scelto di vivere appieno il bene, sposando ciò che mi fa andare a dormire serena e con la coscienza in ordine.
Hai mai temuto il pregiudizio o l’essere considerata più bella che brava?
Ho anche vissuto per un periodo la necessità di dimostrare che fossi anche brava. Ma poi ho capito che fondamentale era ciò che io facevo per me stessa. Uno dei consigli fondamentali che mi ha tramandato Gisella Burinato è stato quello di non vergognarmi di essere bella perché non era quella caratteristica a togliermi qualcosa: avevo la tendenza a mascherare o, perlomeno, a non valorizzare il mio aspetto…
Oggi ci ho fatto pace perché comunque punto sull’onestà, sull’umiltà e sulla gratitudine che metto nel fare il mio lavoro: non è la bellezza che può inficiare un eventuale mio talento. Vivo la mia quotidianità con una semplicità da paesana e lo dico fieramente: cucino, preparo focacce e parmigiane, e ciò mi rende felice.
Che rapporto hai quindi con il tuo corpo?
Oggi sereno. Ma, quando mi sono approcciata per la prima volta al mondo della moda, ho vissuto dei frangenti down che mi hanno portata per dei periodi a mangiare veramente poco. Fortunatamente, ne sono uscita anche grazie al supporto della mia famiglia che, senza neanche sottolinearlo, mi ha fatto comprendere che dovevo cambiare registro: non era un modo di vivere sano e aveva ripercussioni anche sul mio stesso umore…
Non era però colpa della moda in sé. Anzi, la moda mi ha permesso di lavorare sul mio corpo e di conoscerlo meglio, aiutandomi ad accettarmi per quello che ero. Se una causa vogliamo ricercarla dobbiamo guardare alle immagini che spesso ci propongono dall’esterno, che ci bombardano di figure poco umane frutto di tanti filtri e modifiche… un’adolescente che le guarda spesso non è consapevole di quanto siano artificiose: deve capire da sola cosa c’è dietro.
A proposito di moda, la tua Cele nel film Eterno visionario indossa anche abiti maschili…
Qualcosa che a volte faccio anch’io ma non per questioni di identità… anche in ambito professionale, non ho mai patito la mia femminilità e non mi sono mai sentita da meno rispetto a un uomo, nonostante le mille problematiche legate ancora al gender gap. Sarà che preferisco guardare dentro me e non fuori.
Nel guardarti, cosa credi che Michele Placido, con cui da anni lavori anche a teatro, abbia visto in te?
Un po’ di verità che ha riconosciuto. Siamo entrambi originari della Puglia ed è quindi come se parlassimo la stessa lingua e indossassimo gli stessi vestiti. Ma anche la mia estrema disponibilità a scavarmi dentro, associata all’umiltà e al desiderio di imparare. Detto da me suona presuntuoso ma rispondo alla domanda… anche perché sono anche piena di lati negativi come la testardaggine e l’emotività, che non sempre sono un’ottima cosa. Li compenso però con l’empatia, sebbene questa mi porti poi a essere una spugna nel bene e nel male.
Cosa ti farebbe male oggi leggere o sentire sul tuo conto?
Vedere minimizzato il mio lavoro. Sono quella che si definisce una persona molto perfettina e molto autocritica: cerco sempre di sviscerare ogni aspetto delle cose, compreso il lavoro, in maniera quasi maniacale… Non pretendo di piacere ma che almeno mi sia riconosciuto l’impegno o la fatica. Fortunatamente, poi ho anche le mie altre passioni a distrarmi: non c’è solo la recitazione, ma anche la mia vita privata, la musica, il canto, le amiche e la mia cameretta, tutti elementi che mi riportano al mio essere con i piedi per terra e alla mia necessità di vita semplice.
Come gestisci, invece, i “no” ai provini?
Ho imparato che questo è un lavoro fatto al 99% di “no”, che ti richiedono anche di sederti e alzarti continuamente. Ma devi tenerlo in conto quando lo scegli: se lo fai, devi andarci sulle montagne russe cercando di non cadere. Ho così compreso che sono tanti i fattori che non dipendono dalle nostre capacità o meno ma dagli stessi personaggi che non sono giusti per noi: il giudizio non è mai sulla persona o sulla tua identità. E il segreto forse sta lì, nell’identificare bene chi sei come attrice e chi invece come persona, scansando il rischio di fare confusione. Bisogna sempre, in primo luogo, salvare la persona!