Esce in sala il 24 agosto, distribuito da Fandango, Rossosperanza, il nuovo film scritto e diretto da Annarita Zambrano. Presentato in concorso al Festival di Locarno e prodotto da Mad Entertainment e Rai Cinema in associazione con Minerva Pictures, Rossosperanza è una commedia black che racconta l’ipocrisia, la violenza e il moralismo funesto di un’Italia che è stata ma che pericolosamente sembra nuovamente essere.
Lo spunto di partenza è la frase che i genitori di Zena, una dei protagonisti del film, pronunciano quando portano la figlia alla famigerata Villa Bianca, una struttura predisposta al recupero di giovani “diversi”: “L’unica cosa che vogliamo è che la facciate tornare normale, normale come noi”. Ed è sul concetto di “normalità”, qualsiasi cosa essa significhi oggi, che ruota il film di Annarita Zambrano.
Siamo nell’Italia degli anni Novanta. Zena (Margherita Morellini) appartiene a una famiglia della borghesia romana. Il padre è medico presso la Santa Sede, il nonno è un vecchio fascista che desidera essere sepolto con tutte le sue medaglie e il fratello Tommaso (Elia Nuzzolo) ha seri problemi di logopedia: è balbuziente, affascinato dal cugino e incapace di vedere le brutture del mondo. L’unica passione di Zena è la musica, vorrebbe far la dj ma le morigerate abitudini di famiglia la incasellano al ruolo di brava ragazza, facendole sopire anche ogni suo desiderio. Il funerale del nonno diventa però per Zena l’occasione di riscatto verso chi le ha esercitato violenza tra una lezione di catechismo e l’altra.
Ed è questa la ragione per cui viene portata a Villa Bianca, dove si relaziona con latri giovani appartenenti alla borghesia che, come lei, vengono definiti problematici. C’è Alfonso (Leonardo Giuliani), rinchiuso dal padre politico perché omosessuale; c’è Marzia (Ludovica Rubino), affetta da una strana forma di ninfomania; e c’è Adriano (Luca Varone), silenziosamente muto dopo aver perso la madre e aver staccato un dito alla nuova compagna del padre.
A compiere la loro vendetta sarà una tigre che, lasciata libera, porrà fine con la sua violenza a un ciclo di violenze non meno efferate, con un bagno di sangue che, come tutto il colore rosso che attraversa il film, darà nuova speranza e nuova libertà.
Del film Rossosperanza, dei temi affrontati e delle situazioni (anche reali) a cui fa riferimento, abbiamo parlato con la regista Annarita Zambrano. Romana d’origine ma francese d’azione, è al suo secondo lungometraggio, arrivato a ben cinque anni di distanza da Dopo la guerra, opera prima presentata al Festival di Cannes 2018 nella sezione Un Certain Regard. Tra le tante risposte di Zambrano, ci colpisce il suo desiderio che un film come Rossosperanza sia visto dai giovani di oggi, quelli ancora in grado con un atto di sovversione di lottare per il proprio diritto a essere chi si vuole, senza distinzione alcuna di sesso, ceto sociale, colore o identità.
Intervista esclusiva ad Annarita Zambrano
“Non mi dire così che mi metto a piangere”, mi risponde Annarita Zambrano quando le rivelo di aver visto il suo film Rossosperanza già due volte. “È stato talmente difficile farlo che ancora non sono sicura che esista realmente e che sia stato selezionato al Festival di Locarno”.
Cominciamo dal titolo: perché Rossosperanza?
Il colore della speranza è solitamente il verde. Nel mio film, la speranza si nutre comunque del sangue: il rosso attraversa tutta la storia ed è presente anche nei dettagli, in ogni scena. La speranza per me viene da una specie di rivoluzione, di sovversione… e le sovversioni si fanno un po’ nel sangue, motivo per cui ne ho voluto marcare il colore. Il sangue non è soltanto legato al dolore ma anche alla speranza della ribellione, un sentimento che appartiene alla giovinezza e ai ragazzi.
E il rosso è in netta contrapposizione con Villa Bianca, il posto in cui vengono portati i protagonisti per essere rieducati alla normalità.
Villa Bianca è il luogo in cui si lavano i peccati. Ma è impossibile lavare via il rosso, sta dappertutto persino nella sequenza di animazione che accompagna una delle storie.
Una delle prime particolarità di Rossosperanza che mi salta all’occhio è il fatto che hai affidato ad Andrea Sartoretti tre ruoli differenti ma legati dall’essere padre. Lo hai assurto a simbolo del male genitoriale assoluto? Interpreta un imprenditore, un politico e un medico: tre facce della stessa mascolinità tossica?
Non so se siano il simbolo della mascolinità tossica ma sono comunque figure emblematiche di padri che simboleggiano il potere sotto il prisma familiare. Di fatto, la famiglia è l’emblema del potere in generale: ho voluto riportare nel microcosmo della famiglia la ribellione dei cittadini verso lo Stato. Se la famiglia è lo Stato, i ragazzi protagonisti sono nel loro piccolo i cittadini che mossi dalle viscere danno adito a una sovversione contro il potere. Ricordiamoci che l’Italia è comunque un Paese basato fondamentalmente sul concetto di famiglia.
Quindi, metaforicamente, ci inviti tutti alla ribellione?
Beh, sì. A una ribellione che viene dai giovani e, nel caso del mio film, dai figli. Ho voluto che non fossero persone tra loro in contrapposizione (ricchi, poveri, proletari o borghesi) proprio per sottolineare come la sovversione viene anche dalle viscere di persone che si sono nutrite della stessa morale ed etica: non nasce solo dalle lotte di classe ma anche da una lotta interna alla classe.
Le vicende del film Rossosperanza sono ambientate nel 1990, anno in cui l’Italia attraversava un momento particolare.
Da un lato c’era la frenesia ancora legata ai Mondiali di Calcio, per cui si godeva dell’idea del sogno: si erano realizzate nuove infrastrutture, le città cambiavano volto e forte era stata la speranza di vincere gli stessi mondiali in casa. Dall’altro lato, c’era ancora l’eco della caduta del Muro di Berlino e si preparava il terreno per l’avvento di Mani Pulite due anni dopo. In un certo senso, il 1990 è una cerniera tra due epoche. Per me, rappresenta un po’ la caduta degli dei: si gozzoviglia prima della morte, si sentono già i germi del malore e della disfatta che sarà.
Un’idea che ho cercato di restituire nella scena della grande festa in casa di Marzia, dove sembrano tutti zombie: in ogni grande festa si sente la disfatta della morte. La tigre, liberata dalla gabbia, fondamentalmente non fa nulla tranne che restituire tutti quanti alla loro natura: sono già morti e non lo sanno.
La tigre e la sua fuga trae origine da un fatto di cronaca che in quegli anni ha imperversato sui giornali e nei notiziari: la storia della famosa pantera nera che si aggirava per i Colli romani.
Quella pantera era in realtà una tigre. La pantera non esisteva ma si trattava di un particolare tipo di tigre, molto scura che, di proprietà del padre di una persona che conoscevo, era scappata dall’Aventino ed era arrivata sulla Nomentana. Il proprietario non poteva certo dire che gli era scappata e alla fine è stato lui stesso a ricatturarla, facendola ammazzare dai suoi scagnozzi. Quest’uomo aveva la passione per gli animali esotici: aveva in casa quasi uno zoo moderno con una quindicina di specie diverse. All’epoca andava molto di moda tenere animali come coccodrilli, iguana giganti, scimmie… ed era anche un vezzo un po’ da gente arricchitasi flirtando con i palazzi del potere ma anche con la malavita.
E nel 1990 tu eri pressoché adolescente. Racconti di essere stata anche un po’ vittima di un sistema che avrebbe voluto, come accade ai protagonisti del film Rossosperanza, renderti “normale”.
Frequentavo il Giulio Cesare, un liceo considerato di destra: eravamo tutti borghesi e appartenenti a un certo tipo di famiglia, occorreva che fossimo tutti in un certo modo e che rispondessimo a delle regole prestabilite. Appena arrivata, ho cominciato a esigere i miei spiragli di libertà, a partire dalle cose più stupide come le assemblee. Erano anni molto complessi in cui accadevano fatti storici dalla portata immensa. Era caduto il Muro di Berlino ma c’era anche la Guerra del Golfo ma a scuola non si parlava di niente di tutto ciò: fondamentale per la scuola era la riproduzione dell’élite.
Quando sei adolescente, nemmeno pensi alla possibilità di fuga dal tuo mondo. Quella è la tua normalità, soprattutto quando nessuno ti ha mai mostrato che esiste anche altro. Lo scopri solo dopo. Ma questo non vuol dire che io non voglia bene alla mia famiglia o ai miei genitori: li adoro profondamente. Il che non vuol dire che condivido il loro pensiero: hanno alle spalle una storia che non è la mia, sono stati chiamati a ricostruire l’Italia dopo la Seconda guerra mondiale e non ho nulla da rimproverare alla generazione dei miei genitori se non il fatto di essersi scordati, dopo la ricostruzione, di alzarsi dalla sedia. Il potere a un ceto punto è rimasto nelle mani di persone molto anziane che, per forza di cose, non riuscivano a stare al passo con i tempi e con quelle che erano le tematiche che si facevano strada.
Il divario generazione era dunque forte: loro seduti sulla sedia e i ragazzi come me che palpitavano per andare avanti e conquistarsi un certo tipo di libertà. Pensiamo ad esempio alla pillola anticoncezionale: quand’ero adolescente io, la discussione era ancora aperta. Non era ancora passata la legge sulla violenza sessuale, intesa ancora come un delitto contro la morale e non contro la persona. E ancora oggi apparteniamo a un Paese dove gli obiettori di coscienza in un ospedale pubblico non praticano l’aborto e non danno nemmeno la pillola del giorno dopo.
All’epoca, si sentiva tantissimo quanto vecchiume ci fosse al potere, anche tra i professori: non avevano alcun interesse a parlare di politica o di attualità. La gente, poi, reduce dagli anni di piombo, non aveva tempo per pensare al fallimento del comunismo: aveva solo voglia di divertirsi, di essere superficiale e di arricchirsi. C’era una bulimia economica che non sentivo mia: non riuscivo a capire cosa ci fosse che non andasse in me, perché non riuscissi a condividere quel modo di essere.
E ti sei data una risposta?
Li ho ammazzati tutti nel film. Oddio, non proprio tutti: nella realtà qualcuno è rimasto (ride, ndr). Ho conosciuto tanti figli di quella gente lì, rimasti come i genitori: coloro che dovevano diventare potenti, lo sono diventati. I figli del potere sono rimasti legati al potere e oggi lo esercitano.
Quelli che nel tuo film ammazzano sono coloro che in qualche modo tutti quanti avrebbero voluto riportare sul binario giusto…
Zena, Alfonso, Marzia e Adriano sono le pedine impazzite che dovrebbero essere riportate alla normalità per far sì che le famiglie mantengano il privilegio acquisito. La borghesia tende a riprodursi come classe sociale sacrificando come in natura anche qualcuno dei suoi componenti: è ovvio che per sopravvivere una classe sociale e non solo una classe animale sacrifica l’anello più debole. E chi è più debole di chi appare “diverso”? Ma cosa accade se non riesci a sacrificarlo?
Questi ragazzi si ribellano ai loro padri, al familismo e al nepotismo italiano. Spinti da una morale, si allontanano dall’unico pane che hanno mangiato e non c’è altra giustificazione se non quella di dare seguito a qualcosa che si sente dentro e che viene smosso da causa scatenante, da un incontro o da una situazione particolare. Hanno dentro un malessere che non sanno cos’è e ripropongono quella violenza che, per ragioni ognuno proprie, li ha segnati. In un certo senso, è come se riscattassero la violenza con la violenza.
La loro storia è anche il mio modo di riflettere sulla violenza, sulle sue origini e sulle sue motivazioni. Da dove viene la violenza? Chi sono i violenti? Sono voluta andare alla radice del problema e non fermarmi semplicemente all’apparenza. Non sto dicendo che alla violenza bisogna reagire con la violenza ma ho voluto semmai parlare di violenza fisica contrapposta a violenza politica.
È cambiata la tua percezione della violenza da quando sei diventata madre?
Tantissimo. Ho una bambina che adesso ha due anni e devo credere nell’umanità. Non posso permettermi di pensare al futuro disumano e senza speranza che potrebbe attenderla. Non devo credere che si sia tutti dei mostri ma devo sperare che qualcuno si salvi. Quando diventi madre, speri di offrire a tuo figlio un mondo in cui crescendo può fare quello che vuole, essere chi vuole e vivere come vuole. Un mondo in cui non deve scegliere il suo sesso ma in cui seguire il suo istinto: la speranza è che si capisca finalmente che siamo tutti quanti liberi di essere come vogliamo. Anche registe donne.
È difficile esserlo?
In Italia, più che in Francia, c’è una grandissima mancanza di rispetto nei confronti delle registe donne. È vero che i miei produttori mi hanno permesso di fare un film “matto”, con una storia difficile anche da finanziare, ma non sempre si ha così tanta libertà. Spesso noi donne ci scontriamo con muri difficili da abbattere e con parole che se dette a un uomo questi reagirebbe con una testata. C’è un’ipocrisia di fondo che mi fa diventare matta: ho assistito a comportamenti sul set che mi hanno lasciata perplessa. Quelle poche volte che vengo a fare cinema in Italia mi rendo conto quanto sia un’impresa farlo.
Scegli come protagonisti del film Rossosperanza, cinque attori giovanissimi. A uno di loro, Luca Varone assegni un personaggio non facile, Adriano, costantemente muto.
Luca ha dentro un humor che era particolarmente azzeccato per il suo personaggio. Sebbene non parli, Adriano sente tutto ed è sempre sul pezzo.
E affidi alla storia del suo personaggio la sequenza animata a cui accennavi prima: la sua è l’unica storia dei ragazzi che viene ricostruita attraverso l’animazione. Perché tale scelta?
Intanto, perché avevo voglia di sondare l’universo dei ragazzi: ognuno di loro si esprime in una maniera tutta sua, chi con la musica, chi con il ballo, chi richiamando alla mente i b-movies e chi con il disegno. Adriano si esprime proprio attraverso quest’ultimo, ricorrendo al colore rosso che attraversa tutto il film. Avevo anche voglia che a un certo punto il linguaggio stesso del film cambiasse e, per rendere il suo personaggio ancora più poetico, ho fatto sì che la sua storia venisse ripercorsa attraverso quegli stessi disegni che lui realizza con il suo sangue: mi sembrava molto potente poter rimanere nel suo immaginario.
Zena, che poi è anche la narratrice delle storie che non sappiamo fino a che punto essere vere, si esprime attraverso la musica, Alfonso attraverso il ballo e il cinismo e Marzia come uno di quei personaggi da film di serie z, con un padre palazzinaro e una madre che non sappiamo nemmeno se ha venduto la propria figlia o no come in una storia horror. Non dimentichiamo però che sono comunque tutti dei bambini protagonisti di un incubo in cui si muovono uomini di Chiesa, genitori e produttori televisivi poco raccomandabili…
…e anche vecchi nonni fascisti, seppure già morti e nella bara.
Il nonno di Zena è ispirato alla figura di mio nonno. Era un fascistone convinto, ci aveva creduto tantissimo. Ma la mia è una famiglia strana: mentre il nonno materno fu recluso in un campo di concentramento (aveva un diario su cui annotò una frase che oggi non pronuncerebbe nessuno: spero che il nostro sacrificio servirà alla libertà italiana), quello paterno era un fascista di Sperlonga (tutta quella zona è sempre stata fascista, ricordiamo che era stato Mussolini a rifare tutto l’Agro Pontino). Curiosamente, era anche amico di Benedetto Croce e intratteneva una fitta corrispondenza con Primo Levi. Una figura davvero assurda quella di mio nonno, che era anche un intellettuale di destra: scriveva libri di poesia molto legati alla morte ed era anche l’unico professore della sua zona.
Per lui, la parola fascista non era nemmeno un insulto. La mia famiglia è molto complessa: per me, ha sempre rappresentato un pozzo di informazioni sull’Italia, sulla morale italiana e sulla storia, che vanno da una parte politica all’altra. Mio padre, ad esempio, è stato un giudice ma non si è mai legato politicamente a nessuno schieramento: ha lavorato fino a 75 anni, prestando servizio per cinquant’anni e credendo profondamente nella Democrazia Cristiana e nei suoi valori cattolici. Contrariamente a me che già da ragazzina volevo l’aborto, il divorzio, la pillola… Non posso dire niente contro lui o contro mia madre ma ho sempre voluto altro rispetto a loro.
Ti hanno cresciuta in totale libertà?
Mi sono guadagnata la libertà facendoli soffrire. Sono stata un’adolescente abbastanza inquieta e mi sono guadagnata la mia libertà andando via di casa e imponendomi. Devo però ammettere che in qualche modo mi hanno appoggiato non ostacolando ciò che volevo fare. Non che mi abbiano spinta a far l’intellettuale o il cinema ma alla fine si sono arresi, finendo con il sostenermi.
Tra i giovani del film Rossosperanza ce n’è uno che non finisce a Villa Bianca. È Tommaso, il fratello di Zena.
Anche Tommaso è dal mio punto di vista un personaggio poetico. È sicuramente un puro ed è l’alter ego della sorella Zena: non sappiamo nemmeno se esiste o è frutto della sua fantasia. Più Zena apre gli occhi sulla realtà, più Tommaso non vuol vedere quant’è mostruosa: preferisce credere nell’amicizia e nella purezza d’animo fino a quando la verità non gli crolla addosso e capisce che la sua vita, le sue convinzioni e il suo amore non sono serviti a niente.
Tommaso è come una di quelle persone che, vittimizzate per anni, improvvisamente apre gli occhi e scopre la realtà di cui è protagonista. E si ritrova a uccidere senza aver premeditato nulla ma solo per continuare a esistere: non può restare in vita se il cugino e i suoi amici rimangono vivi. Tanto che nella scena della grotta marina in cui avviene il tutto (girata in una grotta accanto a quella di Tiberio) c’è qualcosa che preannuncia ciò che verrà: il ritrovamento sul fondale di una maschera della morte. Presa dal Museo Archeologico di Sperlonga, la maschera simboleggia il viaggio di Odisseo ed è il rimando a tutta quella tragedia greca di cui mi sono nutrita sin da quando ero in culla. Ho anche frequentato il liceo classico e studiato Lettere antiche.
Credo molto nella tragedia intesa come senso primario: tutto è stato già scritto e fatto. E gli uomini ruotano intorno a tre grandi passioni: potere, sesso e denaro. Non c’è altro che li muove. La maschera serve come specchio negativo del sé: se la guardi, a sua volta è come se ti guardasse scatenando una catarsi profonda che poi aiuta a vivere anche meglio.
Perché i giovani di oggi dovrebbero vedere un film come Rossosperanza?
Per difendere quelle poche libertà che sembriamo aver acquisito e che purtroppo ancora mancano. Mi piacerebbe tantissimo che lo vedano i ventenni: del resto, anch’io nella mia testa ho ancora vent’anni, sono rimasta bloccata a quell’età. Margherita Morellini, l’attrice che interpreta Zena, è il mio alter ego a tutti gli effetti: quando ci siamo viste la prima volta, sapevo già chi fosse e lei chi fossi io, c’era e c’è qualcosa che ci lega profondamente.
Il momento del passaggio tra l’età ingrata dell’adolescenza a quella adulta ha marcato tutta la mia vita in maniera profonda, lasciandomi intatta quella rabbia e quella stupidità lì. Vorrei ora trasmetterle ai ragazzi di adesso: mi sembrerà di vivere in eterno e di avere vent’anni il più a lungo possibile. Perché vent’anni è l’età del possibile: non ti frega molto delle conseguenze, puoi essere arrogante, egoista e stronzo, fare tutte le cazzate che vuoi e condurre le battaglie che desideri, anche quelle più stupide, perché hai fame di vita. Non c’è nemmeno l’ombra della rassegnazione che arriverà intorno ai cinquanta.
Sono un’intellettuale, nel senso che guadagno attraverso il mio intelletto. Il mio compito è quello di risvegliare le coscienze e di scuoterle, creando contraddittori e ponendo grandi interrogativi. E questo è anche il compito del cinema: sono cresciuta con i film di Elio Petri e Marco Bellocchio, non esiste per me altro modo di pensare al cinema.
E l’impegno va ben oltre il ritorno: me lo ha insegnato Ken Loach. Quando ero una studentessa, avevamo organizzato una proiezione del suo Piovono pietre in uno sperduto quartiere di periferia. Eravamo riuscito ad avere il numero di fax della produzione e gli abbiamo scritto, non sperando di certo in una sua risposta. Loach non solo ha risposto ma si è presentato alla proiezione pagando di tasca propria il biglietto dalla Gran Bretagna e l’albergo.