Gli Ardecore, il gruppo nato da un’idea del cantautore folk blues Giampaolo Felici, hanno di recente pubblicato il loro nuovo disco, 996 – Le canzoni di G.G. Belli – Volume 1. Chi mastica un po’ di letteratura italiana sa che il poeta Giuseppe Giochino Belli è considerato uno dei più rappresentativi della cultura romana per aver realizzato un’enorme opera composta di oltre duemila sonetti.
Scritti in romanesco, i sonetti hanno dato voce, dignità e “lingua” al popolo della Roma papalina mentre all’orizzonte si profilava il cambiamento che avrebbe apportato l’Unità d’Italia. Riscoperto dopo il Secondo dopoguerra, Belli sta alla poesia come Giovanni Verga sta alla letteratura.
Gli Ardecore sono riusciti nella straordinaria impresa di lasciare inalterati i 16 sonetti scelti per il loro primo disco. Li hanno musicati in una forma che tiene rispetto della struttura metrica ed è lontana da quella della musica italiana tradizionale. Niente ritornelli o special per intenderci ma le terzine e quartine riportate così come voleva il Belli.
Ogni canzone degli Ardecore restituisce un’immagine precisa, un tema o un argomento. Il tutto si rispecchia nel mondo di oggi, nonostante i componimenti siano stati scritti più di un secolo e mezzo fa. Il disco sarà seguito da un Volume 2 di prossima pubblicazione. Ma anche dalla pubblicazione dell’opera intera sotto forma di libro, arricchita da speciali illustrazioni e dalla prefazione di Marcello Teodonio, massimo esperto dell’opera del Belli.
Quattro album all’attivo e una Targa Tenco come miglior Opera Prima nel 2007, gli Ardecore ci hanno concesso un’intervista esclusiva su quella che per loro è “una sequenza di soggetti e racconti che, filtrati dal popolo in modo istintivo (sorgente fondamentale nell’opera belliana), attraversano nella successione delle canzoni i temi del quotidiano e quelli dello Spirito, in modo da tenerli sullo stesso piano”. A parlare è Giampaolo Felici, voce e autore delle musiche di 996 – Le canzoni di G.G. Belli – Volume 1.
Intervista esclusiva agli Ardecore
Come mai avete scelto di musicare i versi di Belli?
Per la cultura e la lingua romanesca, Belli è fondamentale. Belli è un po’ il nostro Leopardi, se parliamo di poesia, o il nostro Dante, se ci soffermiamo alla lingua. L’apporto del Belli offre uno sguardo alla cultura della città facendo appello alle sue origini popolari. Ha infatti scritto con la soggettiva del popolo e messo in rima ciò che il popolo stava vivendo in quel momento storico.
Solo negli ultimi anni si è data importanza alle opere del Belli. Fino al Secondo dopoguerra, la sua figura non veniva ritenuta nemmeno centrale nella letteratura, gli si preferiva sempre Trilussa. Ha però scritto tra il 1830 e il 1847 un numero impressionante di sonetti, 2279, in un periodo storico di grande importanza. Le sue opere sono l’ultima fotografia di una società che da lì a poco sarebbe cambiata per sempre perché inglobata dentro il sistema dell’unificazione nazionale.
Dopo l’Unità d’Italia, Roma cambierà completamente. Belli è però morto nel 1863. Non ha visto cosa è successo dopo, né la Breccia di Porta Pia né i Savoia. Ma è stato in grado di percepire i cambiamenti già in atto. Ciò che ha colto con i suoi versi sono un’istantanea forte dei pensieri della gente comune, che per scelta non ha contaminato.
Quello del Belli è come se fosse un lavoro quasi da cronica, da giornalista, anche se lo fa con il suo talento da poeta. Riporta ciò che sentiva tra le vie di Roma. E da romano, per aver sentito i discorsi dei miei nonni da bambini, so quanto la cultura popolare possa essere allucinante. I miei nonni erano abbastanza ignoranti ma i loro racconti avevano al loro interno sia contenuti sia una metrica quasi naturale. Era dovuta a una lingua che è di per sé cantilenante. Un po’ come tutti i dialetti d’Italia. Soprattutto quelli del Sud, in grado di descrivere in forma armonica cose basiche della vita. Questo è un aspetto che con l’uso del linguaggio formale italiano un po’ si perde. L’italiano ha regole rigide da seguire: è una lingua costruita appositamente per unificare: in qualche modo, è l’esperanto dello stivale.
Avete scelto di non stravolgere la struttura dei sonetti.
I 16 sonetti che abbiamo scelto e musicato sono quasi tutti monologhi di persone del popolo, con uno spazio narrativo ridotto al minimo, e ben si adattano alla dinamica da cantastorie. Musicalmente, ci siamo attenuti alla struttura del sonetto, lontani dalla forma canzone tradizionale in cui c’è bisogno di un ritornello. Paradossalmente, affrontare qualcosa di così tradizionale e che viene da lontano ci ha dato la possibilità di giocare con una struttura musicale più progressiva, evoluta e sperimentale, ancor più rispetto ai nostri lavori passati.
Non si fa fatica a trasformare in canzone qualcosa che è già metricamente adatto, come dicevamo prima. Le forme gergali romane, così come napoletane o siciliane, sono molto più fluide dell’italiano formale, molto più pop. Il romano sta all’italiano come l’americano della musica folk o blues sta all’inglese. Quando ti ritrovi a lavorare con l’italiano tutto diventa più difficile: a scrivere una canzone ci si impiega il quadruplo del tempo.
Il disco si chiama 996 – Le canzoni di G.G. Belli – Volume 1 Per chi non lo sapesse, 996 è la firma anonima del Belli: non sono altro che le sue iniziali ggb. La copertina del disco gioca poi in maniera lampante con i chiaroscuri della personalità dello stesso Belli.
Ho dovuto un po’ spiegare a tutti il senso di quel 996. Chiaramente, sembrano tre 6 di cui due rovesciati. Ben rendono l’idea del gioco anticlericale del Belli che era sì cresciuto tra il popolo ma che aveva anche una vita parallela borghese. La sua era una natura “ambigua”: era totalmente incastonato dentro le dinamiche della Roma papalina. L’immagine di copertina del Belli, così come tutto il concept, gioca con il suo essere dottor Jeckyll e mister Hyde.
Quelle del Belli sono un po’ quelle che oggi definiamo pasquinate. Nei suoi sonetti va a tracciare la voce del popolo senza metterci mai la sua, com’è specificato nell’introduzione postuma ai sonetti che alleghiamo anche nel disco. Ricordiamo che in vita non ha mai raccolto le sue opere: i sonetti uscivano in quelle che noi potremmo chiamare fanzine. Anzi, era sua precisa volontà che alla sua morte le sue opere venissero distrutte.
Il suo lato anticlericale e, quindi, antigovernativo è da addurre a quella caratteristica che da sempre accompagna non solo il popolo romano ma anche quello italiano in generale. L’Italia, prima dell’unificazione, era sempre stata divisa e tutti diffidavano di ciò che avveniva nel paese accanto. C’era un anarchismo fortissimo.
L’anarchismo è evidente in Er codisce novo, dove il popolo commenta a modo suo le regole imposte ad esempio dal Codice penale redatto dalla Chiesa: regole che potevano essere rispettate solo dai preti!
Sul finale del sonetto, Belli fa notare che ci si può permettere di essere antigovernativi solo se si ricopre già un ruolo di peso all’interno della società. Ed è un vero paradosso. La legge dovrebbe essere uguale per tutti ma, come sappiamo ,la storia dell’Italia, Roma a parte, è fatta di pesi e misure diverse quando si tratta di andare a giudicare qualcosa.
L’attualità del Belli è lampante anche in sonetti come La Poverella e La carità, in cui per certi versi si anticipa il concetto moderno di inclusività.
Pensiamo a quanto fosse elevato il grado di analfabetismo della gente dell’epoca. L’ignoranza era forte; eppure, la solidarietà non veniva messa in discussione. Contraddice il pensiero comune secondo cui i poveri in qualche modo si facciano le scarpe tra loro. L’inclusività allora, era molto più sentita di quanto si pensi. Oggi è diventata una facciata dietro cui nascondersi. Vedo gente che professa inclusività e poi molto spesso non fa nulla di concreto per metterla in atto. Anzi, spesso dimostra fastidio anche in maniera eclatante, sbuffando per esempio di fronte a chi sta chiedendo l’elemosina.
Che ne è stato del Decoro di Roma? Già il Belli sollevava la questione.
Nel sonetto di Belli si mette in risalto, con il discorso tra madre e figlia, l’enorme ipocrisia che sta alla base della società: i panni sporchi si lavano in famiglia, l’importante è salvare la facciata, le apparenze. L’ipocrisia c’era allora e, come tante altre cose che arrivano dal passato, resiste ancora oggi. Forse si è anche incentivata, è divenuta maggiore. È quasi impossibile che scompaia: si vede anche da come si muove chi ci governa. Basta un attimo pensare all’attuale situazione tra Russia e Ucraina: tutto ciò che è russo va cancellato però dall’altro lato si cercano intese per il gas. C’è un’azione di ipocrisia a livello mondiale.
Er negoziante fallito, invece, assume tutt’altro significato se la leggiamo con gli occhi di chi ha subito palesemente le conseguenze della pandemia da CoVid.
Come tutti i sonetti del Belli, aveva insito quell’effetto comico che è tipico di tutta la cultura popolare romanesca. Noi abbiamo voluto spogliarlo di ciò e conferirgli un aspetto super drammatico. In Italia, aprire un’attività commerciale in proprio comporta enormi responsabilità sulle spalle dal momento che il sistema non ti supporta. Il commerciante, in un momento di crisi, è il primo a fallire. Quanti casi abbiamo sentito di negozianti che si sono suicidati o sono andati in crisi totale perché il mondo intorno non è stato in grado di sostenerli?
Il disco si chiude con un trittico di sonetti a tematica religiosa, dalla creazione al giorno del giudizio passando per l’apocalisse.
Anche quei sonetti racchiudono qualcosa di comico e antigovernativo. Dopo la cacciata dal paradiso di Adamo ed Eva, l’umanità è stata condannata per la vita intera a essere divisa in classi sociali. C’è un chiaro senso di rivalsa rispetto al sistema governativo, è chiaro: si esaspera quella che è a tutti gli effetti un’anomalia. Da un lato, ci sarà sempre il popolo rozzo e dall’altro lato, nel caso di Belli, l’aristocrazia.
La sua è una forma di protesta che non poteva nemmeno portare avanti alla luce del sole: era costretto a nascondersi dietro un numero, quel 996 di prima, per portarla avanti. Erano gli anni in cui si veniva mandati alla gogna: la pena di morte era più rischiosa di adesso. Le differenze di classi sociali e l’ipocrisia perdurano sempre. Ancora oggi c’è un dibattito politico aperto sugli aiuti economici agli indigenti: e se la social card la prende anche un mafioso che però risulta nullatenente?
Il tema dell’Apocalisse, affrontato in chiusura, rappresenta il punto di arrivo di uno Stato e di una condizione umana che il Belli ha descritto fino a quel momento pieni di povertà, ipocrisie e ingiustizie sociali.
Gli argomenti religiosi erano molto sentiti sia dal Belli sia dal popolo romano. Sono centrali per la cultura tradizionale cattolica romana. Roma è la sede del Papato, è centrale. Ed è centrale anche per la fine del mondo. L’Apocalisse prevede infatti che, da un buco sconosciuto della Basilica di San Paolo, uscirà Nocchilia, un personaggio tipico della tradizione romana. È una crasi tra Enoc ed Elia, che si fonderanno in un’unica persona per affrontare l’Anticristo. Anche per la fine del mondo, Roma sarà caput mundi: restituisce tutto l’orgoglio della superbia romana.
Ci sarà ovviamente un Volume 2. Avete già scelto i sonetti?
Si, il disco è già completamente finito, masterizzato e pronto. Uscirà più avanti nel corso dell’anno. Il secondo volume sarà un po’ più folk rispetto al primo. Lo definiamo quasi la versione bianca della stessa idea.
Quanto è difficile proporre al pubblico un progetto del genere oggi?
Viviamo in un’epoca in cui musicalmente c’è molta confusione. Non è facile presentare un progetto in 28 capitoli in un momento in cui le playlist mischiano pezzi che tra loro non hanno molto in comune. I grandi personaggi musicali che ci hanno formato venivano fuori da un percorso che portava avanti un’idea: dalla copertina alle canzoni di un disco venivano fuori correnti musicali generazionali in grado di influire negli usi, nei costumi e persino nei modi di vestire delle persone. Oggi, non è più così.
Oggi manca la profondità. Vincono tutti quelli che nella vita sono superficiali. Adesso la storia la fanno i numeri ma in questo modo si distruggono tutte le correnti alternative. Chi non si adatta alle regole, viene totalmente distrutto. Chi è orgoglioso di seguire la sua strada viene descritto come colui che persegue un binario morto. Questo è l’aspetto più grave: le visualizzazioni, i follower e gli streaming rischiano di uccidere anche l’ispirazione.