Argo nasce nel 2016 ma non ha sei anni. Ne ha qualcuno in più ma quella è la data che segna inesorabilmente il suo percorso personale e artistico. È l’anno in cui, ancora adolescente, si è trasferito con i genitori da Brescia a Roma, passando da una piccola realtà di provincia a una grande città.
Ed è stato allora che, da appena sedicenne, ha salutato i suoi amici e il suo mondo, fatto anche di episodi che servivano a rimarcare l’affermazione della sua identità e lo hanno portato ad affrontare ostacoli anche inimmaginabili. Non è un mistero: Argo racconta nelle sue canzoni chi era prima di incontrare la musica e capire che la scrittura non era solo un passatempo.
In Un giorno, il primo suo primo EP (con all’interno produzioni di Trem e Lomi, alcune chitarre di inarte.teo e una strofa di Commi), Argo racconta in cinque tracce il suo percorso di analisi personale, un percorso di crescita caotico, dettagliato e autocritico in cui tanti giovani della Generazione Z possono riconoscersi e rispecchiarsi.
Lo abbiamo allora raggiunto per un’intervista esclusiva a tutto tondo. Con Argo ce lo diciamo da subito: non vogliamo una pagina che ricordi la tv del dolore né tantomeno puntare il dito su chi o cosa. Entrambi puntiamo semmai a capire perché sia complicato per un ragazzo della sua età capire chi si è o sperare nel futuro.
Intervista esclusiva ad Argo
Vivi a Roma ma sei originario del Brescia. Cosa ha significato per te cambiare città?
Roma è stata per me un insieme di stimoli, direi quasi esagerati. Sono passato da un contesto di provincia limitato, piccolino e tranquillo, al boom. Vivevo, tra l’altro, in un paesino a una decina di chilometri dalla città e la provincia bresciana non è che sia il massimo. Non fraintendetemi: sono legato a Brescia ma purtroppo non offre molto.
Un giorno è il tuo primo EP, composto da cinque tracce in cui racconti molto di te. Che origini ha il progetto?
Trova il suo perché nel percorso che ho affrontato nell’ultimo anno e mezzo della mia vita. E nasce da un bisogno di consapevolezza di chi sono dopo un periodo traballante: viene dal profondo del cuore di Argo.
Nelle tracce non hai paura di mettere in mostra quelle sono le tue fragilità.
Non ho mai avuto questa preoccupazione. Anche prima di esporre la mia fragilità in musica, ne parlavo con chi mi stava intorno. Qualsiasi problema o disagio avessi, non ho esitato a mostrarlo alla cerchia di persone che per me erano come fratelli. Non ho mai avuto problemi a parlare, anche per normalizzare alcune difficoltà che magari vengono considerate ancora un tabù nel quotidiano. Mi ha sempre dato fastidio considerare che ci fossero degli argomenti di cui non si poteva parlare. Perché dovrei aver paura di espormi su lati umani che tutti conosciamo e abbiamo? Non avrebbe senso.
Chi come me fa un lavoro che arriva agli altri, tanti o pochi che siano, può comunque essere d’aiuto a chi vive una situazione simile. Almeno, me lo auguro: è questo anche uno degli intenti che si celano dietro alle mie canzoni. Sentirsi abbandonati anche dai coetanei non è molto piacevole: provo a trasmettere un po’ di conforto e di coraggio a chi non ha nessuno che sente la sua voce.
Un giorno si apre con Mi hanno detto che, una sorta di analisi profonda di quello che è stato il tuo percorso. Nella canzone, parti da un episodio specifico che è accaduto quando avevi tredici anni.
La canzone è un po’ una lista della spesa, un elenco di quello che è successo e che è all’origine di tutto ciò che ne è derivato dopo.
La polizia è arrivata in casa tua per via della tua passione per i murales.
Prima di far musica, esprimevo chi ero attraverso i graffiti: era una passione veramente indescrivibile. Ovviamente, non nego che era legata anche all’aspetto trasgressivo che a 13 anni intravedi nel writing. Rimaneva tuttavia una passione vera che ha comportato ripercussioni che, a mio avviso, sono state esagerate. Tutto è stato gestito in maniera esasperata forse anche per il contesto piccolo in cui vivevo: indubbiamente, a Brescia la preoccupazione maggiore era quella di tarpare le ali ai giovani, come dire, “insurrezionalisti”. Fortunatamente, non c’erano i presupposti per un processo a mio carico, anche perché non ero neanche penalmente imputabile.
Partendo da quel momento, la canzone dà il via a un dialogo con me stesso in cui si ripercorrono le principali scosse di terremoto che mi hanno interessato, non potrei chiamarle diversamente.
Cosa ti spingeva verso i murales?
Si trattava per lo più di lettering. Ho usato anche tremila nomi differenti che neanche ricordo io. Tutto nasceva dal desiderio di vedere il mio scritto sui muri o nei cassonetti. Era un modo per voler sentir propria la città, un desiderio che in quel momento era molto marcato in me.
Non era un modo per dire “Guardate, io ci sono”?
La verità? Sì. Anche se può sembrare irrilevante, quando si andava in giro con gli amici la visione di una di quelle scritte offriva lo spunto per far conoscere lati di me che non esponevo a tutti. Spesso erano anche un tramite per nuovi rapporti, nuovi scambi e nuove conoscenze. Una sorta di anticamera della musica per come la intendo io: erano un modo a tredici anni per uscire da quella macchina di omologazione inconsapevole che ci vuole tutti uguali. Ma quando sono arrivati i poliziotti in casa, gli assistenti sociali e tutto il resto, ho smesso.
Nel testo, però, scrivi una frase molto forte: “è morto Gabriele”.
Segna la fine di un capitolo della mia vita e l’inizio di un altro. Sottolinea come non ci sia più il Gabriele spensierato, allegro e felice, di un tempo, quello che faceva anche le cose alla leggera, ma un nuovo me che, dopo determinate situazioni vissute, ha maturato nuova consapevolezza cambiando.
Parli anche di “compresse, litri di alcol e soldi per comprare belle giornate”. Come sono le belle giornate?
Quando hai i soldi, puoi comprarti anche un po’ di spensieratezza. Decidi tu i tuoi programmi e non sei costretto a scendere a compromessi. A una prima lettura, possiamo interpretarla anche così. Tuttavia, riflettendo sul peso della frase dopo averla scritta, mi sono reso conto che comprare le belle giornate è impossibile: puoi avere i soldi per farlo ma chi ti dice poi che sarebbero davvero belle giornate? L’incertezza e la precarietà non ci danno risposte certe, le belle giornate sono qualcosa che dobbiamo ricercare a un livello più personale.
In Casino scrivi che non sai cosa vuoi. E ora?
Adesso so cosa voglio, sicuramente più di quando ho scritto la canzone. Probabilmente, quello che voglio già ce l’ho o forse ancora no. Cambio la mia risposta: sono molto confuso, penso di non averci capito ancora molto. Proviamo a riproporre la domanda tra qualche mese. Sono dell’idea che superare determinate cose sia sbagliata: se supero qualcosa, non la guardo neanche più. Io direi “imparare a gestire qualcosa”: si deve imparare a convivere con una certa precarietà, con l’incertezza, lo squilibrio e l’insieme di dubbi che abbiamo. Ecco perché forse non voglio superare i casini: è giusto che rimangano lì. Non sono un fan della musica terapeutica: non perché non la reputi valida ma semplicemente perché non è stimolante per me.
“Parlo senza principio, mi basterebbe non parlare”, si ascolta in Chiacchiere. Perché?
È la metafora di tutta la mia vita: se mi rendo conto di un qualcosa che non va, non faccio molto per evitare tutte le conseguenze che poi ne derivano. C’è uno strano meccanismo psicologico che mi porta perennemente e costantemente a quel qualcosa. Bisognerebbe togliere quel pezzettino di algoritmo e potrebbe funzionare tutto meglio.
Cosa sono per te le Cinque del mattino, al centro dell’omonima canzone?
Le cinque del mattino per me sono il primo spiraglio di equilibrio, il momento in cui il post serata finisce nella tranquillità e nella pacatezza più assoluta. C’è un mix di sensazioni contrastanti: hai ancora addosso parte dello squilibrio delle ore precedenti e forse è quello che ti fa godere ancora di più la pacatezza. È il punto del percorso in cui inizi a intravedere qualcosa ma ancora non sai cosa stai vedendo. Cominci a pensare che non è tutto brutto, tutto buio e tutto scuro come pensavi prima: c’è qualcos’altro, vediamo che cos’è.
Da cosa nasce tutta quest’incertezza sul futuro?
Noi della Gen Z siamo nati in un’epoca non troppo felice. È un dato di fatto ma non deve necessariamente scoraggiare gli animi. Abbiamo molte più cose a cui pensare, rispetto alle generazioni precedenti. È vero che ogni generazione ha avuto le sue problematiche e incertezze ma noi abbiamo davanti crisi economiche, problemi di natura ambientale, pandemie, scontri politici e disequilibri internazionali dopo anni in cui la diplomazia aveva stabilito i punti cardine delle direzioni delle più grandi potenze mondiali. Tutto ciò non è confortevole e ha portato me così come tanti altri ad avere un marcato senso d’incertezza.
Come dicevo prima, basta imparare a conviverci e anche l’incertezza può trasformarsi in stimolo per qualcosa di interessante: può darci l’input per conoscerci anche meglio. Impegniamo il tempo che ci resta a capirci: non andiamo da nessuna parte se non stiamo bene con noi stessi.
Nella tua bio su Instagram c’è scritto “Canto quello che scrivo sul telefono”.
È un modo per voler alleggerire il carico. Un po’ come dire “tranquilli, sono solo i pensieri di un ragazzo X che si scrive le note sul telefono ed è emotivamente volubile”. Ho voluto rendere più morbido il mondo che esce dalle mie canzoni.
Parli nelle canzoni anche del momento in cui hai fatto piangere tua madre e preoccupare tuo padre. Che rapporto hai oggi con loro?
Stranamente bello. Con il tempo ho imparato a umanizzarli. Siamo soliti vedere i genitori come colonne, quasi come non umani o dei robot perfetti. Crescendo, ho imparato invece che non erano così irraggiungibili e distanti come credevo prima. A livello emotivo, oggi c’è uno scambio diverso, che migliora giorno dopo giorno: mia madre è il cuore mentre mio padre è la testa.