Intervistare Arianna Talamona è per chi ama lo sport un onore di non poco conto. Campionessa del mondo di nuoto paralimpico a Londra 2019, Arianna Talamona ha vinto una medaglia d’argento alle Paralimpiadi di Tokyo 2020 e ha come obiettivo quelle di Parigi 2024 per continuare a portare in alto i colori della nostra nazionale. Ma il talento agonistico di Arianna Talamona non è l’unico fattore che rende quest’intervista unica.
Laureata in Psicologia, Arianna Talamona è oggi anche una content creator che sui social non solo racconta la propria carriera agonistica come atleta paralimpica ma porta anche avanti l’attività di divulgatrice e attivista per i diritti delle persone con disabilità. Sport e vita, diversity and inclusion ed equality, sono gli argomenti dei suoi post, video e reel, gli stessi che l’hanno portata a essere selezionata da Meta come Creators of Tomorrow per fare dei suoi social il luogo perfetto in cui confrontarsi su benessere, inclusione e sfide di tutti i giorni.
Sfide che molti non conoscono, come ci dice la stessa Arianna Talamona, per ignoranza: non sanno. E spesso non si sa perché si ha paura di conoscere ciò che è altro da noi. Come capitava a quei ragazzi che durante gli anni delle medie non conoscevano e non comprendevano le esigenze e i bisogni di Arianna Talamona o quei dirigenti scolastici ma non solo loro che non si preoccupavano di come farle trascorrere le ore di educazione fisica. Le soluzioni che mettevano in atto erano forse le più vigliacche nel primo caso (l’esclusione e il bullismo) e le più comode nel secondo (che importava se Arianna Talamona rimaneva in un angolo a fissare il vuoto o gli altri?).
Ed è anche di questo che parliamo oggi: delle sfide e delle difficoltà che si possono incontrare lungo quel percorso che, per mancanza di empatia, non si ha voglia di indagare. E, non solo perché l’altro è una persona con una rara malattia generica come Arianna Talamona, ma anche perchéfa sempre più comodo mettere l’ego al centro del proprio universo di riferimento o la logica del branco.
Arianna Talamona non si nasconde dietro la positività tossica del “va tutto bene” o della “vita è bella”. Sì, la vita è bella ma sa anche porti di fronte a dilemmi e questioni più grandi di te, soprattutto quando cresci e ti relazioni con parole come “diverso”, imperativi come “non puoi” o stereotipi per cui “ma come fai a guidare?”.
Intervista esclusiva ad Arianna Talamona
Sui social promuovi attraverso il tuo progetto DE&I Work in progress argomenti legati alla diversity, equality e inclusion (de&i). Da dove nasce l’esigenza di farlo?
Oltre a essere un’atleta con tutto quello che ne deriva, sono anche una content creator. Ho iniziato a lavorare per conto di un’agenzia di comunicazione più o meno un anno e mezzo fa e mi sono resa conto, anche per via delle domande che spesso mi fanno, di quanto poco le persone sapessero in tema di de&i, per via della difficoltà a reperire le giuste informazioni. Ho dunque voluto condividere con gli altri ciò che io stessa ho sperimentato e sapevo creando una rubrica settimana.
Gli argomenti di cui tratti sono dunque frutto delle domande dirette che ti sei sentita porgere dalle persone che ti circondano?
Si. Le persone sono curiose e pongono delle domande. Di certo, non in maniera scientifica o tecnica ma a un livello molto più semplice. Credo che dipenda dalla loro volontà di imparare e per me è sempre molto bello riuscire a educare e informare attraverso quello che è modo più corretto.
La de&i negli ultimi anni è diventata un argomento molto discusso e sdoganato. Guardandoti al passato, avresti voluto anche tu qualcuno che ti spiegasse cosa significasse la diversità in maniera semplice?
Certo. Ma avrei voluto avere anche dei punti di riferimento: servivano veramente persone che mi comprendessero e che mi facessero capire che non al mondo non ero da sola, che c’erano tantissimi altri che come me affrontavano difficoltà simili. Da questa prospettiva, i social hanno davvero cambiato il mondo, dimostrando che possono anche essere usati in maniera intelligente dando a tutti la possibilità di poter raccontare le loro storie avvicinandoli agli altri.
Nel tuo caso hai dovuto familiarizzare con la parola diversity sin dall’infanzia.
La mia è stata un’esperienza un po’ particolare. A soffrire della mia stessa patologia, ereditaria, era mia madre e, dunque, sin da piccola sono stata esposta alla disabilità. Per me, è stato utile avere mia madre come punto di riferimento: era una persona più grande di me che aveva trovato i modi per adattarsi e superare gli ostacoli. Chiaramente, è crescendo che ho preso consapevolezza del fatto che esistono disabilità diverse con caratteristiche e difficoltà differenti.
La tua patologia, la paraparesi spastica ereditaria, si manifesta dai 2 ai 6 casi ogni 100 mila persone, con un’incidenza dunque molto bassa che la rende una malattia rara. Andando contro quella positività tossica che interessa spesso la narrazione della disabilità, ti sei mai chiesta “perché a me?”?
Sempre, soprattutto quand’ero più piccola. Non ne vedi i lati positivi e attraversi fasi come l’adolescenza in cui ti senti “diverso” quando l’unica cosa che vorresti è essere come gli altri, omologarti al gruppo. È un periodo che attraversiamo tutti, del resto, ma quando hai delle caratteristiche che, per forza di causa, ti distinguono non ne sei contento. È solo dopo, con la maturità, che comprendi che sono proprio quelle caratteristiche che ti rendono unico e che vanno coltivate e curate.
Il sentirsi “diversa” era una sensazione che ti nasceva da dentro o era lo sguardo degli altri a generartela?
Non nascondiamoci: è lo sguardo degli altri che lo fa sentire. Ci sono certe dinamiche dell’infanzia che non puoi decidere e che fai fatica a gestire, come banalmente il giocare in cortile a scuola. Ti piacerebbe farlo ma non sempre gli altri bambini sono disposti a trovare la quadra e ad adattarsi alle tue esigenze o ai tuoi tempi.
In più, la mia generazione non ha mai trovato gli insegnanti molto preparati o comunque volenterosi nel voler includere. Ricordo che, ad esempio, per tutti i cinque anni del liceo, non ho mai praticato educazione fisica: stavo seduta e guardavo gli alberi, una sofferenza non da poco. Odiavo quelle ore e ancora oggi non sopporto il dover rimanere a guardare gli altri impegnati a far qualcosa senza pensare di includermi.
Tocchiamo un tasto particolarmente dolente e di cui poco si parla. La scuola, l’istituzione che più di ogni altra dovrebbe pensare all’inclusione, mette in atto meccanismi di esclusione con materia come educazione fisica non preparando a dovere i docenti.
Ma non solo quelli di educazione fisica. Si dovrebbe pensare anche a continui aggiornamenti dei professori di sostegno. Quando studiavo Psicologia all’università, una persona ha voluto conoscermi perché aveva bisogno di sentire e di capire proprio perché gli insegnanti non erano adeguatamente formati a gestire ogni tipo di esigenza.
Nonostante le non ore di educazione fisica, hai trovato la forza nel nuoto, che con un’onda (perdona la metafora) ti ha travolto l’esistenza.
In realtà, ho cominciato a nuotare da piccolissima, quando avevo cinque anni, ma non a livello agonistico. Ho iniziato perché ero una bambina molto timida, insicura e indecisa, che mai e poi mai si sarebbe messa in luce partecipando alle gare. Per molti anni, fino ai 13 più o meno, ho rifiutato l’idea della competizione.
Ricordi le sensazioni che ti dava l’acqua le prime volte?
A parte quella di libertà, che può risultare banale, l’acqua mi permetteva di stare in isolamento. Erano per me anni difficili e il nuoto era un rifugio: c’eravamo solo io e le mie cosine. È sempre stata il luogo la dimensione con cui confrontarmi con me stessa e crescere: entrando in acqua, non sentivo più niente e nessuno.
Eri una bambina insicura che anche da adulta si è portata dietro delle insicurezze.
I fantasmi del passato sono difficili da abbandonare. Per quanto si possa accettare la disabilità e ritenersi soddisfatti delle cose fatte, ci sono giornate che comunque vanno per il verso sbagliato, anche a causa del mondo esterno che ti condiziona. Caratterialmente, tendo a essere leggermente ansiosa: mi piace avere il controllo della situazione e, quando non riesco ad averla, cresce in me la preoccupazione. Ci sto facendo i conti divenendo adulta ma penso che sia normale.
A livello agonistico, cerco di scaricarla prima della gara, rischierei altrimenti che non vada tanto bene. A livello professionale, invece, faccio un po’ più di fatica: è un periodo incerto questo qui, mi sono aperte tante possibilità e sto facendo tante di quelle cosa che temo di non riuscire a gestirle o di non restituire il massimo. Però è comunque un periodo positivo: mi piace avere tante possibilità davanti a me.
Tante possibilità come tante sono le passioni che ti accompagnano, tra cui il ballo.
Mi piace ballare, anche se non sono molto brava. Non sono molto coordinata ma ci provo lo stesso. Mi serve anche per mostrare come ballo e disabilità non siano due pianeti che non possono convivere. Ci sono ovviamente cose che non puoi fare ma tante altre si possono fare adattandole. Uno degli aspetti più belli di mio marito è sempre stato il fatto di non farsi mai nessun tipo di problemi nell’assecondarmi anche nei desideri più semplici, come può essere ballare, ed è una delle ragioni per cui lo amo. Balliamo insieme, anche in carrozzina.
E, poi, non lo racconto spesso: mi piace cantare. Ho sempre amato la musica, mi ha sempre dato molta gioia. Sarà forse perché da adolescente non sono mai andata in una discoteca sia per le difficoltà che incontravo sia per gli impegni che avevo con gli allenamenti. Ma ho recuperato dopo più che volentieri!
La vita sociale da adolescente con disabilità non è quasi mai una passeggiata. Com’era la tua quand’eri ragazzina?
È stata un po’ particolare e difficile, soprattutto alle medie. Non avevo ancora cominciato a nuotare, vivevo problemi di bullismo e facevo fatica ad avere effettivamente degli amici. Al liceo è andata invece diversamente: avevo obiettivi molto più importanti da concretizzare come le gare a livello internazionale. Ed è in acqua che ho cominciato a coltivare le mie amicizie: tutti gli amici che avevo e che sono nuotatori. Ho anche conosciuto Roby, mio marito, in acqua perché anche lui nuotava.
Qualcuno di coloro che ti hanno bullizzata hanno poi nel tempo chiesto scusa?
No, non è capitato. Credo che chi un tempo non avesse la sensibilità di non capire non ce l’abbia nemmeno oggi. Mi è capitato di recente di tornare a casa a Varese per un weekend dai miei genitori. Mi trovavo in giro in centro quando ho incontrato un’ex compagna di classe. In passato, non mi aveva mai fatto nulla si specifico ma la sua prima preoccupazione è stata chiedermi se fossi da sola stupendosi che stessi anche guidando. Mi son detta “okay, va bene” ma avrei voluto rispondere “si, son da sola, guido e non ho bisogno di essere accompagnata: possiamo fare tutto quello che fai tu, non ci sono limiti”.
Cosa hai provato a Londra nel 2019 quando hai realizzato di essere diventata campionessa mondiale di nuoto?
È stata un’emozione incredibile… ma non me ne sono resa subito conto! È stata incredibile perché ho vinto nello stesso giorno due gare, di cui una (i 50 m farfalla) dal risultato non proprio prevedibile. Con il mio allenatore l’abbiamo chiamato “l’Arianna Day” perché è stata veramente la mia giornata: non credo di avere tantissimo talento ma sono una che ha lavorato sodo per raggiungere quei risultati.
Ti chiami Arianna, come uno dei personaggi più noti della mitologia greca. Hai trovato il tuo filo?
Direi di sì, anche se ogni tanto va in direzioni diverse o si accorcia. Credo però di riuscire sempre a trovare il bandolo della matassa e ne sono contenta.
Il prossimo obiettivo saranno le Paralimpiadi di Parigi 2024?
Eh, sì. Mi sono presa un po’ di tempo per far altro e per studiare: dopo dieci anni a praticare solo nuoto, avevo bisogno di respirare. Ma ora risento il richiamo: l’obiettivo è Parigi, vediamo quello che riesco a fare.
Sui tuoi profili social, ti vediamo spesso con Ginny, la tua cagnolina. Cosa rappresenta per te?
È il primo cane che è veramente mio e devo dire che ha anche un carattere particolare: non è molto “coccolosa” quando io vorrei invece stringerla a me. I “canoni” che ho avuto in passato quando stavo in famiglia erano molto coccolosi e, di conseguenza, sto ora imparando ad amarla a modo suo ma è incredibile.
C’è un forte pregiudizio che porta a pensare che le persone con disabilità prendano dei cani come sostituti dei figli…
È un tema su cui si apre una parentesi grandissima. Molto spesso alle persone con disabilità non viene riconosciuta la capacità di poter essere genitori, soprattutto alle mamme per via della fatica che comporta. Persino alcuni studi che ho letto dicono che le persone con disabilità non siano in grado di prendersi cura dei figli ma si tratta di uno stigma che va sradicato.
Fortunatamente, ci sono tante creator mamme che dimostrano che così non è e, quindi, speriamo che tale percezione cambi. Il divenire madre non è un obiettivo per me prossimo: all’orizzonte c’è Parigi… e poi c’è ancora tempo, anche se questa società a volte ti mette addosso un po’ di pressione.