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Arisa: “Non vado via: sto bene nel far tutto nel presente” – Intervista esclusiva

arisa non vado via
Non vado via è il singolo che segna il ritorno in musica di Arisa, il primo passo di un nuovo orizzonte a cui punta una delle voci più intense e poliedriche del panorama musicale (e non solo) italiano. Mai scontata e prevedibile, Arisa si racconta in esclusiva aTheWom.it.

Arisa è tornata in radio e in tutti gli store digitali con il nuovo singolo, Non vado via. Brano profondo e avvolgente dalle sonorità che evocano gli anni Novanta, Arisa fa una scelta quasi controcorrente proponendo una ballad in un periodo dell’anno, come l’arrivo dell’estate, solitamente segnato da ritmi più diversi. Ma controcorrente Arisa lo è sempre stata mantenendo come unico faro della sua rotta artistica e del suo cammino il desiderio di non tradire se stessa, i suoi sentimenti e quel pubblico che ha imparato ad amare il suo animo nobile, pulito e sincero. Un animo, quello di Arisa, voltato alla gentilezza e al rispetto.

Come è nata Non vado via ce lo spiega Arisa e non serve aggiungere molto alle sue parole. Sono chiare ed efficaci. E, cosa non meno importante, fanno partire un’intervista esclusiva in cui l’artista racconta il suo presente, contrassegnato dalla voglia di staccarsi da un passato che non c’è più e da un futuro che ancora non è ma anche dal senso di sollievo e dal desiderio di farcela.

Gentilezza, dunque, ma anche libertà, autodeterminazione, solitudine, perdono e pregiudizio diventano fulcro della nostra chiacchierata con Arisa. Una chiacchierata di cui nessuna frase è in grado di restituire la serenità che traspare dalla voce pacata della donna che sa quanto peso abbiano avuto le sue sensazioni di bambina legate alla musica, quell’onda che poteva cavalcare per sognare un mondo diverso.

Ed è ancora un mondo diverso quello che Arisa continua a sognare, un mondo in cui non si è più portafogli ambulanti, in cui non si seguono le mode e in cui si impara ad apprezzare le unicità di ognuno. E il mondo di Arisa è anche il nostro: tra false illusioni e dure realtà, abbiamo davanti l’orizzonte verso cui vogliamo dirigersi. L’importante è sempre fare il primo passo, rimettersi in discussione e non avere la presunzione di detenere la verità assoluta.

La cover di Non vado via di Arisa.
La cover di Non vado via di Arisa.

Intervista esclusiva ad Arisa

Come nasce Non vado via?

Nasce dall’amicizia che mi lega a Giuseppe D’Albenzio, un produttore molto bravo che ogni tanto, quando si sente totalmente ispirato, scrive cose un po’ più romantiche rispetto a quelle che fa di solito. Abbiamo condiviso questa canzone, l’abbiamo sviluppata insieme, l’abbiamo cantata e due anni fa l’abbiamo presentata al Festival di Sanremo… però, la canzone non è piaciuta ai selezionatori. L’abbiamo allora tenuta nel cassetto fino a quando non abbiamo deciso di tirarla fuori.

Riascoltandola nel tempo, non mi sono mai spiegata perché riusciva ogni volta a farmi emozionare e piangere: è un brano che esprime grande voglia di resistere, nonostante le avversità della vita. Nonostante a volte ci sentiamo quasi costretti dagli eventi a gettare la spugna, c’è una vocina dentro che ci dice di restare e continuare su quella strada perché prima o poi saremo premiati. Ed è questo il significato profondo di Non vado via.

Vale la pena rischiare, ti perdono il tuo gioco d’istinto è un verso della canzone che sottolinea quanto hai appena espresso. Qualunque sia questo gioco d’istinto (un tradimento, un errore, una mancanza di rispetto), si potrebbe razionalmente decidere di restare e di non buttare all’aria tutto quello che si è costruito.  

È più attuale che mai. Dopo la pandemia, le persone hanno la tendenza a parlare come se fossero dei sopravvissuti che devono necessariamente vivere tutti i giorni della loro vita perché la vita è una sola. Quindi, non si ha tempo per la costruzione e per concedere una seconda possibilità a un rapporto, a un lavoro, a tutto.

Spesso, osservo i miei genitori: come tutte le coppie, hanno affrontato e affrontano dei problemi ma non li vedo mai pentiti del fatto che hanno resistito insieme una vita, che sono cresciuti insieme e che insieme hanno costruito quello che hanno costruito. È troppo facile voltare pagina e cercare di meglio altrove…

Faccio sempre l’esempio dei telefoni cellulari: un tempo si riparavano, oggi si buttano e si sostituiscono con estrema facilità. Ma non sempre tutto ciò che è nuovo è migliore, tanto che spesso facciamo dei giri immensi e ritorniamo indietro.

Siamo abbastanza fortunati da rendercene conto perché in realtà la società non ci dà tale possibilità. È proprio un piano sociale quello di spingerci all’insoddisfazione, all’acquisto, all’accumulo. Abbiamo sempre bisogno di qualcosa: abbiamo sempre le case piene di cose che dopo due settimane dall’acquisto non ci interessano più e continuiamo a lavorare anche di più per permetterci ciò che non abbiamo, trascurando i rapporti e il tempo che abbiamo a disposizione per fare altro rispetto a lavorare. È qualcosa che non va bene: siamo schiavi. Pensiamo di essere liberi ma in realtà siamo schiavi.

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Non vado via si apre con un verso molto bello: Inutile guardare indietro a quando il cielo era tinto di nero. Quanta forza ci vuole per non guardare indietro?

Ci vuole forza ma ci vuole anche intelligenza: il passato non esiste più così come non esiste il futuro, esistono solo il presente e le azioni che facciamo nel presente per far sì che la nostra vita sia migliore. Occorre coltivare le proprie passioni nel presente e far tutto nel presente.

Quando ho imparato a cantare, non l’ho fatto perché pensavo che un giorno sarei diventata famosa: vivevo in Basilicata e anche solo sognarlo sarebbe stato quasi un peccato. Ma ho imparato a cantare perché volevo farlo, era la mia passione. Coltivare le passioni nel presente sicuramente ci avvicinerà alla condizione di fare della nostra passione un lavoro nel futuro ma non si può vivere solo nel futuro: il futuro è incerto.

Per arrivare alla consapevolezza di quanto importante sia vivere il presente hai lavorato tantissimo anche su te stessa. Quanta autodeterminazione c’è voluta per far sì che il presente diventasse la priorità?

C’è voluta una coscienza di grande sofferenza. Mi sono resa conto realmente di cosa mi facesse soffrire e ho deciso di non rincorrere più ciò che mi faceva male. Serve una grande osservazione di se stessi ma molto elementare: se faccio questo, sto male; se faccio quest’altro, sto bene. Perfetto, allora faccio quest’altro: non cercando una zona di comfort a tutti i costi ma cercando di “selezionare” tutto quello che è affine a ciò che mi fa star bene, facendo anche delle nuove esperienze nell’ambito di ciò che mi fa star bene.

Ho quarant’anni ormai, eh… Non sono piccola ma non sono nemmeno grandissima, però non posso sprecare il mio tempo nel rincorrere delle opzioni: devo costruire su quello che ho.

E è da questa voglia di costruire quello che hai che nasce la consapevolezza di Non vado via, singolo che fa da apripista al lavoro che verrà. La canzone ci riporta, per tua precisa volontà, agli anni Novanta. Perché proprio quegli anni?

Perché gli anni Novanta sono stati quelli in cui mi sono innamorata della musica e in cui ho capito che è l’unica cosa che mi salvava da una realtà che era un po’ troppo rigida per il mio essere sognatrice. Sono cresciuta in Basilicata, come dicevo anche prima: grandi spazi, grande natura e grande condivisione con gli animali, ma all’interno delle case c’era una certa rigidità rispetto a ciò che si doveva fare e a quello he sbagliavi o non facevi bene. L’unico modo per isolarmi e riuscire a sviluppare la mia immaginazione era salire a cavallo delle melodie che ascoltavo, di quei suoni così dolci e di di quei testi che erano veramente un abbraccio.

Michael Jackson che cantava Heal the World, Mariah Carey che intonava Hero (“c’è un eroe nel tuo cuore, devi credere in te stesso”) e le colonne sonore dei film della Disney sottintendevano una cultura “studiata” per accogliere le persone e non per spaventarle. Adesso, invece, vedo in giro delle cose spaventose che, secondo me, non fanno altro che spingerci a trincerarci nella nostra solitudine mentre la musica degli anni Novanta (ma anche di prima, dagli anni Settanta in poi) era fatta di grandi messaggi e non di proteste fine a se stesse o di spettacolarizzazione del consumo. Ecco, oggi vedo tanta spettacolarizzazione del consumo: dobbiamo consumare e non va bene.

Le canzoni degli anni Novanta avevano di base un clima rassicurante ma erano anche gentili. Sulla gentilezza, hai incentrato anche un tuo bellissimo monologo a Le Iene. Che rapporto hai oggi con chi non è gentile?

Dipende dalle situazioni. Ci sono volte in cui sono costretta a frequentare persone che non sono gentili, magari per lavoro. Però, di base, nella mia vita personale cerco di non frequentare persone poco gentili perché mi dà proprio fastidio la non gentilezza. E, comunque, anche quando mi capita sul lavoro di incontrare persone che non lo sono, non condivido con loro la mia sfera personale ma mi attengo a quella professionale e basta.

Non è un po’ una forma di difesa?

È una forma di difesa ma è anche un modo, senza voler essere presuntuosa nel voler insegnare qualcosa a qualcuno, per ribadire che sono libera: nonostante tu mi paghi, sono comunque libera di non accettare le tue regole.

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Libertà è una bella parola. Nel tuo percorso, hai dimostrato di essere una donna libera. Quali costi ti ha comportato?

Il prezzo più alto che pago per la mia libertà è la solitudine. Sono una persona solitaria che non sopporta il peso delle aspettative e che non sopporta che la gente ti parli e ti prenda in giro con la presunzione che tu non capisca. E, quindi, molte volte mi trovo da sola…

Mi trovo da sola a fare la mia musica, per esempio. Ogni tanto c’è il mio ufficio stampa che mi chiede, nei casi di interviste, se c’è qualcuno che mi accompagna o se ho un assistente. No, non c’è nessuno e non ho l’assistente: le borse me le porto da sola. Non mi voglio dare l’opportunità di dire a qualcuno che non ha fatto bene qualcosa, piuttosto la faccio io: non mi voglio imbruttire. Ed è questa la ragione per cui nei rapporti di lavoro faccio riferimento solo alle figure di cui ho strettamente bisogno: l’ufficio stampa, l’ufficio radio, l’editore… Il mio migliore amico è un amico vero, che poi è Giuseppe D’Albenzio, il produttore che ha scritto Non vado via: nonostante possano esserci dei battibecchi, siamo sempre l’uno l’ancora dell’altro. Credo nei rapporti veri, che abbiano davvero una valenza e un significato: preferisco costruire su fondamenta salde.

La costruzione di fondamenta salde ti hanno portata anche a fondare qualche anno fa una tua etichetta. Una scelta precisa per liberarsi da vincoli che ti stavano stretti?

Ho molte difficoltà di comunicazione. Quando nei rapporti personali c’è un contraddittorio, cerco di far capire gentilmente quali sono le mie ragioni. Ma le mie ragioni espresse gentilmente non vengono capite o recepite. Devo necessariamente arrabbiare, fare dei gesti “eclatanti” o smettere di frequentare quelle persone.

Vale anche in ambito lavorativo. Al mio ex management continuavo a insistere da mesi sul desiderio di voler pubblicare Non vado via ma mi si rispondeva sempre che era un pezzo “vecchio” e che non andava bene. Mi si proponeva sempre qualcos’altro rispetto a quello che volevo fare io. Ho cercato di dire gentilmente migliaia di volte quale fosse la mia volontà: non mi è stata accordata e gentilmente ho troncato i rapporti.

Eppure, con una battuta, qualcosa di “pezzi” che funzionano la capisci. Avevi tentato di presentare a Sanremo una canzone che, rifiutata, è diventata il singolo di lancio dell’album di un cantautore che ha fatto il giro del mondo…

La gente, però, pensa sempre di capirne più di te. Conosco il mio pubblico, la mia efficacia in certe cose anziché in altre e conosco il mio cuore. E so che, quando ha la necessità di tirar fuori qualcosa, deve farlo: se c’è qualcosa che mi emoziona più di qualcos’altro, probabilmente la devo fare. Ma la gente ha la tendenza a mettersi sempre al posto degli altri in tutto: gli addetti ai lavori, anziché ipotizzare strategie che non conoscono, dovrebbero specializzarsi in quello che è richiesto loro in quanto figure professionali, ovvero cercare le milioni di possibilità che permettano a ogni artista di essere valorizzato a modo suo. Non possono usare un protocollo uguale per tutti: non si inseguono le mode a tutti i costi.

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Nel tuo percorso di artista hai dimostrato di non seguire alcuna moda e di essere unica e uguale solo a te stessa. Cantante, attrice, giudice ma anche scrittrice, con due libri all’attivo, Il paradiso non è un granché e Tu eri tutto per me, pubblicati entrambi da Mondadori. Cosa ti dà la scrittura di un libro rispetto alla scrittura di una canzone?

La scrittura di un libro, per assurdo, è molto più facile. Anche perché, quando scriviamo un libro, siamo molto abituati, almeno così è stato nel mio caso: è difficile che venga detto ma dietro la scrittura di un libro ci sono tante persone. Sei meno legato ai vincoli: sei libero di fare periodi di tre righe o di mettere la virgola dopo dieci parole. La scrittura di una canzone deve invece rispettare la musicalità, rispettare la rima e avere dei termini accattivanti. Un libro è come entrare nella vita di qualcun altro: per quanto debba avere un linguaggio seducente, può permettersi di essere un po’ più largo.

Che effetto ti fa sapere che molta gente associa un ricordo, felice o meno felice, alla tua voce o a una tua canzone?

Per me è un grandissimo onore e mi ripaga di tutta la condivisione che poi nella vita personale non ho. So comunque di avere tantissime persone nella mia vita, anche se non ho un rapporto diretto con loro, e so di essere nelle loro vite: è una sensazione bellissima. Mi sento a casa quando cammino per strada: è come se avessi tanti amici sparsi ovunque. Quando qualcuno mi ferma per strada, dopo cinque secondi il rapporto tra cantante e fan si annulla perché capita anche che si vada a fare una passeggiata insieme o si beva qualcosa. È come se fossi cittadina del mondo e avessi una famiglia gigante: è incredibile.

Si tende a pensare che l’artista sia sempre inarrivabile e raggiungibile. Tendiamo tutti a metterlo su un piedistallo e a considerarlo una sorta di divinità. Fa bene allo spirito sapere che esiste gente come te che da artista ha un rapporto così sincero con i propri fan. A proposito di spirito, come sta Rosalba e non Arisa oggi?

Sto bene, sto veramente bene. Ho fatto anche molta analisi e quasi sempre i dottori hanno cercato di propinarmi psicofarmaci o robe del genere. Ho rifiutato e sono veramente contenta della mia resistenza: quella roba lì è una maniera per amalgamarci tutti a un sentire comune. Io invece mi accetto e cerco di prendermi cura “senza aiuti” di quelle che sono tutte le mie stranezze. Stranezze, secondo gli altri, perché in realtà credo di agire in maniera molto elementare, come dicevo prima: se non mi trovo bene, non ci sto dentro e viceversa. È il modo in cui vivo la mia vita e, sinceramente, mi aiuta tanto a stare bene il concedermi la possibilità di parlare apertamente con le persone e di dire loro ciò che non mi piace.

Non c’è dietro una questione di simpatia o di antipatia: non c’è niente se non quello che mi sono costruita, la trasparenza più assoluta che mi aiuta a rispondere ai miei bisogni. Nient’altro che egoismo, chiamatelo come volete, ma come si dice nel libro Io cammino da sola “quando cammino da sola, sono molto più propensa a vivere bene i miei rapporti con gli altri: sono molto più gentile e molto più rilassata”. Ed è vero: sono una persona migliore quando cammino da sola.

Arisa con Raimondo Todaro nella settima puntata di Amici.
Arisa con Raimondo Todaro nella settima puntata di Amici.

La tua esperienza ad Amici si avvia per quest’anno alla conclusione. Non ti chiedo se rimarrai nella scuola o meno, ci sarà tempo per capirlo o per parlarne. Ma una nota di colore lasciamela: com’è stato ritrovarsi come giudice Cristiano Malgioglio, tuo vicino di casa a Milano?

Cristiano è Cristiano. Vive la sua vita con grande leggerezza ma ha un’anima molto profonda dentro di sé: la noti nei suoi occhi quando sbirci dietro agli occhialoni che porta. È un uomo molto attaccato alla vita e spero davvero che possa vivere più a lungo possibile e che possa sempre vivere tra i giovani ed essere sempre amato e stuzzicato giocosamente dalle persone che ha intorno. Lo vorrei vedere sempre allegro.

Avere gente intorno significa anche aver modo di collaborare con loro. Nel tuo percorso, hai collaborato con tanti artisti e tra questi ci sono anche diverse donne (ricordo un bel duetto con Bianca Atzei). Qual è il tuo rapporto con le altre artiste?

Le stimo tantissimo: sono fan di ognuna di loro, basta vedere i miei social per capirlo. Non voglio fare della retorica ma essere donna in questo mondo non è facile: è sempre molto difficile farsi rispettare e farsi capire. Sono ad esempio felicissima quando vedo che una mia collega che spacca per contenuti o sentimenti: significa che è riuscita a non farsi fagocitare da cose che non sono lei. Gioisco. È stato veramente triste non vedere nessuna donna tra le prime cinque posizioni all’ultimo festival di Sanremo.

Ed è triste notare come tutti quanti dicano che le donne non vendono: anziché dare certi dati per scontati come se fossero verità assolute, bisognerebbe capire perché le donne non riescono a empatizzare con le altre donne. Occorrerebbe fare un altro tipo di comunicazione e sottolineare come in realtà le donne non siano rivali ma sorelle. Hanno sempre la tendenza a metterci una contro l’altra: è un decadimento che è frutto di una cattiva organizzazione della comunicazione.

Ci vorrebbe qualcuno che, al di sopra di tutto, possa dirigere tutti i livelli per far sì che tutto quello che viene fatto per dividerci e renderci degli ottimi acquirenti si trasformi in qualcosa per unirci, salvaguardare il pianeta e diventare un po’ più minimalisti rispetto alla fame di acquisto che abbiamo.

Ritornando al testo di Non vado via, sei capace di perdonare?

Il perdono è come la rimarginazione di una ferita. Dipende da quanto la stuzzichi: se torni sempre a riaprirla, difficilmente si rimargina. Il perdono è qualcosa che presuppone un gioco di entrambe le parti: se ti perdono e non sbagli più, ha un senso… viceversa, se continui a sbagliare ancora e ancora, non riesco a perdonare.

E tu hai più perdonato o ti sei fatta più perdonare?

Non lo so. Forse nessuna delle due.

Sei una donna a cui piace giocare anche con la propria immagine sentendoti libera di mostrarti com’eri in quel momento. Ti hanno ferita i commenti negativi che arrivavano e che spesso oltrepassavano la linea del personale?

Non ho nessuna reazione: non mi interessano. Spesso capita che mi ritrovi a far da modella per degli artisti anche emergenti perché ne condivido il pensiero o l’arte. A me piacciono quelle immagini in cui non ci sono io dentro ma una specie di modella. È una cosa molto più ingenua rispetto a quello che vogliono vederci gli altri.

Spesso faccio anche delle foto per espandere anche la concezione che determinati brand possono avere di me, è lavoro e mi si possono aprire anche collaborazioni con marchi che inizialmente non sono interessati a me perché pensano che non sia prestante fisicamente. È un modo per far vedere che possono lavorare anche con me se vogliono. Non è qualcosa per cui mi monto la testa: non me ne frega niente. Faccio tutto con molta meno malizia di quella che credono gli altri.

E poi sono una persona: a volte mi va di farmi vedere in una maniera diversa dal solito, come penso che capiti a tutte le donne e a tutti gli uomini, con un po’ più di leggerezza. L’abito non fa il monaco ma, purtroppo, c’è ancora molto pregiudizio nei confronti di chi usa il proprio corpo per farsi “notare”. Non è detto che chi lo faccia valga meno di chi è vestito dalla testa ai piedi. Pur denudandomi, io rimango sempre io: la mia voce è sempre la stessa e i miei sentimenti per il mio pubblico non cambiano. Il mio valore non è dato da quegli scatti: un corpo è solo un corpo. E se smettessimo di farci tutte queste paranoie, potremmo pensare ad altro e stare più tranquilli.

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