Scrivere canzoni che racchiudono i propri vent’anni è quello che fa Asteria per raccontare con grande forza emotiva e capacità narrativa le incertezze, gli ostacoli e le contraddizioni della sua generazione. Giovane promessa dell’urban pop italiano, Asteria è originaria di Bergamo e ha appena pubblicato il suo nuovo singolo, Petardi, disponibile su tutte le piattaforme digitali dallo scorso 13 ottobre per Double Trouble Club/Island Records/Universal Music Italia.
Dopo un tour estivo che l’ha vista tra i protagonisti di eventi live come Radio zeta Future Hits e Tim Summer Hits, in Petardi, Asteria racconta una storia d'amore rara “come una luna arancione” che la fa sentire come in una bolla, come se fossero da sole per strada, quando tempo e luogo si perdono. Petardi è uno scoppio nel petto, un amore che non ha la pretesa di durare per sempre, ma i cui ricordi sono talmente forti da durare per sempre. È la storia di due persone che vivono di istanti e di momento assurdi, di sguardi che dicono più di mille parole e dell'impulsività che un'avventura richiede.
Con i suoi versi, perfettamente adagiati sul beat di Alex Sander, Asteria dà voce a una generazione, cantando le emozioni che solo l'amore a vent'anni sa dare. O affidandole ad altri, come nel caso di Lontano da qui, il suo ultimo brano da autrice che fa parte del nuovo Clubtape di Elodie.
Intervista esclusiva ad Asteria
Come nasce Petardi?
Petardi parla di una storia d’amore che nasce come leggerissima ma che poi lascia segni nel nostro cuore, nella nostra testa e nel nostro immaginario. Come lo scoppio di un petardo che dura solo un istante ma è in grado di colpire tutti i nostri sensi, con ricordi che possono rimanere impressi per tutta la vita.
Immagino che la canzone nasca da qualche scoppio di petardo che ti porti dietro…
Quel petardo è alla fine la rappresentazione di tutte le relazioni che io vivo… faccio molta fatica ad aprirmi agli altri ma nel momento in cui avviene è solo perché quella persona mi ispira fiducia e mi dà a livello emotivo qualcosa che non ho trovato in altri. Al di là dell’amore, ogni persona a cui apro le porte della mia vita in qualche modo mi rimane dentro. Di ognuno conservo qualcosa: amo fuggire dalla realtà restando intrappolata nei ricordi vissuti con le persone che hanno lasciato un segno.
Perché fatichi ad aprirti agli altri?
Me lo sono chiesto anch’io e sto cercando la risposta con la terapia psicologica. Fondamentalmente, credo che la causa risieda un po’ nel rapporto che avevo con i miei genitori da bambina. Oggi abbiamo un rapporto bellissimo ma, come tutti i genitori, anche loro hanno commesso degli errori. Ma la colpa è anche di tutte quelle varie situazioni che nel tempo mi hanno fatto avere paure delle variabili esterne che non potevo controllare.
I tuoi genitori lo sanno o saranno sorpresi dal leggere la risposta?
Fortunatamente, ne parliamo spesso.
Da dove deriva, invece, Asteria, il nome che hai scelto per il tuo percorso artistico?
In un primo momento, avevo deciso di non scegliere un nome d’arte. Ma, googlando il mio nome (Anita Ferrari), ho pensato che fosse meglio ricorrere a uno pseudonimo, pur non avendo idea da che cosa partire o cosa potesse rappresentarmi al meglio. È stato cercando banalmente tra le divinità e i loro nomi importanti che si tramandano di secoli in secoli che ho trovato Asteria. Sin da subito, mi sono innamorata della mitologia che si portava dietro: si è trasformata in quaglia e, per sfuggire a Zeus sotto le sembianze di un’aquila, si è gettata nel mare intorno all’isola di Ortigia, dove ha messo al mondo i figli Apollo e Artemide. Al momento della loro nascita, si è sprigionata un’enorme luce…
Lo sprigionarsi della luce è qualcosa che mi ha particolarmente colpita. Nei miei propositi, Asteria dovrebbe essere in qualche modo colei che porta luce nella notte, nel buio, e metaforicamente nei momenti difficili. Un po’ così come la musica ha fatto con me stessa: mi ha sempre aiutato a venir fuori dai periodi di difficoltà.
Si nasconde in ciò il desiderio di far da specchio alle ansie della tua generazione. Ti è mancato mentre crescevi un modello musicale su cui fare affidamento o in cui cercare risposte alle tue problematiche?
No, non mi è mai mancato. Ho sempre ascoltato tanta musica e di tanti generi differenti. Anche talvolta senza fare caso al testo ma mi concentravo sulla musica: era quella che mi aiutava in quel momento a esternare rabbia o a sublimare qualcosa che sarebbe potuto implodere o esplodere in maniera diversa. Dall’altro lato, invece, mi viene ad esempio in mente Mezzosangue, i cui testi hanno veramente dato spazio ai miei pensieri: non so neanche bene spiegare perché ma avevo la sensazione che parlassero in qualche modo di me.
Sei cantautrice ma anche autrice. Uno dei brani scritti da te, Lontano da qui, è contenuto all’interno del clubtape di Elodie. Qual è l’esigenza che ti spinge ad affidare a qualcun altro una delle tue creature?
Mi trovo all’inizio della mia carriera e qualsiasi cosa venga scelta o interpretata da altri dà a me modo di sentire come suona la mia musica raccontata da altre persone. Elodie è diversa da me quanto basta e, quindi, che sia lei a interpretare una mia canzone mi aiuta a capire come la mia scrittura possa applicarsi anche ad altre esigenze. Risponde al mio desiderio di rendere la musica universale, facendola arrivare a tutti. E chi meglio di Elodie per farlo? Ho sentito che mi potevo fidare di lei: avrebbe dato al pezzo la sua dimensione facendo sì che il mio messaggio fosse il più possibile condiviso.
Non parlo di meri fini commerciali, quelli non mi interessano: per me, il fine ultimo della musica è la sua condivisione. I numeri non sono mai stati il mio obiettivo primario: altrimenti rischierei di scrivere sempre la stessa identica canzone.
Elodie è diversa da te. Ma chi è Anita?
È complicato trovare una definizione. Anita è una ragazza molto controversa: le persone che mi conoscono nel privato dicono che bisogna leggermi nel pensiero per capirmi. Non lascio trasparire molto di me stessa, neanche a me stessa, ma affido da sempre alla musica il compito di raccontarmi e di farmi da guida. Faccio molta fatica a conoscermi e, di conseguenza, a farmi conoscere dagli altri. Mi ritengo un po’ un camaleonte che prende le sembianze dell’ambiente in cui è, si trova. Riesco anche a osservare abbastanza bene: mi piace più essere spettatrice che protagonista.
Sei di Bergamo, la città forse più colpita dal CoVid soprattutto durante le prime fasi della pandemia. Cosa ha comportato per una ragazza di vent’anni ritrovarsi ad affrontare qualcosa che è arrivato all’improvviso e ha deviato le esistenze di tutti?
È complicatissimo anche solo raccontarlo. Nessuno di noi era preparato e nessuno sapeva quanto sarebbe durata quell’emergenza. In un primo momento non avevo realizzato neanche bene l’entità del problema ed ero forse anche contenta di non andare all’università e di seguire le lezioni da casa. Ma, dopo la prima fase di confusione, ho cominciato a notare come si stavano complicando le relazioni interpersonali: mi mancava l’interazione con gli altri e per una che è sempre in giro era difficile non uscir di casa per andare semplicemente a prendere un caffè al bar o per cercare stimoli e ispirazione.
Pian piano, tutto ciò è come se mi avesse alienato dal mondo. La pandemia è durata tanto e ha contribuito ad accrescere la mia sensazione di insicurezza, tanto che dopo è stato arduo rientrare nella socialità. Ho sofferto per un periodo di ansia sociale: faticavo a interagire con le persone e a dimenticare la paura che la pandemia ha portato con sé, la preoccupazione per i nonni e le persone anziane in generale. Il sentire un’ambulanza ogni due minuti è stato uno stress mentale non da poco e ancora oggi sentire parlare i negazionisti o quelli che sostengono che le immagini che arrivavano da Bergamo erano costruite ad arte mi provoca un senso di disagio.
Cosa studiavi all’università?
Studiavo psicologia e contemporaneamente facevo musica. Ma io ho cominciato a suonare la chitarra in quarta elementare in circostanze curiose. Ho una sorella più grande di me che ha sempre avuto strumenti in casa. Siamo entrambe molto creative ma, quando lei si è data al disegno, gli strumenti sono in qualche modo passati a me. Ogni volta che aprivo l’armadio in cui erano custoditi per prendere una giacca la chitarra mi cadeva addosso, letteralmente… era arrivato il momento di prendere lezioni seriamente!
Ho cominciato con la chitarra elettrica, per incanalare tutte le mie energie, all’epoca ascoltavo i Metallica. Non ho mai amato la scuola perché facevo fatica a stare attenta e, quindi, la chitarra pian piano si è trasformata nell’unico strumento grazie a cui mi sentivo di valere qualcosa. Ricordo che a scuola non brillavo: mi è sempre piaciuto l’ambiente ma mai lo studio.
Pian piano, nel tempo, ho preso parte a diversi progetti (tra cui una cover band punk) prima di iniziare a scrivere per me stessa in inglese (ho anche realizzato un album acustico in inglese!). Mi sono dopo resa conto che forse avrei dovuto scrivere in italiano per provare a dare spazio a tutt’altra parte di me che sentiva l’esigenza di venir fuori per arrivare con molta più facilità agli altri.
Come se la musica avesse avuto per te un valore terapeutico…
La scrittura è sempre stata per me terapeutica. Prima di comporre canzoni in italiano, scrivevo poesie ma anche opere di prosa. Ho sempre portato i miei pensieri su carta: mi ha aiutato a dare un peso diverso alle cose e a superare emozioni, sensazioni, momenti di vita e pensieri… a volte, non scrivo subito ma è come se tutto dentro di me si sedimentasse per poi tornare alla ribalta anche anni dopo.
Chi ti sta vicino ti chiede perché hai scritto una canzone piuttosto che un’altra?
Molto spesso… suscitando in alcuni casi anche la gelosia di chi mi sta accanto (ride, ndr). Ogni mia canzone si porta dietro un vissuto con cui relazionarsi.
Hai mai pensato a te tra dieci anni?
No. Ho lavorato così tanto sullo stare nel qui e ora che faccio fatica a proiettarmi nel futuro. Dieci anni sono tantissimi e non ho idea di chi sarò o di come andrà. So cosa spero: arrivare sempre a più persone con la mia musica, continuare a farla per mestiere e stabilizzarmi… non penso ancora a una famiglia tutta mia perché comunque mi vedo ancora troppo giovane.
A proposito di famiglia, i tuoi hanno preso bene la tua scelta di far musica?
Molto bene: mi hanno sempre sostenuta. Forse mio padre all’inizio era un po’ restio ma più che altro perché per una questione di non conoscenza: io per prima non sapevo effettivamente come funzionasse il percorso musicale professionale. Non è che se ne parli più di tanto… per la musica ho rischiato il tutto per tutto: fare la psicologa forse non era la mia vocazione, al contrario della musica di cui sento fortissimo il richiamo.
La scorsa estate hai avuto modo di esibirti in importanti contesti. Cosa hanno rappresentato per te?
Su quei palchi tecnicamente funziona tutto alla perfezione ma da musicista ai primi passi ti scontri inevitabilmente con un pubblico che non sta aspettando te perché non ti conosce. La paura di sbagliare è altissima, soprattutto per una come me che un po’ paranoica lo è… vivo costantemente con la paura di sbagliare e che possa arrivare qualcuno a esprimere il suo giudizio negativo. La mia generazione è sì di mentalità molto aperta ma è anche molto cattiva: non vuole essere giudicata ma al contempo giudica concentrandosi più sull’errore, che si fa fatica a perdonare, che sul processo che ha portato a una crescita.