Attilio Fontana, al centro della nostra intervista, ama costantemente rimettersi in gioco. È nato come cantante e ha avuto il suo primo periodo d’oro a metà degli anni Novanta, quando con altri quattro giovani che ha conquistato e spezzato cuori con la band Ragazzi Italiani. Erano la risposta italiana alle boyband straniere, dai Take That agli East 17. Ma, come spesso accade, il gruppo si è sciolto dopo quasi un decennio ai vertici.
Attilio Fontana ha dovuto allora reinventarsi e ripartire da zero. Con tenacia, umiltà e intelligenza, le stesse caratteristiche che lo contraddistinguono da sempre. Si è affidato alla musica, suo primo grande amore, ma anche alla recitazione, altra passione che coltiva da tempo, da quando da piccolo si lasciava incantare dalla magia del cinema.
- Dalla musica al teatro e al cinema
Ha preso parte a diverse serie tv. Ha lavorato a fianco di artisti come Virna Lisi, Iva Zanicchi, Terence Hill, Giancarlo Giannini e Lucio Dalla. Nel 2013 ha anche partecipato a Tale e quale show. Nel programma televisivo di Rai 1 non ha solo trovato la vittoria ma anche il grande amore, Clizia Fornasier. Insieme hanno avuto due splendidi bambini, Blu e Mercuzio. Sono coppia affiatata nella vita reale e adesso anche in scena. Sono tra i protagonisti della commedia Due coppie scoppiate (la stessa che diventerà presto un film dal titolo Vicini di casa) e del nuovo lungometraggio di Max Nardari, Ritorno al presente.
Ma il presente e il domani artistico di Attilio Fontana, come rivela nel corso dell'intervista, sono pieni di impegni. Mentre una sua canzone è stata reincisa da Iva Zanicchi per il suo ultimo album, l’attore, musicista e cantante è alla vigilia del debutto dello spettacolo teatrale Tre uomini e una culla, tratto dall’omonimo film francese di culto. Ciò ci ha fornito l’occasione per conoscere Attilio Fontana da vicino con un’intervista esclusiva per TheWom che, spaziando dal pubblico al privato, ci ha permesso di capire come dietro un bel paio di occhi azzurri si celi un uomo profondo, un artista a tutto tondo, un padre di famiglia dal cuore d’oro, che all’apparenza preferisce l’essere.
INTERVISTA AD ATTILIO FONTANA
- Sei tornato a teatro con Due coppie scoppiate, dove per la prima volta reciti a fianco della tua compagna Clizia Fornasier. Lo spettacolo indaga le dinamiche di coppia e l’intesa sessuale. Ti va di parlarci del tuo personaggio?
Il personaggio è molto divertente. Primo perché, nella vita, sono una persona non introversa ma che prima di parlare ci pensa un paio di volte. Sono un “pensatore”. Il personaggio è invece totalmente istintivo. Ragiona proprio con la pancia e anche con qualcosa più in giù. È un pompiere nel pieno della passione che fa deflagrare molte delle trappole comiche della commedia: è molto guascone. Come si dice a Roma, non riesce a tenere un cecio in bocca: ne dice sempre di tutti i colori. È divertente interpretarlo, piace molto al pubblico e, soprattutto, restituisce una versione di me un po’ inaspettata. Secondo perché c’è una certa complicità con Clizia sul palco. Siamo coppia nella vita reale e coppia in scena: volente o nolente, portiamo delle dinamiche che a volte capitano anche nella quotidianità. È divertente anche questo aspetto.
- Com’è stato lavorare a fianco di Clizia e ritrovarsi insieme su un palco oltre che a casa? È stato facile?
È stato complicato per il ménage familiare. Abbiamo due figli e doverli lasciare, tra prove e spettacoli, è stato un po’ critico. È stato l’unico momento in cui la nostra coppia non trovava punti d’appoggio. Però, poi, sul palco è stato bello perché sei in una zona di comfort particolare. La coppia ha un legame non facilmente spiegabile, che in questo caso ha portato anche energia sul palco. Non essendo due persone in competizione, uno sostiene l’altro e si gioca con tutto, anche con le cose della vita, in scena.
- Hai dichiarato che torni a teatro per ritrovarti, riscoprirti e rinascere. Mi spieghi cosa intendi?
Con la pandemia abbiamo vissuto due anni tremendi. La situazione tra Ucraina e Russia, preoccupante, ha messo poi il carico da undici. Pensavamo di vedere albeggiare, aspettavamo un nuovo rinascimento e invece… Dopo due anni, tornare in teatro per me ha significato e significa tornare a respirare l’empatia dal vivo, avere persone che dal vivo condividono un rituale. Per un artista ciò è fondamentale e importante. Ma lo è anche per il pubblico, che ha bisogno di quel tipo di energia che ci è stata tolta. Vuoi un po’ per le mascherine, vuoi un po’ per il sedere incollato al divano davanti a uno schermo. In teatro, è diverso.
Nei live, c’è una magia unica che succede solo quella volta lì. È un rituale atavico, antico, che in assenza mi ha privato molto della vita. Stare sul palco per me è come respirare, come per molti artisti. Come lo è anche per tutto il pubblico che abbiamo incontrato durante le repliche. La cosa che tutti ripetevano sembrava un nastro registrato quasi: “Grazie perché ci avete regalato delle emozioni, due ore di leggerezza di cui avevamo proprio bisogno”. C’è bisogno di una leggerezza non stupida ma intelligente. Il teatro offre tale possibilità perché ci si specchia dentro ai personaggi e ci si riconosce in delle dinamiche.
Ecco cosa intendevo con il tornare al teatro per rinascere. Il cinema è più meccanico mentre la televisione ti chiede a volte di fare delle cose che non sono proprio adatte a te. A teatro mi sento nel mio acquario.
- Tant’è che, finito Due coppie scoppiate, ti aspetta ora un impegno teatrale non da poco: la trasposizione teatrale di Tre uomini e una culla, il testo di Coline Searrau reso famoso da due differenti film, l’originale francese e il remake americano. Reciti la parte di un papà improvvisato, costretto insieme a Giorgio Lupano e a Gabriele Pignotta a prendersi cura di una bambina. Se non erro, è la prima volta in assoluto che la commedia arriva a teatro.
Il testo è stato trasposto in teatro a Parigi ma solo per un “capriccio” dell’autrice, che ha voluto celebrare il film sul palco. È stata più una serata di gala. Dopodiché, non è mai stato più rappresentato. Siamo i primi a portarlo in teatro. Gabriele Pignotta, anche regista dello spettacolo oltre che interprete, è stato molto bravo ad aumentare il ritmo alla comicità.
È molto bello. Non perché ne faccio parte ma perché è segnato da una certa nostalgia per gli anni Ottanta, dai costumi che ci riportano a quel decennio alle hit francesi che ci traghettano dentro la storia. Il colore è sempre la tenerezza generata dai tre papà imbranatoni, che sono un vero disastro. Ci sono molte battute e ha una confezione molto curata. È un tipo di spettacolo che, secondo me, mancava da un po’. Il ruolo è divertente e tra noi tre “papà” si è creata una certa complicità e alchimia. Non a caso, lo spettacolo ha vinto il Festival Teatrale di Borgio Verezzi.
- Quale dei tre papà della storia sei?
Sono il papà reale della bambina, quello che combina il casino più grande. Sono quello che abbandona la figlia agli altri due e che se ne sentirà dire di tutti i colori quando ritornerà, per ovvi motivi. La cosa carina è che siamo riusciti a creare un mix tra l’eleganza e l’ironia sottile della versione francese del film e la brillantezza di quella americana.
- E nel privato che tipo di papà sei? Con Clizia avete parlato ai piccoli, soprattutto a Blu che ha quasi sei anni, del CoVid prima e della guerra in Ucraina oggi? Come avete affrontato gli argomenti?
Giocherellone, affettuoso. Qualche regola cerco di darla perché “bisogna” e, quindi, alzo un po’ la voce: in realtà, sono un po’ un cane che abbaia ma morde zero. Cerco con loro di capire come va il mondo, di mostrarglielo in un modo sempre attraente, nonostante il periodo e le cose che succedono. Per fortuna, sono piccoli. Non sono adolescenti, quella fascia d’età ha più sofferto ciò che abbiamo vissuto nei due anni passati. Con Clizia cerchiamo di proteggerli dalle brutture non facendogliele ignorare ma raccontandogliele più come una favoletta. Mi sento un papà che ce la mette tutta. Poi, non so se faccio un disastro oppure no.
Durante l’emergenza CoVid, abbiamo raccontato a Blu che c’era un virus e che bisognava stare in casa. Abbiamo, giocosamente, trasformato la casa in una barca a vela e l’avventura era stare nel terrazzo di cui, anche se non molto grande, disponiamo. Abbiamo cercato di dare alla clausura una forma giocosa ma non è stato facilissimo. Blu è consapevole dei rischi, ne parlano anche a scuola e ha delle regole.
Anche a Clizia, la mia compagna, piace raccontare molto, scrive romanzi del resto. Abbiamo deciso di affrontare con Blu anche la questione guerra in Ucraina con delle metafore più semplici, spiegandogli che purtroppo accadono questi eventi orribili e tremendi che a noi non piacciono. Era dispiaciuto ed è quasi scoppiato a piangere: Ma io non voglio che succedano queste cose, ci ha detto. I bambini soffrono. Blu è anche molto sensibile.
- Sottovalutiamo sempre i sentimenti dei bambini. Eppure, non volendo sono sempre bombardati da immagini che sono forti e non facilmente decifrabili per loro.
Una delle cose che abbiamo fatto è stata spegnere la tv, non per polemica. Niente più telegiornali o programmi di approfondimento. Usiamo la tv come strumento ricreativo: solo cartoni e quelli più sani. Certe immagini cerchiamo di non fargliele vedere. Ho visto immagini tremende, anche sui social, che cerco di risparmiare a loro.
Diventare padre è stata l’amozione più grande della mia vita. Era come se un vulcano e l’Etna eruttassero cono contro cono.
Attilio Fontana
- Ricordi ancora l’emozione di diventare papà per la prima volta? Com’è stato invece quando è nato Mercuzio, il secondo bambino?
Lo dico sempre e non per fare presa: diventare padre è stata l’amozione più grande della mia vita. Era come se un vulcano e l’Etna eruttassero cono contro cono. C’era una parte di me che non gioiva così da quasi una vita. E l’altra che piangeva. Ero emozionato, commosso, ma allo stesso tempo in preda a una gioia che non ho mai provato più in maniera così intensa e profonda. Ho assistito al parto. La nascita di Mercuzio è stata altrettanto felice ma è stata più dilatata perché Clizia ha dovuto fare un cesareo. Ho avuto, dunque, modo di consumare l’emozione in più tempo. Quando invece è nato Blu, vedere arrivare al mondo quella nuova vita è stata una sensazione grossa. Un conto è vederla e un conto è viverla.
- Che tipo di bambino eri invece tu? Cosa racconti ai tuoi figli di te?
Non mi racconto troppo. Blu, però, ogni tanto mi chiede. Mi fa piacere quando lo fa perché riscopro anch’io delle cose. Ero un bambino un pochino timido, introverso. Ero capitato in un momento della mia famiglia poco solare. Ho perso papà da piccolo e mia madre ha dovuto sostituire entrambe le figure in casa e fuori. Avevo un mio mondo immaginario che era molto, molto grande. Dovendo vivere in tanti silenzi e in tanti momenti in cui le figure reali non potevano esserci, creavo mondi fantasticando, disegnando e facendo qualunque cosa con la cera pongo, dal presepe ai calciatori. Parlavo poco. Quando mi rivedo, mi fa tenerezza il bimbo che ero, con quei suoi mondi immaginari che non esprimeva come avrebbe voluto. Cominciare a fare questo lavoro mi ha aiutato a vincere il drago della timidezza.
Ma ero anche un bambino felice, ho dei bellissimi ricordi che ho inserito anche in alcune delle mie canzoni. Sono, tuttavia, nostalgico di quel bambino che faceva un po’ tutto con le mani anziché con il dito, come si fa oggi con i dispositivi digitali. Con le mani creavamo più mondi, toccavamo il pallone o la ruggine dell’altalena. Ho nostalgia di quelle mani che toccavano molto. Vivevamo in sintonia con l’età e non eravamo costretti a essere super “likati” già a sei anni da tutto il mondo.
- Hai alle spalle una lunga sfilza di titoli fortunati in cui hai recitato come attore. Tra tutti, ricordiamo Don Matteo, Il bello delle donne, Carabinieri e Caterina e le sue figlie. Cosa ti ha spinto a fare l’attore, al di là della timidezza da sconfiggere?
Uno dei miei grandi amori è stato il cinema. Lo è ancora. Ma parlo del cinema degli anni in cui sono cresciuto e del modo in cui lo abbiamo vissuto. C’erano le videoteche e mi ricordo le collette tra amici per affittare un film, magari di Kubrick. Ci chiudevamo dentro casa e vedere un film era un po’ come andare a una messa importante: era qualcosa di sacro. Vedere il lavoro degli attori, soprattutto americani, mi faceva sognare. E sognavo di poter lavorare anch’io allo stesso modo tanto è vero che per dieci anni ho studiato con un coach argentino, lo stesso di Javier Bardem.
Mi sono fatto i miei viaggi anche nell’affrontare i vari personaggi e le varie situazioni in maniera anche profonda. Perché, quando si recita, si affronta l’umano, un aspetto che mi intriga sempre. Non potendo fare lo psicologo, fare l’attore mi aiuta a esplorare la vita.
Recitare è sempre stato una grande passione: mi sfida a far qualcosa di nuovo. In questo periodo della mia vita, mi gratifica molto e mi dà modo di misurarmi con un territorio più nuovo rispetto a quello della musica, il primo amore che non riuscirò a mollare mai.
- Tra l’altro, stai per ritornare al cinema con il film Ritorno al presente, il nuovo film del regista Max Nardari.
È un film molto, molto carino che parla un po’ della fobia del digitale. Protagonisti di questa commedia molto colorata siamo io, Clizia e Daniela Poggi, un trio di folli totali.
- Hai lavorato anche con dei grandissimi nomi dell’entertainment italiano. Ma ce n’è uno che più di altri mi piace ricordare, l’immensa Virna Lisi. Che ricordo hai di lei?
Ho un bel ricordo. Ho incontrato un pezzo della nostra storia, come quando ho lavorato con Giancarlo Giannini o con Lucio Dalla. Erano o sono personaggi monumentali, con una carriera cinquantennale alle spalle da cui c’è tanto da imparare. Di lei ho il ricordo di una donna molto, molto – passatemi il termine, anche se non è la parola giusta – “rigida”, austera. Era molto severa, rigorosa, sul lavoro perché voleva far bene. Virna era la protagonista di Caterina e le sue figlie ed era un po’ come il generale del set. Era anche bello seguirla. Ma, quando poi si sentiva in comfort, il suo sorriso era inondante.
Mi è capitato poi di scriverle una canzone, che doveva cantare in un film. Il produttore mi aveva chiesto di raggiungerla nel camper per insegnargliela. Mi sentivo in imbarazzo: come facevo io a insegnare qualcosa a Virna Lisi? Era un po’ un paradosso.
Entrando nel camper e facendole sentire la canzone, resi conto che Virna, da grande professionista qual era, se l’era già studiata. Mentre provava a cantarla, riuscì a entrare nell’emozione del brano e pianse. Capii che avevo a che fare con una persona speciale, che in breve tempo era riuscita a cogliere l’essenza e le emozioni di quel pezzo.
- Ho come l’impressione che Virna Lisi sia stata dimenticata un po’ troppo in fretta dai media.
Purtroppo, la “serietà” e la professionalità non fanno notizia. Virna è stata un’artista che ha protetto la vita privata e che è stata molto brava nel suo lavoro di attrice. Questo fa sì che se ne parli un po’ meno di altri personaggi, in generale. Oggi c’è bisogno di altri fatti collaterali sul lavoro. Estremizzo: “Deve uscire il tuo disco? Non hai una storia triste da raccontare, una malattia?”. Siamo schiavi di un sistema che ci richiede sempre un beside tremendo per essere raccontati.
- E, a proposito di social, qual è il tuo rapporto con i social? Gestisci tu i contenuti? Mi ha colpito in questi giorni un tuo post, molto sentito, sulla guerra in Ucraina.
La guerra in Ucraina, come a molti e come a molti no, mi ha colpito in maniera sincera. È vero che sui social dobbiamo essere sempre vincenti, perfetti, belli, photoshoppati, tiktokkosi, eccetera eccetera… Però, ho sentito per quanto mi riguarda l’esigenza di chiedere di unirci, come è successo a Bologna o in altre città, in un sentimento che non è per forza leggerezza. Ci può essere un momento in cui si può essere non dico tristi ma seri? Era una sorta di richiamo a me stesso per dirmi di non sentirmi in colpa se non posto qualcosa “d’evasione”.
Con il cinismo e l’ironia ci sembra di sconfiggere le cose brutte ma ogni tanto occorre stare scomodi e ingerire qualcosa che non ci piace. Vedere il “far finta di niente” mi provoca una reazione avversa: vuol dire che siamo diventati sordi nei confronti di qualcosa che riguarda tutti. Il nemico sta a duemila metri e parla di spingere il bottone nucleare: è chiaro che mi preoccupo. Comincio a pensare: Dove vado? In Argentina? Non sono uno di quelli che si mette a fare il balletto su Tik Tok pensando che tutto ciò non sia vero.
La leggerezza serve perché altrimenti diventa tutto troppo pesante. Però, una dose di riflessione per capire dove siamo e cosa sta succedendo ci vuole. La velocità con cui si posta sui social alimenta sensazioni contrastanti. Quel post a cui fa riferimento sta lì da un paio di giorni ed è giusto che abbia la sua coerenza. Se subito dopo avessi postato qualsiasi altra cosa, avrei cancellato la reale drammaticità di quello che viviamo: è una questione di coscienza e di vita vera. I social ci stanno un po’ diseducando alla vita ed educando a creare una versione di noi “alterata”. Preferisco perdere qualche follower (non vi nascondo che succede) rimanendo fedele a me stesso.
Gestisco io i miei contenuti. La mia pagina Instagram e quella Facebook sono una sorta di diario dei miei stati d’animo. In passato avevamo il diario segreto, le polaroid e le diapositive. Oggi, invece, abbiamo i social. Sono diventati gli strumenti dentro ai quali raccontiamo e ricordiamo la vita, condividendo anche stati d’animo scomodi o meno “fruttuosi”. Mi piace l’idea che i miei profili raccontino un itinerario, quando mi va di farlo, di chi sono, di cosa faccio. Mi piace condividere i miei sentimenti senza essere troppo esibizionista. Li vedo, ecco, come un diario di bordo.
Siamo stati i Beatles ma non abbiamo capito molto di quello che accadeva.
Attilio Fontana
- Diario di bordo che ti sarebbe ritornato utile negli anni Novanta con l’incredibile successo dei Ragazzi italiani, la prima boy band italiana degli anni Novanta di cui facevi. Che ricordi di quel periodo?
I Ragazzi Italiani hanno avuto un successo grandissimo in un’epoca molto diversa da questa che viviamo. Abbiamo vissuto degli anni fantastici ma allo stesso tempo difficili: per dei ragazzi poco più che adolescenti non era facile gestire quello che accadeva. Ritrovarsi da un mese all’altro al Festivalbar con il camerino di fianco a quello di Sting o Bryan Adams era qualcosa di molto forte. Sono stati quattro, cinque anni intensi, costantemente in viaggio: andare dall’Italia all’Argentina per presentare un disco, per poi volare in Germania o in Portogallo prima di rientrare per i concerti o per le ospitate nei programmi tv.
Abbiamo vissuto un’esperienza meravigliosa della quale però non ho molti ricordi nitidi proprio per il tagadà dentro il quale venivamo frullati. Eravamo nel pieno della post adolescenza, della purezza. Eravamo, quindi, un po’ dentro a un centrifugatore che andava a velocità massima. La velocità, dopo un paio di anni, ha cominciato a sfibrarci. Eravamo cinque caratteri diversi che, a quell’età, si ritrovavano gestiti da chi ci diceva “sei più bravo tu dell’altro” e, viceversa, “donne e motori, gioie e dolori” … Abbiamo anche chi ne ha approfittato economicamente. Eravamo delusi, pensavamo persino di gestirci da soli ma poi non eravamo capaci di fare gli arrangiatori, i coreografi e via di seguito.
Siamo stati i Beatles ma non abbiamo capito molto di quello che accadeva. Finché poi, a un certo punto, uno di noi, Pino, è uscito dal gruppo. È stata un po’ una delusione per tutti. Per me, in particolar modo, perché avevo sempre remato per cercar di mantenere unita la band. Forse si era anche esaurita un po’ l’energia nostra piuttosto che il progetto: rischiavamo di far cose in cui non credevamo ma che ci erano state proposte. Ci siam guardati, non con troppa serenità, e abbiamo deciso di lasciare un buon profumo mettendo un punto e riprendendoci ognuno le proprie vite.
Io ho ricominciato proprio da zero. Ho impiegato quattro o cinque anni prima di riaffacciarmi con qualcosa che fosse adatto. È stato un periodo non facile. Ma è andata così, non so spiegarla meglio.
Eravamo giovani all’epoca e non capivamo. Oggi, i giovani artisti già sanno di dover essere delle Ferrari lanciate a 300 km all’ora. Noi, invece, non lo sapevamo. Eravamo cinque ragazzi presi dallo spogliatoio di un calcetto quasi, messi dentro a un Espace giallo che prima era un taxi e portati in giro a fare la qualunque. Quando siamo arrivati ad Amici come opinionisti, eravamo già una band, anche se non potevamo cantare a causa di cavilli contrattuali di cui anche la stessa Maria de Filippi si era scusata con noi.
- Nonostante la fatica, non hai mai abbandonato la musica. È sempre presente nella tua vita. Ti abbiamo visto a Tale e quale show, hai pubblicato diversi album da solista e hai scritto musiche per teatro, cinema e televisione. In pochi lo sanno ma sei anche l’autore di una delle canzoni più belle presenti nel nuovo disco di Iva Zanicchi, Così poco di te. “E tutte le volte decidi sempre, quando e perché. Sembra impossibile che mi basti così poco di te. Lasciami senza parole, dimmi di sì”: è un bell’inno all’amore.
Quando girai Caterina e le sue figlie, interpretavo il figlio in scena di Iva Zanicchi. Con Iva, che è un po’ una grande mamma così come la vedete, si chiacchierava molto, si giocava. Avendo realizzato un disco da cantautore da poco, mi piaceva l’idea che lo sentisse. Non me l’aspettavo ma l’ascoltò veramente. Mi disse subito che l’aveva colpita una canzone, Così poco di te. Al di là della melodia, a Iva piacque molto anche il testo. Avrebbe voluto che facessimo qualcosa insieme per la canzone, un duetto, Sanremo… Partecipare al festival era però impossibile come ipotesi, il disco era già uscito e il brano era edito. Rimase così tutto in sospeso ma, ogni volta che negli anni ci sentivamo, Iva non smetteva di ricordare la canzone.
Quest’anno, invece, non ha appena ha saputo di partecipare a Sanremo e di poter fare un nuovo disco, ha voluto inserire anche Così poco di te. È una canzone che parla di un amore longevo. Potrebbe essere l’amore tra due persone che ne hanno passate di tutti i colori ma che tengono duro, al contrario di come si tende a fare oggi cambiando spesso partner. In qualche modo, racconta delle piccole cose ma in maniera poetica e delicata.
- Da dove nasce l’ispirazione per le canzoni?
Ogni volta è diverso. Come dice Fabio Concato in una canzone che amo molto, “quando arriverà non è mai uguale”. A volte si comincia il testo, altre volte ti sovviene una melodia o un’idea. Ad esempio, c’è una canzone che si chiama Gesù, l’ultimo comunista che nasceva dall’idea di uno spettacolo teatrale in cui io incontravo Gesù sulla Tuscolana, lo portavo a casa mia e gli spiegavo cosa era successo nel frattempo. Piuttosto che un brano che ho scritto con Lucio Dalla: gli servivano dei pezzi per un film, gli ho presentato alcune delle cose che avevo scritto e lo scelse, ma stava in un cassetto da sette o otto anni.
La musica ha il potere di essere magica e di decidere lei quando è il momento di trovare una traiettoria e prendere il volo. La stessa cosa vale per l’ispirazione: arriva quando non te l’aspetti. Ho il telefono pieno di memo, di cose che mi appunto, che quando ho tempo trasformo in canzoni.
Mi manca molto personalmente ma credo che manchi a tutti una figura come quella di Lucio Dalla. Ce ne siamo resi conto quando non c’era più.
Attilio Fontana
- Hai appena citato Lucio Dalla. Oggi è il 4 marzo, data del suo compleanno. Che ricordo hai di Lucio Dalla?
Mi manca e ci manca. Lucio era di una lucidità unica sul mondo, sulle cose del mondo, che abbiamo perso. Secondo me, stiamo un po’ regredendo con l’intelligenza di massa, sociale. Lucio, invece, era la custodia, era l’arca preziosa del sapere, di un tipo di cultura di ragionare. Per lui, eravamo tutti sulla stessa livella, come direbbe Totò. Lucio non gerarchizzava le cose ma le analizzava, le studiava, le discuteva, le dibatteva, le metteva nelle canzoni. Canzoni come Futura, in cui parlava della guerra, Se fossi un angelo, o Anna e Marco, per raccontare una generazione. Aveva il suo telescopio e microscopio sulle meccaniche della vita, dell’amore, delle persone.
Avendo vissuto degli anni insieme a lui e a tutto il cast della Tosca, ho potuto constatare quanto fosse innamorato dello spettacolo e dei giovani, ci teneva molto. Ricordo anche le volte in cui dormivamo a casa sua o quelle in cui, pur non essendoci, ci lasciava una stanza. Stare con lui era un po’ come stare in un circo e allo stesso tempo come stare con Napoleone: era un genio. Quando era severo poteva anche ferire ma ti trasferiva delle cose che negli artisti di oggi è difficile incontrare: ne saranno forse rimasti tre o quattro dello stesso spessore. Lucio era proprio un menestrello della vita: riusciva a trasformare tutto quello che incontrava in qualcosa di poetico, magico, ironico e divertente.
Mi manca molto personalmente ma credo che manchi a tutti una figura come quella di Lucio. Ce ne siamo resi conto quando non c’era più. Mi mancano le sue telefonate, quelle in cui mi chiamava con un soprannome (ne metteva sempre uno a tutti). Chiunque lo abbia incontrato ha questo sentimento di nostalgia profonda nei confronti di quei momenti trascorsi insieme quando diventava tutto speciale.