Aurora D’Amico è una talentuosa e giovane cantautrice palermitana. Feelings, il suo ultimo singolo, è accompagnato da un video che su YouTube si avvicina alle 100 mila visualizzazioni, un dato che farebbe impallidire anche artisti più navigati ma che Aurora D’Amico accoglie con la stessa felicità che riserverebbe anche a una sola visualizzazione.
E il motivo è semplice. È da ricercare nelle origini di Feelings e dal sentimento che ha mosso Aurora D’Amico a scriverla. Occorre però prima fare un passo indietro e tornare a quasi due anni fa, al momento in cui il CoVid è entrato nelle nostre vite e le ha sconquassate. Aurora D’Amico si trovava negli Stati Uniti e aveva davanti a sé un tour di dieci date, una più importanti dell’altra. Era il raggiungimento di un sogno che il CoVid con le restrizioni e il lockdown ha trasformato in incubo.
“Feelings è il brano la cui scrittura mi ha preso più tempo in assoluto. Ma è anche quello di cui sono più soddisfatta, perché riesce a descrivere alla perfezione ciò che ho attraversato”, ha spiegato Aurora D’Amico. Ma lasciamo alle sue parole in questa intervista esclusiva il racconto di come è cambiata come donna prima di tutto e come artista dopo.
Intervista ad Aurora D’Amico
C’è la propensione a pensare che la pandemia da CoVid sia stata oramai superata. In realtà, ci sono persone a cui la pandemia ha procurato anche conseguenze non strettamente connesse all’aspetto sanitario. È un po’ il tuo caso: ti ha costretto a rivedere tutto il tuo percorso professionale.
Anche se l’emergenza sanitaria sembra essere superata, c’è ancora un’emergenza emotiva molto forte in tutte le persone che hanno resistito e sono andate avanti. Non possiamo negare che sia stato un trauma molto grosso per tutti: non solo perché ci ha toccati a livello sanitario ed economico ma anche perché ci ha toccati a livello emotivo. Pensiamo, ad esempio, alla semplice paura di passare o ricevere qualcosa da qualcuno: rispetto ad altre culture, noi italiani siamo abituati ad abbracciarci, a baciarci o a toccarci quando ci incontriamo. Non l’abbiamo più potuto fare: c’era fortissimo imbarazzo anche nell’avvicinarsi. Stiamo cercando di riadattarci a quelle che erano le nostre abitudini ma non è semplice. E poi ci sono chiaramente tutti gli aspetti concernenti al lavoro, alle passioni e ai sogni che sono stati messi in pausa.
E tu di lavoro, passioni e sogni ne hai messi in pausa. Ti è stato cancellato a causa della pandemia in tour di dieci tappe negli Stati Uniti, tra cui una al mitico SXWX. Cosa lascia in un’artista che vede all’orizzonte anche un importante cambio di prospettiva per il proprio percorso il vedersi cancellati degli impegni così importanti?
Da quando ho cominciato, ho sempre puntato all’America. Il tour era il frutto di tanti anni di lavoro sia in Italia sia in tutta Europa: ho avuto esperienze anche in Inghilterra o Belgio. Era quello che considero l’apice della mia piccola carriera musicale. Gli Stati Uniti erano un sogno personale. Sin da piccola, sognavo l’America: ho famiglia oltreoceano e almeno una volta all’anno andavo a trovare i miei cari. Suonare lì era il massimo. Vedevo una porta spalancata davanti a me ma mi è stata chiusa in faccia.
Il paradosso è che mi trovavo già a Boston. Mi sono sentita come congelata. Ho cercato di dirmi che “si vede che doveva andare così”, che ci sono altre priorità e via dicendo. Ma, quando poi sono rientrata in Italia, ho capito effettivamente quanto fossi stata vicina a qualcosa di veramente importante. Non solo per le date in sé (ne avevo una anche al quartier generale della Fender in Arizona, dove producono le chitarre): avrei capito con quell’esperienza che strada avesse intrapreso il mio percorso musicale, se fosse andato un po’ più avanti o fosse rimasto indietro.
E da lì è venuto fuori lo scossone emotivo. Ho pensato che avrei dovuto ricominciare da quasi zero. Ed è stato molto faticoso.
Ma la fatica ti ha portata alla composizione di Feelings, il tuo nuovo singolo ancora una volta in inglese. Cantare da italiana in inglese non è una scelta ovvia e non è una scorciatoia facile. Mi hai parlato di famiglia americana ma penso che la scelta della lingua per le tue canzoni sia frutto di una certa ponderazione. Cosa ti spinge a esprimerti in una lingua non tua e a sposarne le sonorità, diverse dalle italiane a livello sia compositivo sia interpretativo?
Scrivere in inglese non è mai stata una scelta commerciale per vendere la mia musica. Scrivo in inglese da sempre, da quando avevo quattordici anni e non avevo minimamente idea che la musica sarebbe diventata il mio lavoro o, comunque, la mia professione principale. Non è stata dunque una scelta fatta a tavolino ma è semmai conseguenza della mia grande passione per la musica estera, quindi inglese, australiana, americana… Mi viene spontaneo scrivere in inglese, una lingua che ho sempre molto amato: tuttora guardo ad esempio i film o le serie tv su Netflix in lingua originale piuttosto che doppiati. Se mi proponessero di cantare in un’altra lingua non ne sarei capace: ho provato durante un concerto in Belgio a portare un testo in francese ma è stato disastroso! (ride, ndr).
Hai appena citato Netflix. Una tua canzone, The Landscape, è finita all’interno di una trilogia cinematografica indonesiana molto popolare sulla piattaforma ma purtroppo non disponibile in Italia, Dear Nathan, Thank You Salma. Che effetto fa sapere che una propria canzone è stata scelta agli antipodi del mondo per un film?
È qualcosa di stupendo. La musica ha il potere di farci viaggiare pur restando fermi a casa. Avrei dovuto girare per gli Stati Uniti e portare la musica in diverse località e, invece, dal chiuso della mia stanza a Palermo la mia musica è andata da sola fino in Indonesia! È stato emozionante vedere come la musica possa superare tutte le barriere e arrivare ovunque: ricevono moltissimi messaggi da parte di ragazzi indonesiani e qualcuno si è anche cimentato nella cover della mia canzone. Tra l’altro, l’esperienza mi ha permesso in qualche modo di coronare un altro mio sogno: scrivere musica per un film.
Musica e cinema sono due arti completamente diverse ma sono due emozioni forti, due linguaggi universali. Quando si riesce ad arrivare a tutti coniugandole, è una sensazione molto bella. Mai mi sarei sognata di vedere una trilogia indonesiana, tra l’altro molto celebre tra gli adolescenti (una sorta di Tre metri sopra il cielo), usare una mia canzone!
Ho accennato prima a Feelings. È una canzone che racconta lo shock provato sulla tua pelle a causa della pandemia. Il testo non è altro che una descrizione di quello che era il suo stato d’animo in quel momento.
Si, tratta proprio quello che ho vissuto nell’anno e mezzo più duro della pandemia. Ho incontrato molta difficoltà nello scriverla perché quando si attraversa un periodo di apatia come quello che ho vissuto io si congela ogni emozione. Che fossi circondata di notizie belle, brutte, tristi o divertenti, non faceva la differenza: mi sentivo come distaccata dalla realtà. E con quella sensazione addosso è stato per me molto difficile produrre del materiale.
A differenza di altri colleghi musicisti che si sono reinventati con i tutorial su YouTube o i concerti su Instagram, io mi sono chiusa in me stessa. Mi sono allontanata dai social e mi sono concentrata sulla mia salute mentale ed emotiva: mi sono sentita sopraffatta. Mi sono sbloccata piano piano e ho messo per iscritto quello che mi è successo senza girarci intorno: ero andata dall’altra parte del mondo, camminavo in punta di piedi, ero nel bel mezzo del mio sogno ma poi sono stata catapultata indietro, alla mia realtà.
Sei ora uscita del tutto da quello stato di apatia?
Si, piano piano. E con diversi aiuti esterni, degli amici prima di tutto. Sono tornata nuovamente a fidarmi delle possibilità della vita: molte volte, quando rimani deluso, corri il rischio di smettere di sperare. E, invece, nessuno dovrebbe rubarci la speranza.
Hai ritrovato quindi le lacrime da piangere, come canti nella canzone?
Bella domanda. Io piango spesso ma mi sono circondata delle persone giuste con cui ridere in maniera autentica, ritrovando risate che non sono di circostanza. Uno degli effetti positivi della pandemia è quello di averci aiutato a vedere la naturalezza delle nostre relazioni e capire quali vale la pena mantenere e quali era meglio allontanare.
E per cosa piangi spesso? È importante sapere che una ragazza della tua età non abbia paura di mostrare le proprie debolezze o le proprie insicurezze in una società che ci vuole sempre perfetti e performanti.
Una ragazza della mia età si scopre giorno dopo giorno. Io oggi mi conosco più di cinque anni fa e mi sono posta domande fondamentali che mi hanno permesso di farlo. Non mi do mai per scontata: non ci conosciamo mai al 100%, ogni giorno scopriamo aspetti nuovi. Mi sono chiesta cos’è che mi fa piangere o cos’è che mi fa ridere, per esempio. E ho realizzato che occorre prendersi del tempo per trovare le risposte e, quindi, conoscere chi si è. Piango per nervosismo o per empatia, non solo nei momenti di tristezza. Ma anche per motivazioni stupide, come può essere una particolare scena di un film, tipo la riappacificazione tra un fratello o una sorella.
Feelings deve molto a Rocket Man, il film biografico su Elton John. Cosa ha smosso in te quella visione?
Amo tantissimo Elton John: a prescindere dal film, ho un amore smisurato nei confronti dell’artista. Avevo cominciato a scrivere Feelings con la chitarra ma dopo la visione del film ho avuto una sorta di istinto: è se la scrivessi al pianoforte? Immedesimandomi in quello che avevo ascoltato e visto, mi sono seduta al piano ed è venuta fuori una canzone completamente nuova. Gli accordi e la struttura erano gli stessi ma è cambiata del tutto la forma.
Tra le righe, mi hai detto già che suoni due strumenti diversi: la chitarra e il pianoforte. Quando si pensa a un’artista donna, si sottovaluta spesso la possibilità che possa essere anche una polistrumentista.
Ho sempre suonato il pianoforte: l’avevo in casa a portata di mano ed è sempre stato il mio primo strumento. Quando a quattordici anni ho iniziato a scrivere le mie prime canzoni, mi ritrovavo a suonarle e a cantarle in salotto, in mezzo alla casa, con tutti gli altri che continuavo a passarmi davanti. Ho sentito allora l’esigenza di trovarmi uno strumento che potessi portare nella mia stanza: è questa la ragione per cui ho preso la chitarra di mio padre e ho imparato a suonarla. Ma mi diverto anche a suonare altri strumenti come il mandolino o l’ukulele: a seconda dello strumento che suoni, vengono fuori giri, accordi o idee diverse. È una bella esplorazione!
A 14 anni scrivevi già le tue prime canzoni. Quando hai capito che la musica sarebbe diventata la chiave di svolta della tua esistenza?
Ci sono foto di me seduta al pianoforte già a quattro anni. Ovviamente, non ricordo quel momento. I miei genitori hanno sostenuto da sempre il mio interesse per la musica ma mi hanno contemporaneamente lasciata molto libera. Ero e sono molto pigra, ho seguito dei corsi privati di pianoforte ma non ne facevo oggetto principale di studio. Qualcosa però è cambiata intorno ai 18 anni quando ho deciso di iscrivermi al conservatorio per perseguire quello che era il mio obiettivo: comporre colonne sonore per film. Puntavo alle stelle ma pian piano l’obiettivo ha cambiato forma: oltre alle musiche, volevo comporre testi e da lì la scelta del Berklee Music College.
Com’era l’ambiente del conservatorio? Maschilista come spesso lo si descrive?
Non ho riscontrato molta discriminazione, c’era sia ragazze sia ragazzi e il trattamento era lo stesso per tutti. Se guardiamo le orchestre di musica classica, possiamo vedere quante donne suonano uno strumento: forse è l’ambiente meno discriminatorio che c’è. Diversamente da quanto accade invece in altre situazioni: ricordo ancora come durante un festival, ancora prima di un sound check, un ragazzo – frontman di una band – mi disse “Si vede che sei piccola musicalmente” senza nemmeno aver sentito o visto cosa sapessi fare: partiva dal presupposto che ero una ragazza. Sfortunatamente per lui, ho poi vinto il contest. Ricordo anche che quando ero solo una ragazzina con una chitarra in mano c’era la tendenza a vedermi come un’incompetente da parte anche dei fonici che stavano sul palco.
Ma da donna ti sei ripresa una rivincita non da poco. Hai suonato in un tempio sacro maschile come lo Stadio Renzo Barbera di Palermo.
Suonare allo stadio è stata un’esperienza quasi sacra, religiosa. Non tanto per la location in sé ma per quello che emana. Nel silenzio, senti come l’atmosfera sia densa dell’energia che negli anni è stata rilasciata tra gli spalti e le curve dai tifosi.
Per Feelings hai lavorato con il produttore Fabio Rizzo mentre il master della canzone è stato curato da Gavin McGrath allo Zvuk Mastering, nel Regno Unito, un posto da dove è passata anche Amy Winehouse.
Lavorare con Fabio è sempre un piacere: riesce a connettersi molto bene con quello che desidero comunicare io. Ci legano le stesse emozioni, gli stessi sentimenti e lo stesso obiettivo. Le collaborazioni con l’estero, invece, sono fondamentali per la contaminazione: mi piace includere altre orecchie. Lo stesso sto facendo con la lavorazione del mio nuovo disco che uscirà tra qualche mese.
Nel video di Feelings, sono presenti degli orsetti gommosi in grado di fare provare diverse emozioni: gioia, rabbia, tristezza, paura. Quale sapore ti piacerebbe sentire in questo momento?
La gioia ma anche quello della libertà. La libertà di poter fare le cose senza la paura di essere giudicati o criticati o la libertà di poter abbracciare qualcuno senza essere fraintesi. Amo la libertà, sempre entro i limiti, di poter agire senza nessun paletto o restrizione. Non vorrei mai sentire la rabbia: sebbene mi facciano rabbia le ingiustizie, ho imparato a usare l’emozione nel modo giusto. Cerco di non farmi logorare troppo dentro, anche se le ingiustizie mi fanno venire i famosi cinque minuti.
Da un punto di vista professionale hai mai avvertito di aver subito ingiustizie?
Tutti sperimentiamo ingiustizie in campo lavorativo, più o meno grandi. Spesso di tratta di qualcosa di cui ci rendiamo conto solo dopo ma è comune la sensazione di sentirsi messi da parte. Mi è successo e ricordo bene la sensazione.
E se domani ti dicessero di partecipare a Sanremo con una canzone in italiano?
È una delle prime domande che mi hanno fatto ancor prima che iniziassi a lavorare nella musica: la lingua inglese non va bene. Potrei anche cantare in italiano ma mi costringerebbe ad allontanarmi dal genere che amo e che meglio conosco. A differenza dei miei coetanei che ascoltavano i grandi cantautori italiani, io sono cresciuta con la musica straniera: a casa mia si sentiva pochissima musica italiana. Ho quindi forgiato i miei gusti musicali in base alle mie scelte di adolescente o comunque di giovane donna.
Che effetto fa sapere che la propria canzone solo su YouTube è quasi a quota 100 mila ascolti?
Mi rende contenta. Ho realizzato il video senza troppe pretese, insieme a degli amici, senza puntare chissà a quali risultati. Ci piaceva l’idea e ci siamo divertiti a lavorare insieme. Sarei stata felice a priori. Ma anche se lo avessero visto solo dieci persone: la sensazione non sarebbe cambiata.