Aurora Peres ci accompagna verso il finale dell'ultima emozionante stagione di Doc - Nelle tue mani, serie tv che ha permesso al pubblico di Rai 1 di legarsi profondamente ai destini dei personaggi che animano il reparto di Medicina Interna guidato dal carismatico dottor Fanti. Tra questi, Barbara, interpretata con maestria da Aurora Peres, ha catturato l'attenzione e il cuore degli spettatori con una storyline che naviga in acque profonde e turbolente. Aurora Peres, con una presenza scenica tanto delicata quanto potente, si immerge nel complesso mondo dell'erotomania, portando alla luce le sfide e le sfaccettature di una condizione spesso fraintesa.
L'attrice, in questa conversazione esclusiva, ci guida attraverso il viaggio di Barbara, esplorando non solo le difficoltà del suo personaggio ma anche le riflessioni personali scaturite da questa esperienza. Da Palermo a Roma, dai primi passi nella recitazione fino alla consolidata carriera che l'ha vista protagonista in alcuni dei palcoscenici e set più importanti d'Italia, Aurora Peres condivide il suo percorso artistico e umano, segnato da una ricerca continua di autenticità e crescita.
Con un'onestà disarmante e una riflessione profonda sui temi dell'amore, della malattia e della trasformazione personale, questa intervista ci offre uno sguardo intimo su come l'arte possa essere al tempo stesso specchio della società e veicolo di cambiamento. Tra aneddoti di vita e considerazioni sul mestiere dell'attore, Aurora Peres ci regala un racconto coinvolgente e ricco di sfumature, dimostrando ancora una volta la sua eccezionale capacità di dare voce alle complessità dell'animo umano.
Intervista esclusiva ad Aurora Peres
“Barbara non sta benissimo nell’ultimo episodio: non so quanto possa essere spoiler dirlo ma già dal promo della puntata sin intuisce che qualcosa non andrà proprio per il verso giusto”, scherza Aurora Peres quando le chiedo che ne sarà del suo personaggio nell’ultima puntata della serie tv di Rai 1 Doc 3, dove presta il volto all’assistente del dottor Fanti.
Tra l’altro, Barbara sarà alle prese con qualcosa di molto complesso che ben spiega la deriva che può prendere la sindrome di De Clerambault, di cui soffre. Comunemente definita “erotomania”, fa pensare a qualcosa di molto piacevole ma che così non è.
Spesso il termine viene inteso erroneamente: si pensa subito all’eros e lo si associa alla ninfomania. In realtà, come dimostra il personaggio di Barbara l’erotomania non è altro che il travisamento di un sentimento, di una relazione e dello stesso amor proprio. Ha a che fare con il modo in cui si concepisce l’amore.
Finendo spesso per trasformare l’eros in thanatos…
E qui si aprirebbe una parentesi senza fine. Ma quante volte anche nelle relazioni non patologiche la fine degli amori corrisponde a una morte e poi a una rinascita? Ho oramai compreso come ogni persona che incontriamo abbia un ruolo nella nostra vita. Di conseguenza, tutte le varie relazioni che viviamo portano a uno step in più nella comprensione di qualcosa di sé… e, quindi, tutte le volte che si interrompono equivalgono a morti ma anche a rinascite, almeno per come ho vissuto io certe situazioni. È come se le relazioni fossero pezzi dell’evoluzione di ognuno di noi, come se fossimo sempre uno in funzione dell’altro.
Nel caso di Barbara la situazione è realmente patologica fino a farle perdere il contatto della realtà. Di lei, mi ha colpito e fatto tenerezza vedere come travisa la realtà circostante e la relazione con Enrico per quel bisogno che ha di colmare un vuoto. Sentivo fortissimo il suo dolore al punto che, quando sostenevo il provino per il ruolo portando l’oramai famosa scena dello yogurt, piangevo: eravamo di fronte a un atto di dispercezione totale della verità. Vista da fuori può anche far ridere ma pensare che qualcuno si ritrovi realmente in quella situazione è straziante.
L’erotomania è legata alla fascinazione che si subisce per qualcuno che ha una posizione di rilievo maggiore a chi ne soffre o per qualcuno che è famoso. La fascinazione, in questo caso, rasenta l’ossessione: stabilire il confine tra l’una e l’altra cosa diventa complicato. Sei mai stata vittima di fascinazione, attiva o passiva che sia?
Non so se sono mai stata oggetto di fascinazione per qualcuno: sì, ho avuto esperienze non proprio positive con una persona ma è un’altra storia legata alla totale mancanza di ascolto per la fine di una relazione (tanto che ho dovuto mettere in atto una strategia da no contact)… E non ho nemmeno mai avuto un’ossessione particolare nei confronti di qualcuno, nemmeno da adolescente. Forse, sì, ho subito il fascino dei Depeche Mode durante un concerto ma quello era dovuto all’incredibile carisma di Dave Gahan: quando l’ho visto comparire sul palco, sono rimasta come immobilizzata ma non ho mai provato a stalkerizzarlo (ride, ndr).
Ti ha traumatizzata quell’esperienza di mancato ancoraggio alla realtà?
È una questione oramai superata con il lavoro che ho fatto e che continuo a fare quotidianamente, dalla mattina alla sera, su di me. Agire su se stessi è quasi sempre la base da cui partire ma è anche fondamentale per chi, come me, decide di fare l’attrice. Oltre che per le relazioni di cui il mio ambito professionale è fatto, per lavorare su un personaggio che si rapporta con contesti molto impegnativi dal punto emotivo è necessario andare sempre verso il proprio centro. Non dico di essere centrati, nessuno lo sarà realmente mai, ma almeno di avvicinarvisi, aderendo all’evoluzione di se stessi, dal momento che siamo tutti in continua evoluzione.
Ho fatto terapia sia da sola ma anche con un professionista. E tra l’altro consiglio sempre a tutti di fare terapia: non è soltanto qualcosa che dovrebbero fare gli artisti ma tutti quanti, anche quando sentiamo di stare bene… ci aiuta a conoscere meglio noi stessi.
E tu cosa hai scoperto di te stessa con la terapia?
Ho realizzato di non essere tante cose: dall’esterno, mi avevano come imbottita di sentimenti e di emozioni che non mi appartenevano. Ho scoperto ad esempio di essere molto meno arrabbiata di quanto pensassi: avevo ereditata da tante altre persone e dall’ambiente in cui ero cresciuta. Non mi riferisco alla mia famiglia ma alla mia città, Palermo, in cui inevitabilmente si assorbe quel forte senso di ingiustizia che si respira ancora a ogni angolo. Ho capito che avrei dovuto smettere di difendermi continuamente e non sentire più la necessità di stare in attacco per difendermi e prevenire un dolore.
Nata nel 1982, hai conosciuto da piccola una realtà palermitana che faceva orrore: eri bambina negli anni Novanta, le stragi di mafia si susseguivano e quasi tutti i giorni per strada era possibile incappare in un omicidio. Da qualche parte la paura che provavi doveva pur uscir fuori…
È qualcosa che mi ha toccato profondamente e mi ha segnato tantissimo… la mia rabbia è stata generata dalla continua paura e terrore che da un momento all’altro potesse esplodere una bomba. Io ricordo ancora dove il 19 luglio del 1992, giorno dell’attentato a Paolo Borsellino. Ero al mare a Cefalù con mia madre… Purtroppo, era qualcosa che tutti ci si aspettava: ho davanti agli occhi l’immagine di mio padre che arrivava con la macchina, apriva lo sportello, scendeva stravolto e ci abbracciava, dicendoci che era successo quello che avevamo paura che succedesse.
Il ricordo è molto nitido anche perché la morte di Borsellino ci toccava in prima persona. La mia famiglia era vicina alla sua: mia cugina era in classe con la figlia del magistrato, che avevamo avuto modo di conoscere. Conoscevamo bene il percorso che Borsellino stava attuando contro la mafia.
Ma ho in mente anche il 23 maggio 1992 e la morte di Giovanni Falcone. Anche quel giorno è stato tremendo: ero ad una festa di una delle compagne della scuola elementare che frequentavo e l’animatore è stato interrotto da qualcosa che la madre della festeggiata ha detto al suo orecchio. Non ricordo bene le parole esatte ma subito dopo siamo tutti rientrati nelle nostre case.
Proprio perché hai un ricordo così forte di quei giorni, cosa hai pensato quando da attrice hai avuto modo di prendere parte al film per la tv dedicato ad Emanuela Loi?
Ho pensato che il mio karma diventava missione: è la frase che è alla base dei miei lavori oramai. Quando mi arriva un’opportunità, vuol dire che allora posso e devo farmi da tramite: una parte di me può servire al personaggio e alla storia. È alla base di tutto ciò che mi muove verso il lavoro, altrimenti sarebbe semplicemente una corsa al lavoro o al successo. Non è il mio caso: preferisco essere un tramite per gli altri e mettere a disposizione parte della mia vita o di qualcosa che ho vissuto o ascoltato. È quando si comprende ciò che cambia non solo la qualità del lavoro che fai ma anche tutto.
Un lavoro che, comunque, non hai iniziato da bambina. La tua biografia è fatta da un anno di studi in Biologia e da uno in Lettere prima di entrare alla Silvio D’Amico… leggenda vuole che se non fossi stata presa, avresti dovuto ritornare a Palermo e riprendere l’università su aut aut di tuo padre.
Fortunatamente, ero un anno in avanti con gli studi perché avevo fatto la famigerata “primina” (non so se esiste ancora). Per certi versi, è come se avessi recuperato quell’anno che mi era stato “rubato” tanto tempo prima e che mi faceva sentire sulle spalle anche il peso delle aspettative. Avevo sempre studiato tantissimo perché dovevo prendere voti alti per dimostrarmi sempre all’altezza della situazione. I miei erano anche docenti e quindi avevo come interiorizzato la figura del professore: un voto nella media sarebbe stato sicuramente motivo di conversazione con i miei per capire come mai era accaduto, soprattutto in matematica o fisica, le loro discipline.
Nonostante i genitori “scientifici”, hai frequentato il liceo classico, l’Umberto I.
Fondamentalmente, i miei mi hanno sempre lasciata libera di scegliere in base a cosa mi piacesse maggiormente. Ho sempre avuto una passione per le materie umanistiche, una passione così forte da amare alla follia l’Iliade e l’Odissea. Di conseguenza, ho optato per il liceo classico ma sperimentale, per cui matematica e fisica erano molto presenti come materie.
Però, è arrivato lo stesso l’aut aut.
Provenendo da un ambito accademico, ci tenevano che frequentassi un’accademia per diventare attrice (non sapevano che esistono anche dei maestri che possono formarti altrettanto bene). E un’accademia che fosse seria e riconosciuta, come poteva essere la D’Amico o il Piccolo. Se non fossi stata presa, sarei dovuta ritornare in Sicilia e riprendere gli studi universitari… ragione per cui mi sono presentata all’esame di ammissione con la volontà e il fuoco sacro negli occhi: non potevano non prendermi, si capiva quanto fossi determinata a lavorare e studiare…
Quello stesso fuoco che, comunque, pur non calcando laboratori teatrali, avevi già mostrato da bambina quando ti dilettavi a imitare chiunque colpisse la tua attenzione, rischiando spesso incidenti diplomatici familiari.
Sono sempre stata molto silenziosa e ho sempre osservato tantissimo gli altri. Da piccola, quindi, stavo sempre con chiunque i miei genitori stessero: guardavo ogni cosa e nel farlo coglievo le contraddizioni o le peculiarità che notavo e, quando la persona presa in oggetto mi parlava, rispondevo esattamente con il suo stesso tono di voce o con le sue caratteristiche di esposizione, creandole imbarazzo.
Ma giuro che l’obiettivo non era l’imbarazzo ma c’è stato anche chi a un certo punto, non appena mi vedeva all’orizzonte, scappava via per non trascorrere del tempo con me (ride, ndr). Lo facevo quasi in automatico ma adesso ho smesso: preferisco quando lo fanno a me, ho delle caratteristiche che dicono essere buffe e rido molto quando qualcuno riesce a coglierle. Sono molto autoironica: occorre sempre accettarsi o provare a farlo il più possibile e comprendere che anche il prendere in giro può essere in taluni contesti frutto d’amore o di condivisione.
Sei quindi ancora timida?
Sono ancora timidissima. È stato poi il mettere piede sempre da piccola su un palco (in quel caso, sarebbe meglio dire una pedana) che mi ha aiutata: per me, era come entrare in uno spazio sacro che mi permetteva di essere altro da me pur conservando parti di chi ero. In scena, potevo aprir bocca e per mezzo di altri dire ciò che avrei voluto dire io. La prima volta avevo undici anni, ero alle scuole medie e mettevamo in scena l’Antigone…
Che sensazione ti restituisce il pubblico quando sei in scena?
L’applauso ma anche il silenzio equivale a un grande abbraccio: è come se fosse in atto un dialogo vero e proprio per cui dai qualcosa e ti arriva lo stesso in cambio. Provo un forte senso di espansione ma anche di accoglienza, la stessa che dovrebbe applicarsi anche nella società in cui viviamo per molti altri aspetti.
Hai portato per 14 anni in scena uno spettacolo dal titolo Interiors. Ciò ha fatto sì che la Scozia diventasse la tua seconda casa e Matthew Denton e la compagnia Vanishing Point la tua famiglia acquisita.
Da loro, mi sono subito sentita accolta. Quando ho cominciato a lavorare con Matthew e la Vanishing Point, ho dato un senso agli anni di studio che avevo fatto: nel contesto artistico, era il massimo di quello che potevo desiderare. Mi hanno sempre fatta sentire bene e lo stesso vale per gli scozzesi in generale, molto simili ai siciliani.
Come famiglia per certi versi sarà per te Marco Bellocchio. Ti ha scelta per quattro suoi differenti lavori: Il regista di matrimoni, Vincere, Il traditore ed Esterno notte. Cosa di te lo ha colpito?
Bisognerebbe chiederlo a lui (ride, ndr). È una domanda che ovviamente mi sono posta anch’io nelle fasi di autoanalisi e spesso la risposta verte sul legame artistico affettivo che ha nei miei confronti. Mi ha conosciuta quando ancora frequentavo l’ultimo anno di accademia e sin da subito si è creata un’intesa lavorativa grande sul set di Il regista di matrimoni: da persona curiosa e attenta, da quel momento ha continuato a seguire il mio percorso, come fa anche con altri attori e attrici che conosco.
L’ho invitato ad esempio ad alcuni dei miei spettacoli teatrali e ogni volta ho cercato il suo parere, chiedendogli il suo punto di vista. Ricordo benissimo quando è venuto a vedermi interpretare Regan in Re Lear: si è interessato molto alle dinamiche in scena chiedendomi di potermi vedere più da “vicino” per capire come si potessero sviluppare davanti a una macchina da presa… ed è stato quello a portarmi al provino di Esterno notte, dove ho poi interpretato Maria Frida, la figlia di Aldo Moro con un legame col padre molto diverso da quello di Regan.
Eppure, per Il regista di matrimoni non eri andata al provino per te…
Esatto, avevo accompagnato in motorino un’altra persona. La stavo aspettando fuori quando è tornata indietro per dirmi che Bellocchio voleva provinarmi: aveva visto una mia foto, aveva scoperto che studiavo all’accademia e che per di più ero là ferma là davanti… Non sapevo cosa lo avesse colpito o perché volesse conoscermi ma salii, entrai in una stanza e cominciai a parlare con un uomo che non avevo mai visto in vita mia delle Tre sorelle di Cechov in cui avevo interpretato Irina. Non avevo la più pallida idea di come l’uomo che avevo davanti e che rideva fosse in realtà Bellocchio in persona e che tutta quella conservazione fosse stata ripresa.
Che hai provato dentro te il primo giorno in cui hai sentito dire “Motore, ciak, azione”?
Che ero dove volevo stare: tutto era avvenuto con un’organicità così armoniosa per cui doveva necessariamente esserci un motivo per cui ero lì. Ero ovviamente emozionata, non ero mai stata su un set cinematografico ma avevo profonda fiducia in Bellocchio per come mi parlava e per come mi raccontava la scena. Di sicuro, non tremavo: non ero spaventata ma proprio perché ero a mio agio con lui.
È una sensazione che non si ha purtroppo sempre. Capita di lavorare con registi che trasmettono agli attori tutte le loro preoccupazioni, anche quelle che non hanno a che fare con la scena o con la storia in questione, facendoti chiedere persino se stai lavorando bene o no. Però, sono anche stata fortunata finora: mi è capitato solo una volta.
E sicuramente non è stata sul set di Doc…
Ho lavorato magnificamente. I tre registi sono stati formidabili e si è creata, al di là delle loro differenze, una grande sintonia che ha permesso a tutti di lavorare bene.
Doc 3 - Nelle tue mani: Le foto della serie tv
1 / 28Ti reputi un’attrice a cui sono state concesse tutte le opportunità che si meritava?
Onestamente? No. Ma per un problema di cui da qualche tempo molte artiste stiamo cominciando a parlare, legato alla scrittura: non ci sono tanti personaggi per noi donne ma non perché non si scrivano (esistono sceneggiatrici incredibili di testi che vengono reputati ‘diversi’ da quelli che solitamente si chiedono): semplicemente, perché non si dà loro una possibilità.
Se avessi la possibilità di concretizzarlo, quale sarebbe il ruolo dei tuoi sogni?
A me piace molto la storia di Modesta di L’arte della gioia ma mi sa che sono arrivata tardi (ride, ndr). In quella storia c’è tutta l’evoluzione di un personaggio, di una donna che diventa forte perché deve trovare sempre una soluzione alla situazione in cui si trova.
Ancora una volta torna la parola “evoluzione”.
Perché credo nel divenire. Quando accade qualcosa, guardo sempre a quello che succederà da quel momento in poi. Quello che è stato è stato: ripartiamo.
L’aspetto fisico ti ha agevolato o ostacolato?
In passato, per determinate cose, mi ha ostacolato: con i miei tratti marcati, rientravo a quanto parere nei canoni estetici dei film francesi. Non ho mai però pensato più di tanto al mio aspetto fisico: anche quando un personaggio doveva comunque avere delle caratteristiche piacenti, preferivo concentrarmi sul come avrei attuato la seduzione e non tanto sul come mi sarei presentata.
E l’essere siciliana?
È qualcosa da cui non posso prescindere… anche se ultimamente sono più ai progetti a cui ho lavorato da non siciliana che da siciliana. In passato, però, è stato un limite: venivo classificata come la “sicilianotta”. La siciliana è stato uno stereotipo che mi ha accompagnata ma quando si rendevano conto che non corrispondevo alla loro idea rimanevano spiazzati: siamo il luogo di origine ma anche tantissime altre cose. Ho Palermo dentro ma l’essermi spostata a Roma ha avuto un’influenza su di me così come le esperienze che ho vissuto: occorrerebbe avere una mente un po’ più aperta per non classificare, categorizzare o etichettare le persone.
Ha il tuo lavoro inficiato con la tua vita privata?
Inevitabilmente lo ha fatto. Sarebbe stato necessario avere al fianco qualcuno che comprendesse che il lavoro mi avrebbe potuto allontanare per dei mesi ma non sempre è stato facile farlo capire. Non sono sposata e non ho figli… anche se sui figli ci sono esempi di donne che hanno dimostrato come si può ben coniugare il lavoro di attrice con la maternità, come Barbara Ronchi ed Elena Radonicich. Però, su una cosa sono ferma: lo Stato dovrebbe offrire un sostegno differente, economico e anche umano, alle donne che scelgono di diventare madri.
Cosa ti aspetta oggi?
A parte gli spettacoli teatrali le cui informazioni si trovano online, collaboro con uno spazio meraviglioso che si chiama Lotto unico, un centro con una serie di laboratori che speriamo di trasformare in un polo d’arte che abbia collegamenti con tutta l’Europa, aperto a tutti, dai bambini in poi. Anche questo può considerarsi per me famiglia: lo spazio è a tutti gli effetti una grande casa, con un ambiente molto grande per provare ma con dentro una cucina, un letto, due bagni con doccia, uno spogliatoio…
Cosa vuol dire per te “casa”?
Amore, anche se sembra banale. Ma è anche il luogo in cui posso essere me stessa e ascoltarmi.