L’incontro con Aurora Ruffino è fissato qualche ora dopo la conferenza stampa di La luce nella masseria, il film evento di Rai 1 prodotto da Eliseo Entertainment di cui è protagonista e che nasce in seno alle celebrazioni dei 70 anni della Rai. Aurora Ruffino è in pausa dal set, è impegnata nelle riprese della seconda stagione della serie tv Black Out – Vite sospese, altro successo della rete che ben presto ospiterà un ulteriore progetto della trentaquattrenne attrice torinese, La lunga notte.
Del resto, da sempre Rai 1 è stata la casa televisiva di Aurora Ruffino da quando, dopo gli esordi al cinema con La solitudine dei numeri primi e Bianca come il latte, rossa come il sangue, la tv di stato l’ha trasformata in una delle protagoniste di una lunga sfilza di titoli: Braccialetti rossi, Questo nostro amore, Non dirlo al mio capo, I Medici e la (purtroppo) sottovalutata Noi. Un po’ di ansia da prestazione nell’incontrarla c’è ma Aurora Ruffino rompe sin da subito il gelo con la delicatezza del suo sorriso, un tratto che non perde nemmeno quando parla delle parentesi difficili della sua vita.
Un’esistenza in salita la sua, si direbbe con una frase fatta. Certo, lo è stata ma non entreremo mai nel dettaglio del perché e del per come: quello che ci colpisce è semmai il modo in cui Aurora Ruffino ne parla con sincerità e consapevolezza. Ed è proprio nella parola consapevolezza che si racchiude il mondo interiore che Aurora Ruffino sta cercando di sondare e indagare attraverso la ricerca spirituale che ha cominciato a trent’anni quando, in un momento di crisi personale, ha incontrato sul suo cammino Il libro rosso di Jung.
Intervista esclusiva ad Aurora Ruffino
“Non è stato difficile recitare con una flessione dialettale diversa dalla mia: sono cresciuta in una famiglia con sangue calabrese, sentendo parlare più il dialetto calabrese che quello piemontese”, scherza Aurora Ruffino quando le chiedo com’è stato interpretare Imma, le cui vicende raccontate nel film La luce nella masseria in onda su Rai 1 il 7 gennaio si svolgono a Matera.
Imma è una giovane donna autodeterminata e abbastanza avanti con i tempi, definizione con cui Aurora Ruffino concorda. “Imma è l’emblema della donna moderna e in cambiamento rispetto al passato: è una donna che sogna l’indipendenza e la libertà provando a realizzarsi anche a livello professionale. Sin da quando era bambina, sognava di diventare infermiera e fa di tutto per concretizzare il suo desiderio: frequenta l’università, studia e decide di allontanarsi dalla sua città natale prendendo la sua piccola Cinquecento e arrivando a Matera guidando da sola. A Matera, lavora per uno studio medico e nel frattempo prosegue con gli studi: le mancano pochi esami e finalmente sarà infermiera”.
“È sicuramente una figura femminile anomala per l’epoca, soprattutto nell’Italia del sud”, continua Aurora Ruffino. “Le donne al sud avevano un ruolo molto importante dal momento che erano le padrone di casa: sulle loro spalle, verteva il peso di tutta la gestione domestica e della crescita dei figli. I mariti uscivano all’alba e stavano fuori tutto il giorno, erano dei grandi lavoratori e delegavano alle donne le redini della gestione delle questioni familiari. Tuttavia, la maggior parte di loro non avevano la possibilità neanche di proseguire con gli studi”.
Imma è una donna che per essere definita non ha bisogno di avere accanto una figura maschile.
Quando la vedono arrivare a Matera in macchina da sola, tutti si chiedono cosa ne pensino i suoi genitori. Non era ben visto che una donna da sola andasse in giro o cambiasse persino città. Ma l’aspetto meraviglioso di Imma è che a lei di tutto ciò che pensano gli altri e del giudizio non importa niente: va avanti determinata per la sua strada ma senza mai perdere di vista i suoi valori. Sogna ad esempio l’amore vero…
E spera di trovarlo in Vincenzo, il giovane interpretato da Domenico Diele.
Lo conosce a Matera in una situazione molto particolare. Si incontrano infatti nello studio medico in cui Vincenzo riceve la notizia, molto brutta, della malattia che lo ha colpito e che dovrà imparare ad accettare, con grandissima difficoltà. Vincenzo è un gran lavoratore, una specie di capofamiglia per cui non è facile accettare l’idea di dover chiedere aiuto. Imparare a lasciarsi aiutare e amare per lui sarà un percorso tutt’altro facile durante il quale Imma gli starà vicino ponendo le basi di un sentimento molto prezioso nato in un momento così fragile e vulnerabile.
Cosa ti ha spinto ad accettare il ruolo di Imma nel film La luce nella masseria quando ti è stata proposta?
Non mi è stata proposta, faccio ancora i provini (ride, ndr). Nei miei 14 anni di lavoro come attrice, ho imparato che ogni storia è qualcosa a sé: anche quella che ti può sembrare la più insignificante, ti insegna sempre qualcosa e ti dà la possibilità di capirti e di svelare cose di te in maniera diversa. Per me, recitare è un modo di mettersi alla prova, ragione per cui sono sempre molto aperta ad accogliere tutto ciò che arriva dalla vita e a capire cosa posso donare io in una specifica occasione.
La luce nella masseria mi ha dato l’opportunità, ad esempio, di far parte di un progetto che celebra la Rai e la televisione: sono molto legata alla Rai perché mi ha dato la possibilità di vivere il mio sogno e di fare questo meraviglioso lavoro. Ma mi ha anche molto colpita la sceneggiatura: La luce nella masseria è una fiaba, con la sua storia che mi ha fatto tornare indietro nel tempo, a quando ero bambina e mi sedevo con la famiglia a vedere un bel racconto che toccava in maniera trasversale il cuore di tutti, dalla persona più anziana alla più piccola.
La luce nella masseria è un film che si vede insieme a tutta la famiglia e con piacere perché ha il potenziale per mettere insieme tutti quanti davanti alla tv e trascorrere un’ora e mezza a ricordare quegli anni del passato… ho come l’impressione che vederlo sia come guardare quei vecchi filmini o album di famiglia in grado di restituire quella sensazione di meraviglia e di aria magica che si viveva.
Ti sei rivista nel piccolo Pinuccio?
La verità? No. Mi sento semmai molto vicina a Imma, con cui condivido gli stessi ideali: indipendenza, libertà e verità. Imma ha un padre inesistente e una madre di cui non parla mai, prende ogni decisione da sola sia nel bene sia nel male e porta il peso di tutto ciò che fa sulle sue spalle: mi rivedo molto in lei… come mi ritrovo nel suo coraggio nell’andare avanti per la sua strada qualsiasi cosa succeda, per conto suo.
La luce nella masseria: Le foto del film
1 / 15Mi colpisce la serenità con cui parli anche tra le righe del tuo privato.
Ci sono fasi di vita in cui si raggiunge una consapevolezza che prima, quando si è più giovani, non si ha perché accecati da altri tipi di emozioni che non ti permettono di vedere o di pensare lucidamente.
Parlando di televisione, quali sono i tuoi ricordi da piccola legati a ciò che vedevi?
Non mi perdevo mai la Zingara di Cloris Brosca e la sua Luna Nera: con tutti i miei fratelli e le mie sorelle guardavamo Luna Park su Rai 1 e non vedevo l’ora che arrivasse lei, con la sua meravigliosa canzoncina. Ma ricordo anche con molto piacere Milly Carlucci, rimanevo incantata nel guardarla, e Raffaella Carrà, che meraviglia! Ricordo anche che da bambina, nel guardare la televisione, ero rapita dai microfoni, dai cosiddetti “gelati”: non capivo come mai si sentisse la voce delle persone solo quando li avvicinavano alla bocca. Mi chiedevo come mai, quando lo allontanavano, sparisse loro la voce (ride, ndr). Non ricordo come abbia scoperto a cosa servisse il microfono, forse l’avrò chiesto a mia zia.
Cloris Brosca, Milly Carlucci e Raffaella Carrà: curiosamente, hai citato il nome di tre volti televisivi che sono legati anche alla recitazione…
Raffaella Carrà ha anche frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma, come me. La sua fortuna è stata proprio quella di essere rifiutata dal cinema: con quella sua immagine da bambina, le dicevano, non poteva mai interpretare le donne che andavano di moda all’epoca. In un’intervista, ha anche raccontato quanto la facesse soffrire ciò. Ma è innegabile che abbia conservato una certa spontaneità e una purezza dell’essere che ha contribuito a renderla immortale e amata da tutti: basta guardarla negli occhi per capire che era se stessa e che non indossava alcuna maschera.
Con il cinema che le diceva “no”, ha trovato la sua strada nel mezzo televisivo, che le ha permesso non solo di esprimersi ma anche di tirare fuori i suoi talenti come artista e come comunicatrice: è stata una grandissima cantante, una formidabile ballerina e una brava attrice, una performer completa in grado con la sua genuinità di arrivare al cuore delle persone. Raffaella Carrà è stata un dono meraviglioso per tutti noi che potevamo guardarla in televisione: era rassicurante e trasmetteva gioia con quel suo caschetto biondo, il suo sorriso e la sua risata meravigliosa. Si capisce che ero innamorata di lei? (ride, ndr).
Ti hanno mai proposto di condurre un programma tv?
Non ancora. Dico “non ancora” perché, in realtà, il mio percorso finora è stato molto lento ma costante e lineare, senza grandi picchi. Mi piace molto che sia stato e sia così perché dà a me stessa il tempo di scoprirmi e capire chi sono. Quando da molto giovani si vivono momenti di estremo successo o popolarità, è più facile perdersi tra le onde di ciò che capita. Braccialetti rossi ha di certo rappresentato per me un bel picco ma l’ho vissuto in maniera moderata: non esistevano ancora i social ad amplificare il successo del prodotto. Sulla scia di questa linea costante, non escludo nulla: sto piano piano iniziando a prendere consapevolezza di me e chissà che un giorno non possa decidere di cimentarmi in progetti diversi da quelli che ho finora fatto. Chi lo sa cosa succederà dopo? Lasciamoci sorprendere.
Nel finale, molto bello, di La luce nella masseria, c’è una scena che in tutta la sua saggezza popolare restituisce una forma di illuminazione, se vogliamo: “canta il gallo”. Per te, a livello privato, il gallo ha cantato nel momento in cui ti sei ritrovata a leggere Il libro rosso di Jung.
Divido la mia esistenza tra un prima Jung e un dopo Jung… Quando ho letto Il libro rosso, ho dato un senso anche a una delle domande che sentivo far spesso: ‘Qual è il libro che ti ha cambiato la vita?”. Ogni volta che la sentivo o la leggevo, mi chiedevo come potesse un libro scritto da qualcun altro sortire quell’effetto, non ne capivo la potenza o la portata. Con Jung, invece, ho scoperto cosa significasse.
Sono arrivata al Libro rosso in un momento di crisi interiore… per fortuna che esistono le crisi, accogliamole quando si presentano perché sono indice dei momenti più fertili per guardarsi dentro e ascoltarsi. La lettura ha acceso in me un fortissimo desiderio di ricerca spirituale che nulla ha a che vedere con una religione in particolare ma che le include tutte.
La mia è una ricerca spirituale tesa alla verità e alla conoscenza di chi siamo noi come esseri umani e del senso della vita. Siamo tutti quanti esseri che vivono in un mondo sospeso all’interno dell’universo… Perché non ci pensiamo o non ne parliamo mai? Perché non parliamo mai del fatto che siamo esseri che, oltre a nascere, muoiono? Veniamo tutti cresciuti con il pensiero di andare a scuola, di studiare, di trovare un lavoro e di guadagnare tanti soldi per poi comprare una casa, farsi una famiglia e, infine, morire: ma quando si arriva al punto di lasciare il nostro corpo fisico qual è il senso di tutto ciò?
Ed è da queste domande che è nata in me l’urgenza e la necessità di trovare delle risposte. Ho iniziato allora a fare i miei studi e le mie letture, vivendo quello stesso innesco interiore che dicono aver avuto anche Franco Battiato a trent’anni. È ovviamente una ricerca che non smette mai di essere tale: non si raggiunge mai una risposta definitiva perché una risposta soddisfacente per la nostra mente, limitata, non esiste.
La comprensione di tutto ciò risiede nella saggezza ma la saggezza non va mai di pari passo con l’intelligenza mentale. Tutte le religioni provano a dare risposte che portano al di fuori di noi quando invece la risposta sta dentro a ognuno di noi. Mi appassiona è la ricerca della nostra essenza, quella cosa di cui sono fatti gli uomini ma anche tutta la natura: se riuscissimo a essere tutti consapevoli di ciò, allora scomparirebbero la separazione, le divisioni e il desiderio di farsi male l’uno con l’altro.
Cosa aveva generato la crisi che vivevi?
Attraversavo un momento in cui soffrivo perché non riuscivo a capire quale fosse il senso di alcune cose che succedono nella vita. Me ne chiedevo il perché… e ho poi scoperto che nella vita niente accade per caso: Jung parla di sincronicità, un concetto molto diverso da quello di coincidenza. Anche un pacco di fiammiferi che cade per terra in un certo modo ha un suo perché: in pratica, la sincronicità è un evento esterno a noi che ha un profondo legame con qualcosa di interno, basterebbe scoprire qual è la connessione.
Mi sono resa conto che la mia vita era fatta di tante sincronicità. Ma non solo la mia. Sembra qualcosa di magico ma in realtà è alla portata di tutti, solo che non ne siamo consapevoli. È come se fossimo tutti in una stanza al buio e bendati: prenderne consapevolezza equivale a iniziare ad aprire pian piano gli occhi e cominciare a vedere, anche da una piccola fessura, tutto ciò che ci sta intorno e che prima non si vedeva. Non esistono regole precisa o un momento giusto per farlo: ognuno avrà il suo.
È facile volgere lo sguardo all’interno del proprio io?
Non lo è stato. Prima di arrivare in profondità, ci sono strati e strati di questioni dolorose con cui fare i conti: è un po’ come se si affrontasse un viaggio per gironi danteschi. Grazie alla lettura di Jung e alle ricerche, sono arrivata a un livello zero, quello che viene dopo la totale inconsapevolezza, quello del risveglio dopo una vita passata a cercare risposte al di fuori di me. Non è che quando ci si risveglia si diventa illuminati come Buddha (ride, ndr): partire dal livello zero significa cominciare ad aprire gli occhi come un bambino che nasce e lo fa per la prima volta.
Si comincia con il vedere cose di se stessi che prima non si vedevano e con il cercare di capirle: servono anni e anni per superare ogni livello e scendere nelle profondità della propria verità. Ho letto Jung a trent’anni ma ci ho messo ad esempio tre anni prima di smettere di dire bugie: ho smesso un anno fa dopo aver iniziato tale percorso da tre anni. È stato un lento scavare ma sono arrivata al punto di dirmi intanto io una verità che prima non mi dicevo. Fa paura essere autentici e sinceri con se stessi e con ciò che si sente come fa paura dover mettere a rischio ciò che credi sicuro ma che invece non è ciò di cui hai bisogno.
Non è facile: si crea un terremoto intorno, rimetti in discussione la tua stessa identità per capire chi sei realmente e in base a cosa definirti. Non sono il mio corpo che cambia e si deteriora, non sono il mio lavoro, non posso essere definita in quanto figlia perché è una costruzione mentale… e allora chi sono? La sofferenza fa male ma che ben venga se serve per evolvere, se è funzionale a fare dei passi in avanti. Non va rifiutata ma accettata e affrontata.
Ha influito la tua ricerca di consapevolezza in chi ti stava accanto?
Non ho l’obiettivo di far capire agli altri cosa sto vivendo io interiormente. È ovvio poi che ci sia una sorta di desiderio di farlo vivere anche agli altri ma non lo posso imporre. La vita mi mette di fianco persone con cui posso condividere la mia esperienza e discuterne perché magari hanno vissuto un percorso simile al mio, altrimenti non ne parlo in maniera random con il primo che capita. Non è mio compito convertire gli altri né al risveglio interiore né alla ricerca spirituale.
Anche perché si corre il rischio che la stessa idea venga rifiutata proprio perché ognuno di noi ha un proprio percorso da fare. Se fosse venuto qualcuno a parlarmene quando avevo 25 anni, probabilmente lo avrei mandato a quel paese: non sarei stata pronta. Non è un caso che le statistiche dicano come si cominci spesso a far ricerca interiore dopo incidenti o dopo aver vissuto momenti drammaticissimi o di estrema gioia: ognuno ha la sua scintilla.
Hai smesso di mentirti un anno fa. Che bugie ti dicevi?
Sono sempre stata una grande bugiarda perché non avevo il coraggio di dire quello che pensavo veramente: avevo paura di me stessa e della mia verità, di essere giudicata per quello che pensavo o sentivo, di ferire chi avevo vicino… si mente sempre per paura e mai per amore. La paura era quella di guardarmi dentro e dirmi delle verità che mi avrebbero portata poi a prendere decisioni che, quando l’ho fatto, si sono rivelate molto difficili.
Vivevo ad esempio una relazione meravigliosa che durava da sette anni con un ragazzo francese che ho amato moltissimo. Dentro di me, però, c’era qualcosa, una sensazione negativa allo stomaco che non mi faceva star bene e di cui non capivo il perché. Era comunque il ragazzo dei miei sogni: sensibile, intelligente, mi amava alla follia e avrebbe fatto qualsiasi cosa me. C’ero sempre io al primo posto delle sue priorità ed era veramente un uomo meraviglioso, tutta la mia fonte di stabilità e sicurezza. Eppure, quella sensazione allo stomaco ogni tanto tornava: ci ho impiegato tre anni per ascoltarla, accettarla, capirla, e per darmi il coraggio di lasciare un porto sì sicuro ma che non era quello che volevo veramente io.
Quell’uomo meraviglioso era il sogno di me bambina. Ma io non sono più quella bambina…
Che bambina sei stata?
Quando si è bambini, si vivono i momenti più indelebili, felici e spensierati della propria esistenza. Ma così non è stato per me. Sono stata una bambina molto silenziosa, che sognava l’amore in generale, a livelli quasi patologici (ne pago ancora le conseguenze). Nel vivere esperienze molto dolorose, ci si rifugia nella fantasia: è stato il mio modo di reagire al dolore che provavo per tutto ciò che mi mancava. Immaginavo allora di essere riempita dell’amore di qualcuno, di un uomo che mi avrebbe amata alla follia e per cui sarei stata la cosa più importante del mondo…
Mi sono persa per anni nella fantasia di essere amata alla fine da qualcuno ma quel mio modo di sopravvivere (non di vivere) mi ha creato delle ferite interiori che ancora porto. Ho aspettato per anni di essere salvata dall’amore incondizionato di qualcuno per sentirmi validata, vista, accettata. Mi serviva per darmi un valore ma, non trovandolo, mi sono sentita frammentata, con una sensazione perenne di vuoto per non riuscire a dare a me stessa quel riconoscimento esterno che desideravo.
E oggi faccio i conti con tutto ciò. Sto cominciando a prendere consapevolezza di ciò solo ora che sono single per la prima volta nella mia vita. Per chi come me ha avuto questo tipo di dipendenza dall’amore dell’altro sono stati mesi molto duri: stando da sola, ho rivissuto il dramma di quando ero bambina e mi rifugiavo nella fantasia. Ho rivisto i miei errori e li ho rivalutati. Non significa che oggi non possa ricommettere gli stessi sbagli: la differenza sta nella consapevolezza. Prima li commettevo senza esserne consapevole, adesso potrei commetterli ma ne sarei consapevole.
Magari arriverà il giorno in cui non ricadrò più in certi schemi ma per un percorso di profonda conoscenza di se stessi servono coraggio e pazienza. Siamo tutti più pazienti con i nostri amici e i nostri familiari che con noi stessi, a cui riserviamo invece severità, cattiveria e intolleranza. Ed io con me stessa sono sempre stata severa e non tollerante: voglio imparare a esserlo meno e ad amarmi per davvero.