Volevo salvare i colori di Aurora Ruffino, edito da Rizzoli, è un romanzo intenso e toccante, che mescola sapientemente introspezione personale, amore e rinascita. La protagonista, Vanessa, affronta un doloroso percorso di crescita, segnato dalla perdita, dal dolore e dalla ricerca di sé. Attraverso il suo viaggio interiore, Vanessa riesce a riconciliarsi con il suo passato segnato dalla morte della madre il giorno della sua nascita, a trovare la forza di andare avanti e a scoprire l'importanza dell'amore per se stessa.
Aurora Ruffino riesce a trasmettere emozioni profonde grazie a una scrittura semplice ma evocativa. Le esperienze della protagonista dal nome di una farfalla, dalla perdita della madre al riscatto finale, sono narrate con una delicatezza che non scade mai nel sentimentalismo. La storia si sviluppa come un cammino verso la scoperta del valore personale e della connessione con gli altri, tematiche universali che risuonano profondamente con il lettore ma anche con la sua stessa scrittrice, la cui esperienza di vita è stata segnata dalla perdita della madre a soli cinque anni e da un padre assente.
Uno degli aspetti più affascinanti del romanzo (fiction e non autobiografia) Volevo salvare i colori è la capacità di Aurora Ruffino di fondere la narrazione con riflessioni sull'esistenza, l'amore e la resilienza. Il messaggio finale – quello di trovare bellezza nel dolore e di imparare ad amarsi nonostante tutto – è potente e ispirante, capace di trascendere un’esperienza personale per farsi universale.
Aurora Ruffino, già nota come attrice, dimostra in questo suo esordio letterario un talento innato per la scrittura, capace di toccare il cuore dei lettori. Volevo salvare i colori è una storia che invita a riflettere, a emozionarsi e, soprattutto, a non arrendersi mai di fronte alle difficoltà della vita. Un romanzo che non solo racconta, ma insegna, lasciando un'impronta profonda nell'animo di chi lo legge.
Di Volevo salvare i colori e di molto altro abbiamo conversato con Aurora Ruffino, in un dialogo ora personale ora sincronico. Per dovere di chiarezza anche nei confronti di chi legge, l’intervista è un confronto diretto e senza mezzi termini tra due persone che condividono l’esperienza della perdita e che con il dolore hanno fatto i conti per trasformarlo in altra consapevolezza, evoluzione e trasformazione.
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Intervista esclusiva ad Aurora Ruffino
“Me lo tenevo nascosto, non potevo ancora dire nulla”, risponde Aurora Ruffino quando le ricordiamo quanto sia stata attenta nel corso della prima intervista rilasciata a The Wom più di un anno fa a non accennare a nessun elemento che facesse pensare alla scrittura del suo libro Volevo salvare i colori.
Da dove nasce il romanzo?
Da molto lontano. Scrissi la prima pagina nel 2015 mentre ero impegnata sul set della terza stagione di Braccialetti rossi senza però immaginare che nove anni dopo si sarebbe trasformato in un romanzo: nella mia mente era un monologo ma, come sempre mi accade, quando comincio a scrivere non so mai che forma prenderà quello che ho in mente. Scrivo da sempre per rispondere a un istinto senza avere consapevolezza di ciò che verrà fuori e quella volta ho gettato il seme della storia di Vanessa, una ragazza che perde la madre il giorno della sua stessa nascita e che convive con il senso di colpa e il lutto.
Quel seme non mi ha poi ha abbandonata negli anni e ha continuato a germogliare fino a quando a fine 2019 mi sono seduta al computer e ho vomitato il romanzo. Uso il verbo “vomitare” con cognizione di causa perché è quella la sensazione fisica che ho provato nel lasciare emergere una storia che ho come subito. Paradossalmente, non ho avuto scelta e in quattro mesi la storia di Vanessa e del suo viaggio per trovare se stessa ha preso il volo.
Quel viaggio compiuto dalla protagonista, dalla Norvegia al Marocco, è lo stesso viaggio che anch’io ho voluto fare due anni dopo averlo scritto. Alla prima fase creativa, istintiva e violenta in cui disattivo il pensiero vivendo in una specie di limbo, è seguita successivamente una seconda fase di revisione e perfezionamento, per cui ho voluto vedere i luoghi che raccontavo per essere il più vicino possibile alla realtà nella loro descrizione.
Ma ciò che è più incedibile è come già dalla prima fase del viaggio, mentre mi trovavo in un campeggio a Odda, il romanzo abbia in qualche modo preso vita: ho conosciuto in quella circostanza un ragazzo che altri non era che il Thomas che la mia fantasia aveva creato. Con il mio personaggio, quel ragazzo condivideva la stessa storia di bullismo a scuola e di anni trascorsi chiuso in casa a giocare con i videogiochi. Gliel’ho persino detto, anche a rischio di passare per matta… ma è stato in quel momento che ho realizzato cosa significasse una frase che anni prima mi aveva detto un mio amico: “Le intuizioni sono memorie del futuro”. Ed è stata solo una delle tante sincronicità che si sono verificate durante quel mio viaggio.
Nulla, del resto, accade per caso.
Parlo sempre di sincronicità e mai di coincidenze. Mentre le coincidenze non collegano gli eventi a un significato comune, la sincronicità (termine junghiano) attribuisce una profonda connessione agli stessi, trovando un senso a ciò che accade.
In fase di revisione del romanzo, quando era oramai passata la fase del “vomito”, non hai mai avuto la paura di esporti troppo e di metterti a nudo senza difese?
No, perché, al di là del gioco di trovare le sincronicità con la mia vita reale, quella che racconto non è la storia della mia famiglia. Mi sentirei a disagio nello scriverla o nel proporre una mia biografia perché dovrei comunque parlare anche dei miei fratelli e delle mie sorelle, che invece non voglio mettere in mezzo. Quella di Volevo salvare i colori è una storia inventata: di mio, se vogliamo, c’è l’esperienza della rabbia e del dolore legata alla perdita di mia madre ma tutto il resto è fiction.
Eppure, sono tanti i giornalisti che in questi giorni nel relazionarsi a te cercano di capire quali sono i confini tra Aurora e Vanessa, chiedendoti elementi personali a partire dai pensieri della protagonista.
Il gioco lascia il tempo che trova: è un romanzo. Come la maggior parte degli scrittori, anch’io sono partita da una mia esperienza per poi creare ex novo una storia che non fosse la mia. La confusione nasce spesso dal pregiudizio legato al mio mestiere, come se un’attrice o un attore non potesse scrivere o avesse la capacità di farlo. Eppure, io scrivevo già prima di cominciare a recitare: Volevo salvare i colori non è la mia prima storia scritta, è semmai la prima che pubblico. La scrittura è sempre stata invece la mia forma d’espressione più profonda, vera e autentica, quella in cui mi rivedo maggiormente.
Non ho mai voluto provarci prima tenendo le altre storie per me per paura di sentirmi giudicata inadeguata, inadatta o non sufficientemente intelligente: per cliché, per essere uno scrittore sembra che ci sia bisogno di certi requisiti particolari… ma non è così: scrittore è colui che scrive. Uno dei miei autori preferiti è ad esempio Paulo Coelho, e non ha di certo una laurea alle spalle. Credo comunque che sia stato forse giusto vivere l’esitazione: solo provandola avrei potuto poi liberarmene definitivamente. Tutto è arrivato anche in questo caso quando doveva, nel momento giusto, senza ansia o agitazione.
Le domande sul privato credo poi che siano frutto anche della curiosità. Ho vissuto in prima persona la perdita materna e so cosa comporta, la conosco da vicino e, quindi, voglio pensare che siano “normali” le domande che mi vengono poste su quel tema specifico.
Il viaggio che hai fatto ha comunque contribuito a rendere vivido il racconto legato al percorso di Vanessa.
Nel rileggere quanto avevo scritto, mi sono resa conto che mancava un po’ di sostanza: era pur sempre un viaggio descritto da una persona che in quei posti non era mai stata. A livello creativo ma anche emotivo, mi è servito molto vedere Christiania in Danimarca, imbattermi in incontri che mi hanno poi permesso di ridefinire alcuni aspetti del romanzo, vivere esperienze totalizzanti come quella a Madrid di fronte al quadro Un mundo di Ángeles Santos o imbattermi per caso in due lettere con due cuori enormi portate dai frangiflutti.
I viaggi sono sempre forieri di verità. Cosa hai conosciuto di Aurora che prima non vedevi?
Di amare i viaggi in solitaria, ad esempio. Per il romanzo, ho iniziato a viaggiare da sola, non lo avevo mai fatto prima. Purché entusiasmanti perché contraddistinti dall’eccitazione di vivere tutto con una libertà solo tua, i viaggi da sola ti portano a fare i conti con aspetti di te che vengono a galla nei momenti più inaspettati, facendoti vivere e provare emozioni forti in contesti impensabili, come in mezzo a una strada. Erano nel mio caso tutti aspetti chiusi dentro di me che non riuscivano a venir fuori perché distratta dalla compagnia non concedevo loro spazio.
Il viaggio da sola oggi è diventato fondamentale come esperienza di vita, anche se so quanto non sia facile. Stare da sola ha fatto emergere il dolore e mi ha spinto ad attraversarlo, facendomi capire che la vera solitudine non è caratterizzata dalla mancanza di qualcuno ma dall’amore della compagnia di se stessi. È una consapevolezza che si raggiunge solo quando si affrontano le ombre che si sono messe da parte, si vive il dolore e si trascende.
Non ti chiedo qual è stato il momento più doloroso della solitudine vissuta…
Non chiederlo dipende dalla sensibilità di chi pone la domanda. Poi, è anche vero che mi sento comunque pronta a condividere, perché credo che possa in qualche modo essere utile a qualcuno.
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Rispetto a Vanessa, hai comunque imparato più tardi a stare in compagnia solo di te stessa.
Vanessa lo capisce molto prima, da questo punto di vista mi rispecchio più nella Vanessa dell’ultima parte del romanzo, quella che dieci anni dopo fa il punto sulla sua esistenza. Il grande cambiamento interiore dentro me è arrivato intorno ai trent’anni per poi diventare sempre più grande e importante, manifestandosi a distanza di due di anni nella vita di tutti i giorni con delle scelte, anche molto difficili, che ho dovuto prendere. Ho impiegato dunque due anni a tradurre in azioni concrete quelli che sono stati i primi cambiamenti interiori che hanno avuto inizio con la solitudine dei viaggi…
Anche perché, prima di allora, ero stata da sola veramente per pochissimo tempo e quelle stesse poche volte si erano rivelate molto spaventose e intense: venivo colta da una sensazione di vuoto incolmabile, che non so nemmeno descrivere a parole. Cercavo di colmare quel vuoto con qualsiasi cosa, attaccandomi anche all’amore dei fidanzati che avevo vicino.
Sono sempre stata fortunata nell’avere accanto dei ragazzi che mi hanno amata moltissimo, non mi ha mai attratta il bad boy, ma ho poi compreso, andando in profondità, che più che di loro mi innamoravo dell’amore che nutrivano per me. Era come se andassi alla ricerca di un uomo che potesse amarmi solo in una determinata maniera facendomi sentire per un certo periodo sazia, che mi regalasse l’esperienza dell’amore totale o incondizionato… nessuno però ti può dare quel tipo di amore se non un genitore: erano quindi relazioni destinate a trasformarsi in disfunzionali perché richiedevano al mio compagno di ricoprire inconsciamente quel ruolo.
Mi ha aiutata poi l’analisi a capirlo. Ma senza una relazione non riuscivo a stare, a differenza di Vanessa che invece rifiuta tutto e tutti. A lei dicono che “merita di essere amata”, nel mio caso ero invece io a dire “Ti prego, amami alla follia”. Ed era la ragione per cui dopo mi capitava di scappare: quando si proietta nell’altro una figura come quella genitoriale ci si aspetta determinati elementi che quando non arrivano ti portano alla fuga per andare alla ricerca di qualcun altro che possa garantirteli. È un tipo di ricerca destinato, purtroppo, a non finire mai. Per comprenderlo, occorre uno specialista che apra gli occhi…
…e a cui non mentire, come invece fa Vanessa con la psicologa.
Quand’ero bambina, ho mentito anch’io. Tanto che ho poi ho smesso di andare dalla psicologa per ritornarci solo due anni e mezzo fa riprendendo quel percorso lasciato interrotto. Più che mentire, non avevo voglia di parlare: preferivo il silenzio a una fantasia o realtà alterata. Andavo comunque dalla psicologa perché quando da bambini si vive una situazione come la mia, segnata dalla mancanza di entrambi i genitori, c’è bisogno di una mano.
Anche se rimane vero il fatto che ognuno di noi fa i conti con il dolore a modo proprio: io, ad esempio, quando frequentavo l’asilo ero come ossessionata dai colori. Non solo volevo salvarli ma, quando coloravo un disegno, mi davo anche un tempo massimo per farlo: dieci secondi per il cielo… Se non ci fossi riuscita, sarebbe stato terribile: mi sarebbe mancata quella sensazione di gioia che provavo quando ce la facevo. Era il mio personalissimo modo da bambina di fare i conti con la morte, cercando di fregarla e controllarla.
Che rapporto hai oggi con la morte? Ti fa paura o la osservi da lontano con serenità?
Da quando a trent’anni ho cominciato a vivere il mio progressivo risveglio interiore, esperienza dopo esperienza e lettura dopo lettura, ho iniziato a vederla in maniera diversa. Nella nostra società occidentale, la morte è un tabù di cui non si deve parlare, da cancellare quasi dalla mente perché altrimenti ci distrae dal nostro obiettivo finale (quale sarebbe: fare soldi, accumularli, usarli per comprare cosa?).
Io invece amo moltissimo pensarci perché mi ridà un senso di prospettiva giusto, riportandomi alla realtà e a ciò che ha veramente importanza: tutto ciò per cui spesso ci crogioliamo, dagli errori ai litigi, smetterà di esistere nel momento in cui abbondoneremo il corpo. Godiamoci dunque le persone che abbiamo vicino, quello che stiamo facendo o le belle giornate… Mi fa innervosire chi dice che se pensassimo alla morte non faremmo più nulla nella vita. Per me, vale l’esatto contrario: morire è esattamente l’opposto, è lo stimolo a fare, a essere più autentici e a non aver paura di fare le proprie scelte. Quante persone vivono una vita che non vorrebbero vivere per paura? Di cosa poi?
In tal senso, mi viene in mente un’intervista a Michela Murgia prima di morire: “La morte ti libera da tutte le paure e io adesso sono me stessa: sono vera, dico e faccio quello che voglio senza paura… mi sarebbe piaciuto capirlo prima”. Ecco perché nei confronti della morte ho cominciato ad avere un atteggiamento di accoglienza: farlo mi rende più libera.
L’aver vissuto il dolore per la perdita di tua madre ha inficiato la tua idea di maternità, un tema che torna più di una volta in Volevo salvare i colori? Hai paura di poter causare lo stesso dolore a tuo figlio?
No, perché, anche se fosse, la sofferenza è ciò che poi ti permette di crescere, di evolvere e di trasformarti spiritualmente. Non gli causerei del male volutamente, è chiaro, ma non ho paura di far soffrire un mio figlio, semmai non ho mai pensato all’ipotesi di averne uno… almeno fino a ora. Avendo sperimentato sempre relazioni in cui ero alla ricerca di una figura genitoriale, scappavo quando i miei compagni mi mettevano di fronte alla possibilità di vivere un amore alla pari.
Oggi invece è diverso: dopo una relazione di sette anni finita con un ragazzo francese, ho vissuto per un periodo da sola fino a quando non ho incontrato il mio attuale compagno, un giovane inglese… è lui è l’unico con cui potrei fare un’esperienza di genitorialità proprio perché, dopo essere stata in analisi, condividiamo un rapporto sano. Potrei dunque diventare madre ma al momento non cerchiamo un figlio (ride, ndr).
Il dolore aiuta a crescere: hai memoria della bambina che eri prima della perdita di mamma?
Ero molto piccola quando è mancata. Ho memoria di chi sono stata dopo ma non prima, come se alcune cose il mio inconscio le avesse volutamente rimosse per proteggermi. Dopo, sono stata una bambina, un’adolescente o una giovane donna che ha sempre rifiutato ogni tipo di espressione del dolore. Non piangevo mai, ad esempio: ero sempre allegra ma anche perfetta a scuola perché non dovevo creare problemi. Mi sentivo addosso il peso di far funzionare tutto e di non gravare sugli altri: tutto intorno mi sembrava così pericolosamente in bilico… Trattenevo le lacrime.
…anche quando eri sola nella tua cameretta?
La prima volta in cui sono stata da sola in camera mia avevo vent’anni, fino ai diciannove anni ho condiviso camera con le mie tre sorelle in una casa in cui viveva una famiglia di nove persone. Ma quando mi sono trasferita a Roma mi sono poi ritrovata un pomeriggio da sola a casa ed è stato orribile: è uscito il dolore e sono sprofondata negli abissi.
Piangi oggi?
Negli ultimi giorni molto per via del romanzo… ma di gioia e non mi era mai successo prima.
Non blocchi più le lacrime?
No. Il lavoro di attrice mi ha da questo punto di vista salvato: quando è arrivato nella mia vita, avevo tanta di quella emotività repressa da non saper nemmeno come tirarla fuori. Non volevo assolutamente pensare alle mie esperienze e per manifestare le emozioni le mascheravo dietro ragioni che non erano le mie. Mi sono così sbloccata, rischiavo di esplodere da un giorno all’altro.
Curiosamente i colori hanno segnato sincronicamente anche il tuo lavoro da attrice: Braccialetti rossi, Bianca come il latte, rossa come il sangue. Se avessi la possibilità di salvare un colore che definisca la tua vita, quale sarebbe?
Il blu. È il mio colore preferito, quello che mi fa star bene e che ricerco tantissimo. Mi piace indossarlo e mi rapisce ogni qualvolta che lo incontro. Mi restituisce pace e riempimento.
Avevi un diario da bambina?
Ho uno scaffale pieno di diari: ne scrivevo e continuo a scriverne. Tra l’altro, ricerco sempre quelli più belli e costosi da comprare perché per me sono troppo preziosi. Alle loro pagine affido anche i miei messaggi per il futuro: aprendo date a caso, disattivo il pensiero e scrivo qualsiasi cosa mi viene in mente. E poi quando arriva quel giorno lì trovo quel messaggio per me… e spesso è sincronico!
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