Avincola è uno di quei cantautori in grado di concentrare la propria attenzione sulle piccole cose per trasformarle in poesie. Ne è un esempio concreto il suo ultimo album, Barrì, un viaggio onirico e surreale composto da nove tracce con titoli all’apparenza banali e quotidiani: Fon, Lattine, Ghiaccioli e bollicine, Letti, Tapparelle… Eppure, è a questo mondo fatto di piccoli oggetti che Avincola affida la forza della sua scrittura, sublimata nell’album dalla presenza del brano che dà il titolo a tutto il lavoro, Barrì, il cui testo è firmato dallo scrittore e poeta Pasquale Panella.
La scrittura di Panella, autore dei testi degli ultimi cinque album di Lucio Battisti (i migliori, per chi scrive) ma anche di Vattene amore della coppia Minghi/Mietta o di Processo a me stessa di Anna Oxa, è spesso criptica: le parole compongono mosaici che invitano a vedere al di là del loro significato intrinseco. E per Barrì, il testo composto da Panella, Avincola per scriverne la musica ha lavorato un po’ come faceva lo stesso Battisti, partendo proprio da quelle parole a cui affidare nuove emozioni e sensazioni.
Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti, coadiuvato da un videoclip che ha portato alla collaborazione tra Avincola e il regista italo-egiziano Amir Ra. Ne è venuto fuori un caleidoscopio di riflessioni multiple che nel corso di quest’intervista in esclusiva abbiamo cercato di dipanare. Come spesso capita nelle interviste di TheWom.it, mai prestabilite a tavolino, si conosce il punto di partenza ma non quello di arrivo, ragione per cui è venuta fuori una profonda riflessione sul significato della parola libertà, sugli italiani di seconda generazione (a cui Amir Ra ha dedicato i suoi lavori Io sono Fatou, disponibile su Prime Video, e Origines), sulla figura femminile e sulla non ordinarietà della quotidianità sullo sfondo di un mondo in cui l’apparire non deve sottomettere l’aver voce.
Intervista esclusiva ad Avincola e Amir Ra
Avincola, come nasce Barrì?
Avincola (A): È nato tutto nel momento in cui mi ha contattato Morgan. Stava scrivendo il suo libro di poesie e aveva creato una chat WhatsApp con vari artisti dopo che Pasquale Panella aveva accettato di scrivergli non la prefazione ma l’infrazione: una risposta per ogni poesia stessa. L’idea iniziale di Morgan era di fare eventualmente un album collettivo in cui ognuno degli artisti avrebbe scelto delle poesie per trasformarle in canzoni. La speranza si è poi trasformata in realtà ed io ne ho fatte ben cinque, tra cui Barrì. Dopo avergliela fatta ascoltare, ho chiesto non solo di poterla inserire in quello che sarebbe stato il mio nuovo album uscito a giugno ma anche di intitolare Barrì l’intero album.
Fondamentalmente, il processo creativo che ha portato alla canzone è stato molto affascinante. Pasquale Panella è un maestro delle parole con tutta una storia sulle spalle che ben conosciamo: mettere le mani su un suo testo e costruire una musica intorno alle parole di un grande come lui è stato molto, molto bello. La prima volta che ci siamo sentiti e parlati per telefono è stata a pochi minuti dalla mezzanotte di un Capodanno: quasi surreale.
Pasquale Panella è ricordato per essere l’autore della sperimentazione di Lucio Battisti ma anche per la scrittura di numerosi altri testi, come ad esempio Processo a me stessa di Anna Oxa. Il suo è un mondo criptico in cui entrare e di cui tentare una decifrazione. Cosa hai pensato quando hai letto il testo di Barrì?
A: Non ho pensato a interpretare le parole. Mi sono semmai lasciato guidare dalla mia passione e dal suono delle parole stesse, non solo dal loro contenuto. Ciò ha facilitato il processo creativo musicale: non mi sono domandato troppo cosa volesse dire il testo ma mi sono concentrato su quello che mi comunicava a livello sonoro. Con estrema umiltà, mi sono rifatto al modo in cui si presume che Battisti stesso abbia costruito le sue canzoni con Panella: Pasquale gli mandava i testi su cui poi lui costruiva la musica. E poi mi sono lasciato guidare dall’entusiasmo: quando sono entusiasta di qualcosa, il risultato piace quasi sempre.
Amir, a quel punto ti sei ritrovato la “patata bollente” tra le mani. Avevi testo e musica di Barrì e dovevi trasformarla in immagini. Da cosa sei partito?
Amir Ra (R): A parte la stima per la musica e la ricerca musicale di Avincola, tra noi c’è un bel rapporto di amicizia. Ci siamo sin da subito trovati umanamente e ciò per me fa la differenza. Sentendo Barrì, ho pensato che sarebbe stato bellissimo creare una sorta di fiaba mistica con molti simboli, molte cose dette e altre non dette, e collegarla allo stesso tempo con l’immaginario della mia infanzia. Avendo io origini egiziani, il vedere questa donna in mezzo ai cambi mi ha ricordato molto mia nonna che corre svolazzando verso il futuro e la libertà.
Al di là del credo, di chi è e di tutte le influenze esterne che ci possono essere, l’immagine chiave del video è la figura della ragazza che corre in dei campi indecifrabili. Mi piace cinematograficamente creare dei non luoghi: hai la percezione di toccarli ma non sai in realtà dove sono o in che tempo si è. Barrì, una volta ascoltata, mi ha dato subito la percezione del non tempo e del non luogo, spingendomi a immaginare dei visi baciati dal sole, da una luce naturale che in un certo senso racconta la storia oltre le parole della canzone.
Avincola si è fidato della mia visione. Mentre giravamo non tutti sapevano cosa avessi in testa: è un mio metodo di lavoro. Mi piace cominciare da idee ben preciso ma, sul set, amo anche seguire l’istinto e lasciargli rimescolare le carte.
Il tuo compito è stato quello di rendere visibili le cose indicibili che si citano nel brano.
R: Ho giocato con i simbolismi per cercare di decifrare il senso molto alto delle parole del testo, un testo che dà l’impressione di essere tridimensionale e di restituire vibrazioni diverse. Per me, dunque, è diventato importante riuscire a dare a Simone e al video quelle stesse vibrazioni.
Al centro del video, come hai ricordato, c’è una figura femminile. Indossa un velo che hai scelto di rendere colorato. È un simbolismo ricercato anche quello?
R: Curo tutto nei minimi dettagli per far sì che ciò che si veda abbia diverse interpretazioni. Il velo non è tanto un oggetto in sé ma è una connotazione di tutto quello che esternamente ci blocca o ci può bloccare.
Che ruolo attribuite alla figura femminile nelle vostre vite?
R: Cerco di raccontare la figura femminile in quasi tutte le mie storie perché connota un sacco di sfumature legate anche al mio background culturale di origine. Per quel poco che mi raccontava mia nonna, ha avuto modo di vivere quel senso di liberazione e di libertà che c’era rispetto alla figura femminile, un senso che, con il passare dei decenni e con il mondo che si è ingrigito sempre di più, si è perso.
Anche noi uomini abbiamo un nostro lato femminile e lo esploriamo anche attraverso i racconti o le storie che scriviamo per dare risoluzione al nostro puzzle esistenziale. Sto lavorando a un film in cui le protagoniste sono due donne con culture e background differenti, un tema a me molto caro da come si può evincere.
A.: Ho avuto un rapporto molto bello con mia madre, di origine catalana (non spagnola, altrimenti si arrabbia!). Ma anche con mio padre: ho avuto la fortuna di vivere relazioni distese con loro. Mi hanno sempre sostenuto in quello che facevo, anche perché entrambi era comunque appassionati di musica.
A livello di ispirazione, invece, quando comincio a scrivere non so mai cosa scriverò: mi lascio solitamente andare. Tuttavia, mi sono accorto rileggendo i testi anche del mio ultimo album, che la maggior parte delle canzoni sono dedicate inaspettatamente a una figura femminile… si vede che dentro me c’è un piacere nell’intrufolarmi nell’ottica femminile, un’ottica che per un maschio risulta alternativa verso il mondo.
Togliersi il velo è sinonimo di libertà. Che valore date alla parola “libertà”?
A: La libertà per me è tutto, occorrerebbero ore e ore per spiegare nel dettaglio cosa intendo. Nella mia vita ho sempre rincorso la libertà, con tutte le fatiche che ciò comporta. In qualche modo, devi anche permetterti di essere libero e di guardare il mondo in maniera libera costruendoti degli strumenti che ti aiutino. La mia visione della vita è molto punk, ad esempio: come dicevano i Sex Pistols, “no future”… è negativo da certi punti di vista ma non penso molto ad esempio al futuro, mi concentro molto sul presente.
E forse è proprio la contingenza del presente che mi porta ad attribuire un peso maggiore al valore che do alla libertà: fare qualsiasi cosa a prescindere da ciò che, nel bene o nel male, comporterà. Voglio sentirmi libero di fare ciò che ritengo giusto, sperando semmai in futuro di non pentirmene, anche se guardando al passato non mi sono mai pentito delle cose fatte.
R: Per me, libertà significa riuscire a dare spazio a tutti coloro che non riescono a dire la loro. Ci si può sentire liberi ma non lo si è finché non si ha voce nella stanza dei bottoni. Libertà è riuscire a creare uno spazio, anche astratto o non concreto, in cui quelle persone che per troppo tempo hanno sentito un vuoto narrativo nei loro confronti possano con i propri mezzi e le proprie capacità raccontare se stessi senza che lo facciano altri con i loro diversi punti di vista.
A livello personale, libertà sarebbe riuscire a trovare quella chiave di volta che collega entrambe la mia origine con il mio essere italiano, tra la madre che ti partorisce e quella che ti accoglie.
Amir, l’avere origine straniera o l’essere percepito come tale ha avuto peso nella tua formazione?
R: Il peso è quello del lavoro interiore e psicologico che devi fare con te stesso. Ovviamente, il riflesso esterno ti condiziona e ti segna soprattutto quando sei piccolo. Ho cercato ad esempio con il cortometraggio Origines di far raccontare ai ragazzi italiani di seconda generazione le cose che sin da piccoli hanno segnato la loro vita con una prospettiva sul presente e sul futuro senza dover sempre parlare della back story. Negli ultimi trent’anni di storia della sinistra italiana si è cercato di far empatizzare con gli immigrati raccontando solo la storia passata e il dramma senza mai concentrarsi sul presente e sulle prospettive future.
Ci sono eventi che quando accadono da piccolo non comprendi ma che da grande invece percepisci con la giusta razionalità. Anche quelli che sembravano dei complimenti ricevuti (“come parli bene italiano”), in realtà connotavano la differenza tra il “noi” e il “voi”.
Con il mio lavoro, provo a riempire quei vuoti e quegli spazi vuoti che ho vissuto nel mio percorso, colmandoli con immagini o ricordi ma sempre con la prospettiva del presente e del futuro. Personalmente, non posso dire di aver subito chissà che cosa ma mi interessa dar voce a chi ha vissuto l’esperienza del “voi” in maniera negativa, con un forte impatto anche psicologico. Non è tuttavia semplice: non c’è in Italia ancora lo spazio per dar voce a chi una voce non l’ha avuta.
Il non dar voce è una libertà negata…
R: C’è sempre una generazione che si sacrifica per le generazioni che verranno. Lo abbiamo visto anche con gli italiani emigrati in America. Ho come l’impressione che la mia generazione sia quella che deve sacrificarsi per costruire qualcosa che resti come punto di riferimento per chi verrà dopo.
E tu, Avincola, quali pensi che sia la libertà negata alla tua generazione?
A: Paradossalmente, l’idea stessa dell’apparente estremizzazione di libertà che c’è adesso e che non c’era prima. Crediamo di poter dire e scrivere tutto ciò che ci pare ma la vera libertà sarebbe quella di essere ascoltati. Siamo tutti liberi di scrivere anche 800 milioni di commenti interessanti sotto a qualunque post ma poi chi ne tiene conto? Viviamo nell’epoca dello sfogatoio gigante: si va in televisione a dire la propria, si realizzano video su YouTube e si scrive sui social ma non c’è mai uno spazio reale di confronto in cui discutere, litigate in piena sincerità ed essere ascoltati dalla controparte.
Qualcosa che si riflette anche nell’industria discografica, cambiata di molto nell’ultimo decennio...
A: Chiunque di noi può scrivere un pezzo e pubblicarlo domani su Spotify, pensando che tutto sia diventato più facile… ma così non è, per tanti motivi. Innanzitutto, perché, molto banalmente, c’era prima molta più economia per poter investire sulle cose. Che poi non è banale manco per niente: l’artista non è una sorta di francescano e l’arte va anche retribuita.
Far musica è diventato complicato anche per la profonda ignoranza da parte di gran parte della discografia italiana. Un tempo, i discografici erano grandi conoscitori di musica… poteva promuovere un artista o un altro ma rimanevano grandi conoscitori del settore mentre oggi capita di parlare con gente del settore che non sa nulla della storia della musica, nemmeno quali sono i tre accordi fondamentali. Ma è un’ignoranza quasi sistemica che si ravvisa anche nel mondo del giornalismo o nel cinema: ci si improvvisa mestieranti senza nemmeno conoscere le basi del proprio lavoro, spesso serio. Il web, e non solo, è oramai pieno di articoli in formato comunicato stampa, di copia e incolla tutti uguali.
R: Vale lo stesso anche nel cinema. In passato, i produttori erano alla pari dei registi o dei direttori della fotografia. Oggi, invece, sono persone che pensano soltanto al riscontro immediato e che non hanno la capacità di vedere la prospettiva futura di un artista. Il produttore era invece colui che, sapendo di cinema, cresceva insieme all’artista stessa e non il broker di oggi, senza alcuna vena artistica. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Avincola, a proposito dell’essere ascoltati, avrebbe senso ripetere l’esperienza Sanremo?
A: Assolutamente sì. Sia in termini di visibilità sia in termini di felicità: si sale sul palco dove sono stati alcuni die più grandi artisti della musica italiana. Ho vissuto la mia esperienza con questa consapevolezza. Ero molto teso prima di salire sul palco per via dell’epoca CoVid che vivevamo: se fossi risultato positivo a uno dei 200 tamponi che abbiamo fatto, non so cosa ne sarebbe stata di quell’opportunità. Mi sono sciolto solo dopo l’ultimo tampone, lasciandomi andare sul palco: in quel momento, ho pensato a tutte le cose che avevo fatto, a quelle bene ma anche a quelle difficili, come al cammino tortuoso che la musica ha comportato (e tuttora comporta). E ciò mi ha fatto vivere sensazioni molto forti e intense che rivivrei con molta felicità.
Libertà significa anche vivere a pieno la propria personalità ed esprimere il proprio pensiero senza timore di ripercussione. Anche quando si parlava di diversity, equality e inclusion prima che le tre parole diventassero di moda, come avete fatto voi due.
R: Non ho mai pensato al mainstream quando due anni e mezzo fa ho dato il via al progetto di far parlare ragazze e ragazzi che non si sentono rappresentati. Ho semplicemente creduto in loro e loro hanno creduto in me. Credo che ogni essere umano abbia una passione che, complice il percorso di vita o le influenze esterne, lo porti a compiere determinate scelte. Ma chi ha detto che le passioni non possano aiutare a cambiare lo stato delle cose? Ciò mi ha spinto ad andare nelle scuole, ad esempio, perché le cose le cambi quando stai veramente in mezzo alle persone, parli con loro e le ascolti. Origines, dopotutto, non era rivolto solo alle seconde generazioni ma a tutti quelli che spostandosi da un luogo all’altro lasciano parte di loro stessi per ambientarsi in nuovi contesti.
A: Al concerto del Primo Maggio ho portato semplicemente la mia esperienza. Per molti anni, ho lavorato come rider: ho ancora lo zainetto dentro l’armadio. Non sono andato lì per visibilità, non andavo a cantare una mia canzone, ma la mia speranza era quella di portare qualcosa che, anche difficile da scrivere, andasse oltre la retorica. Ho cercato di fare ciò che abitualmente provo a fare con le canzoni in cui tratto le cosiddette “tematiche sociali”.
Penso ad esempio a una canzone del mio precedente album, Roma Est, in cui ho provato a raccontare in maniera semplice, romantica o popolare, l’attuale incapacità di ascoltare gli altri attraverso la storia di un cassiere di un centro commerciale. La semplicità non comporta la perdita di significato, anzi… aiuta a lanciare un messaggio e a farlo comprendere meglio: il protagonista si sentiva solo nonostante il caos che lo circondava.
Quando scrivo, il primo che deve essere felice di ciò che ho scritto devo essere io. Non mi interessano le views: ho persino disinstallato Spotify Artist per non essere schiavo della droga delle visualizzazioni e dei numeri.
La musica: più soddisfazione o dannazione?
A: Una soddisfazione. È l’unica cosa che penso di saper fare e anche bene: può piacere o meno ma penso di saperla fare. Non mi sono mai domandato perché da piccolo ho cominciato a scrivere ma col tempo ho scoperto che era ed è un modo per parlare con me stesso: risparmio i soldi dello psicologo! È un modo per sentirmi meno solo che trova concretezza quando a un concerto le persone si ritrovano in ciò che hai scritto: se vogliamo, è anche un modo per parlarsi.
Ma è anche una dannazione, soprattutto quando non hai idee. Ho accettato solo negli ultimi anni che i momenti in cui non scrivi sono quelli in cui, comunque, stai accumulando sensazioni e percezioni che prima o poi andrai, indubbiamente, a trascrivere su carta o a registrare sul telefonino. Sono più i periodi in cui non scrivo che quelli in cui lo faccio: finire un pezzo, è per me quasi un miracolo di cui, nell’incredulità, sono felicissimo.
Come definiresti la tua musica?
A: Tecnicamente, rientra nel calderone del pop. Ma io scrivo canzoni sul quotidiano: mi piace dare valore e profondità a ciò che è apparentemente banale, come gli oggetti che mi circondano. L’importante è non superare mai la linea sottile che separa l’originalità dalla banalità, giocando anche coi contrasti e senza mai perdere di vista la profondità. Mi interessa partire da qualcosa che riteniamo essere profondo e molto esplorato, come l’amore o la malinconia, e ritrovarla in ciò che ci sfugge nel corso delle nostre giornate frenetiche.