Nella serie tv The Good Mothers, disponibile dal 5 aprile su Disney+, Barbara Chichiarelli interpreta il ruolo del sostituto procuratore Anna Colace, colei che per prima ha l’intuizione di combattere la ‘ndrangheta facendo affidamento sulle figure femminili.
Il personaggio di Anna Colace è ispirato alla figura del pubblico ministero Alessandra Cerreti. Era il 2009 quando una donna di 35 anni, Lea Garofalo, scompariva misteriosamente dopo aver testimoniato contro il suo ex compagno, Carlo Cosco, una figura di spicco della ‘ndrangheta, la potente organizzazione criminale che ha le sue radici nelle montagne della Calabria.
Sospettando che dietro la scomparsa di Lea ci fosse la mano delle ‘ndrine, Alessandra Cerreti trovò una via coraggiosa, mai tentata prima, per assicurare alcune figure malavitose di spicco alla giustizia. Decise infatti di avvicinare le mogli e le figlie dei criminali della ‘ndrangheta, oppresse dal sistema patriarcale in essere e dal suo codice di omertà.
Nella serie tv tratta dal libro di Alex Perry, la figura di Alessandra Cerreti trova la sua controparte nella Anna Colace di Barbara Chichiarelli, in grado di scardinare il silenzio avvicinandosi a Denise Cosco (Gaia Girace), la figlia di Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti), Giuseppina Pesce (Valentina Bellè) e Maria Concetta Cacciola (Simona Distefano). Anna Colace decide di investigare su quelle tre figure femminili che vivono in contesti familiari oppressi e che spesso non possono nemmeno lasciare le loro abitazioni: non le considera più invisibili e le aiuta a ribellarsi ai loro mariti, padri, fratelli e fidanzati.
Incontrando Barbara Chichiarelli abbiamo voluto parlare sia del personaggio di Anna Colace sia dei temi affrontati dalla serie tv The Good Mothers per poi addentrarci nel suo percorso professionale ma anche privato. Perché di una cosa siamo certi: Barbara Chichiarelli non ha paura di affrontare come attrice e come donna temi particolarmente delicati o complessi in chiave drammatica o da commedia. L’abbiamo vista per esempio nella serie tv Corpo libero nei panni della poliziotta che indaga su un omicidio sullo sfondo del mondo della ginnastica artistica femminile, ma anche nella commedia Maschile singolare, dove si racconta di diversity and inclusion in chiave leggera ma non semplicistica, e in quel piccolo gioiello che è Calcinculo.
Intervista esclusiva a Barbara Chichiarelli
Ti stiamo per vedere nella serie tv Disney+ The Good Mothers. Reduce dalla vittoria al Festival di Berlino 2023 come miglior serie, racconta la storia di un gruppo di donne che hanno pagato con la vita la loro ribellione all’universo patriarcale criminale. Tu interpreti la pm Anna Colace.
È stata per me una grande opportunità per approfondire determinate tematiche. Ho avuto la possibilità di studiare, di parlare con molte persone (tra cui collaboratori di giustizia) e di scandagliare un periodo, se vogliamo, anche molto limitato della storia della ‘ndrangheta: siamo partiti dalla storia di Lea Garofalo per arrivare a quelle di Maria Concetta Cacciola e di Giuseppina Pesce.
Approfondiamo quindi un lasso di tempo che va dai primi anni Duemila fino al 2012 circa, un periodo che ha posto le basi per quello che sarebbe successo dopo con l’arrivo del magistrato Nicola Gratteri nel 2017 alla Procura di Catanzaro. Gratteri ha dato vita a una maxi inchiesta che, secondo il mio parere, non ha trovato lo spazio che meritava nelle pagine di cronaca e questo dice molto: si svolgeva uno dei più grandi processi contro la ‘ndrangheta e non se ne parlava per motivi che non sono sicuramente legati alla pandemia o alla guerra in Ucraina.
Addentrandomi in quel periodo storico, ho potuto conoscere da vicino le storie vere di donne e di collaboratrici di giustizia che ancora oggi vivono le stesse condizioni di anni fa ma anche capire quanto ancora lo Stato non abbia in qualche modo ammodernato i suoi metodi.
Anna Colace, la pm da me interpretata, è una delle prime donne che scardina un sistema consolidato e mi ha dato la possibilità, la felicità e la curiosità di capire come funzionavano determinati meccanismi, oltre che di raccontare di un personaggio femminile che ha fatto, anche se in un modo diverso, anche lei un bel percorso di emancipazione: ha potuto studiare ed era libera ma ha dovuto interfacciarsi con le stese dinamiche patriarcali o quantomeno gerarchiche delle vittime della criminalità.
Tant’è vero che all’inizio di The Good Mothers i colleghi non prendono molto sul serio le intuizioni di Anna.
Hanno dei dubbi perché sottovalutano la potenza o comunque la validità e la capacità di una donna.
Un tema che risulta forse più che mai attuale quando si parla di autodeterminazione femminile e disparità di genere all’interno degli ambienti di lavoro.
Certo. Casualmente, perché chiaramente non potevamo saperlo quando abbiamo cominciato a girare, ci ritroviamo con un focus molto vivo sull’argomento: in questo momento, in Italia, abbiamo un Presidente del Consiglio donna e un segretario di partito all’opposizione donna. Un altro dei temi collaterali di The Good Mothers è proprio quello della gestione del potere e, dunque, non solo l’emancipazione della donna da alcuni schemi gerarchici, familiari e lavorativi, ma anche il modo in cui una donna si comporta nel momento in cui ha il potere dalla sua. È il caso di Anna Colace ma anche di Giuseppina Pesce: ciò che le differenzia dagli uomini è il modo in cui gestiscono e usano il potere in maniera diversa.
Anna Colace segue le linee guida del suo essere sostituto procuratore, rappresenta in qualche modo lo Stato e non può improvvisare determinate azioni, ma allo stesso tempo cerca di essere vicina alle donne della ‘ndrangheta con cui si relaziona con empatia. Intuisce che possono essere dei cavalli di Troia per smantellare l’organizzazione ma vuole anche capire queste donne cosa vivono per poi poterle aiutare e portarle a collaborare.
L’empatia o solidarietà tra donne porta a pensare a quel luogo comune secondo cui le donne non sono tra loro solidali ma spesso nemica l’una dell’altra. The Good Mothers dimostra come in realtà siano capaci di mettere da parte egoismi e individualismi per collaborare.
Smentiamolo. Credo che il luogo comune sia un retaggio sempre del patriarcato o anche un retaggio banalmente animale: si ha bisogno di delimitare il territorio e di proteggerlo. Lo fanno gli uomini e in qualche modo anche le donne.
Sei romana. Conoscevi già le storie di Garofalo, Pesce e Cacciola?
Conoscevo quella di Lea Garofalo ma, sinceramente, non quelle di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola. Sono rimasta abbastanza scioccata da entrambe le storie. Chiaramente quella della Cacciola ha un epilogo drammatico, almeno così pensiamo dal momento che non se ne può parlare perché c’è ancora un processo in corso e non è stata data una sentenza definitiva su quello che è successo.
Il riferimento all’oggi mi fa pensare a quanto dichiarato da Valentina Bellé alla conferenza stampa da Berlino: quando si girava in Calabria, c’era molta gente a lamentarsi della tipologia di racconto che si stava facendo: “ancora storie di ‘ndrangheta”. Non è una semplice battuta: manifesta semmai il desiderio di voler tacere determinati problemi. Tutto cambia affinché nulla cambi?
La filosofia di Tomasi di Lampedusa nel nostro Paese vale sempre e si sposa con ogni cosa, un po’ come il prezzemolo. Lo status quo non è ancora cambiato: esistono ancora determinate storie in quei territori e sono palpabili. C’è stata molta diffidenza nei confronti della stessa troupe: abbiamo girato in luoghi in cui la ‘ndrangheta ancora pulsa. Me ne sono resa conto persino io che in Calabria sono stata pochi giorni: diffidenza e omertà sono restii a scomparire in determinati contesti.
Lo abbiamo visto anche con Matteo Messina Denaro e la sua latitanza: a me sembra una storia incredibile, è stata oggetto di cronaca per una settimana e dopodiché non se n’è saputo più nulla al di là delle note di pettegolezzo o colore. C’era semmai da commissariare un intero paese: com’è possibile che nessuno lo conoscesse? Questo dimostra come esistano ancora territori interi in cui non c’è nessun minimo servizio dello Stato. Se lo Stato non è presente, come si fa a cambiare quel tipo di mentalità? Quando manca il welfare essenziale, l’unico modo per sopravvivere per alcuni è quello di affiliarsi alle ‘ndrine, alle cosche o a tutte la varie associazioni a delinquere che conosciamo.
E lo Stato è carente anche nel gestire, come evidenziano in tanti che lo hanno vissuto sulla propria pelle, chi diventa testimone di giustizia. Scegliere di collaborare è difficilissimo: si perdono diritti, documenti e identità. I figli non possono andare a scuola e si viene costantemente portati in luoghi diversi. Se lo Stato non è presente e non tutela con le giuste garanzie, a chi verrebbe voglia di aiutarlo? Questa è in definitiva la grande domanda che mi ha lasciato l’aver girato The Good Mothers. Collaborare è già difficile perché ti mette contro tutta la tua famiglia e lo Stato non ti tutela lasciandoti solo: chi è che si prende il coraggio e la responsabilità di farlo non solo per se stesso ma anche per i propri figli?
Spesso è proprio la responsabilità nei confronti del futuro dei figli che porta a rompere con il mondo criminale. In The Good Mothers lo fa Giuseppina Pesce ma abbiamo visto una scelta simile fatta anche da Rosa Di Fiore, la collaboratrice che ha ispirato Ti mangio il cuore.
È interessante il filone che da qualche anno a questa parte sta interessando serialità e cinema italiano. Spero però che non sia solo un fenomeno del momento per cui, esaurite le storie di mafia della Sicilia, si passa tutti in altre regioni. Non vorrei che fosse una moda. Mi piacerebbe semmai che diventasse qualcosa di più sistemico e ragionato che permetta di entrare all’interno delle dinamiche per scardinarle.
Uno degli aspetti sottolineati da The Good Mothers sono le violenze e i maltrattamenti che le protagoniste subiscono all’interno delle mura domestiche. Se da un lato dagli uomini ce li aspettiamo, dall’altro lato colpisce anche il silenzio connivente delle altre donne della famiglia: madri, sorelle, suocere, cognate.
Ci vorrebbe un professionista, ovvero uno psichiatra o uno psicologo, per spiegare quello che secondo me è prettamente legato a un processo di dissociazione. Non vorrei scendere nel dettaglio, non ne ho le competenze anche se noi attori per entrare nei personaggi dobbiamo studiare e trasformarci in sociologi, antropologi e psicologi. Questo è un aspetto che ho approfondito tanto anche a livello personale, motivo per cui parlo di dissociazione nei loro confronti: chi è abusato, poi abusa. Le stesse madri, abusate a loro volta, abusano delle figlie diventando complici e conniventi.
È un meccanismo che viene alimentato da un trauma subito e quindi come tale è molto complesso capirne il perché, chiaramente si dovrebbe scendere nel singolo caso e valutare storia per storia. C’è una dinamica che però spesso le storie hanno in comune: a ribellarsi è quasi sempre la figlia più giovane. Lo vediamo soprattutto da una decina d’anni a questa parte, dall’avvento degli smartphone: mentre prima le ragazze non avevano la possibilità di uscire, di viaggiare e di avere amici, attraverso un telefono hanno ora accesso a un mondo e a cose che le loro madri non hanno visto. Non è da trascurare come elemento scardinante.
Quello di The Good Mothers è un ruolo abbastanza complesso. Cosa deve contenere una sceneggiatura affinché Barbara Chichiarelli dica sì?
Appartengo alla categoria di coloro che di base cercano sempre di leggere tutto il contesto: quando mi metto al servizio di un’operazione, che sia un film o una serie tv, lo faccio indipendentemente dal mio personaggio. Poi, chiaramente ci sono ruoli per me fondamentali o altri che sono solo dei semplici cammei. In Bang bang baby, ad esempio, non ho una parte da protagonista ma la storia e la sua realizzazione erano così affascinanti da avermi spinta a voler dire sì. Di The Good Mothers era invece il personaggio ad affascinarmi proprio perché ispirato alla realtà. Ma in generale il discrimine è dato dall’intero progetto, dall’economia della storia e da come la si vuole, anche visivamente, raccontare.
Discrimine che ti ha portata ad accettare anche film apparentemente piccoli ma importanti per la risonanza del messaggio che contengono sul concetto di identità. Penso a Calcinculo e Maschile singolare. Quanto pensi che storie come quelle dei due film possano essere d’aiuto a chi non ha ancora chiara la propria identità?
Niente si fa con niente, tutto si fa con tutto. Il cinema, la letteratura, le arti visive e tutte le altre forme di arte possono servire in qualche modo per sciogliere un discorso e capirlo, per dipanare dei nodi. Credo sia importante raccontare determinate storie tramite film o serie tv e che sia altrettanto importante scriverne sui giornali e sui libri. Si tratta di temi delicati che spesso dobbiamo ancora metabolizzare, quantomeno in Italia: altrove hanno già trovato il modo di farlo con un dibattito più attivo e funzionale mentre da noi rimangono ancora dei tabù e sappiamo benissimo perché.
Viviamo in un Paese che teoricamente dovrebbe essere laico ma che pone il crocifisso in ogni aula di scuola. C’è ancora questa idiosincrasia interna che richiede maggior tempo rispetto ad altre zone del mondo. Dobbiamo tenere in conto anche un altro dato: l’Italia è un Paese molto più anziano di altri per cui la velocità con cui cambia è diversa. Motivo per cui occorre parlare, scrivere e bombardare su tanti temi: bisogna smontarli, rimontarli e analizzarli sia con leggerezza sia con approfondimenti degni di nota.
Uno dei dialoghi che si cerca di intavolare in questi giorni è legato al tema delle famiglie e dei figli. Che tipo di figlia sei stata?
Credo di essere stata una buona figlia nella misura in cui ho tradito e messo in discussione dei valori: essere figli significa proprio questo. Sembrerà un paradosso per quanto detto prima ma mi viene da citare la parabola cristiana del figliol prodigo: il figlio è colui che si ribella e mette in discussione il lasciato culturale che ha ricevuto, lo cambia e lo trasforma. Solo facendo così innesta un percorso virtuoso che interessa anche lo stesso genitore e lo fa crescere. Ecco, sono stata un brava figlia in tal senso: ho preso dei valori, li ho messi in discussione, in parte li ho accettati e in parte trasformati. Di sicuro, me lo posso riconoscere, non ho dato troppi pensieri: in qualche modo, ho rispettato i miei genitori e la loro idea di famiglia e di educazione fino a quando non l’ho messa in discussione, come si dovrebbe sempre fare.
Se dovessi oggi dire grazie a qualcuno chi sarebbe?
Sono diverse le persone a cui devo dei ringraziamenti. Ho avuto la fortuna di avere tanti maestri ma forse ringrazio i miei genitori per avermi lasciata libera di seguire anche altri maestri e insegnamenti. Quand’ero piccola, mi hanno dato la possibilità di avere davanti a me tanti modelli e di poter scegliere quale seguire, rimanendo chiaramente nel contesto di un’ottica che era la loro. Hanno avuto tanta libertà e intelligenza nel lasciarmelo fare. Devo anche dire grazie ai miei amici e al contesto nel quale sono cresciuta: mi ritengo una persona molto fortunata da questo punto di vista.
E se ti guardassi allo specchio per cosa ti diresti grazie?
È una domanda molto bella. Mi direi grazie per non aver perso mai il sorriso e la voglia di vivere, nonostante tutto quello che, come sempre a ognuno di noi, mi sia successo. Ognuno combatte la sua battaglia, non voglio mettere a paragone la mia vita con quella di nessun altro: non so se è stata più facile o difficile ma mi ringrazio per non aver perso mai l’entusiasmo e la voglia di vivere di fronte a quelle che possono essere state le mie sconfitte.
E come hai reagito di fronte a una sconfitta? A cosa hai fatto appello?
Sono cambiata molto nel corso degli anni. Dipende quindi se parliamo di sconfitte recenti o passate. Di quelle recenti posso parlare perché ho più memoria e contezza. Quando vivo una sconfitta, mi metto in discussione: parto dall’assunto che forse è colpa mia. E lo è per tutto: un provino andato male, una storia finita… è indice del fatto che non punto il dito contro nessun altro, non credo che il male venga da fuori o solo da fuori.
Dopodiché metto in atto un processo di elaborazione per cui do un nome alle cose: mi salvano una certa capacità analitica che mi riconosco e, se vogliamo, una certa riflessività su tuto quello che mi accade. Vivo un attimo di sospensione del giudizio: analizzo le cose, le smonto e le rimonto, le guardo da più angolazioni e cerco di non farmi infettare dal dolore. Fondamentalmente, non siamo i nostri pensieri: l’esperienza non è quello che ti accade ma ciò che tu puoi farne di ciò. Cerco quindi di vederne sempre l’aspetto positivo: da una grande sconfitta o da un grande dolore capisco qualcosa in più di cui far tesoro.
Non nego che sia molto faticoso cadere e rialzarsi. Ma vuol dire anche essere vivi.
Pretendi molto da te stessa?
Abbastanza, anche se negli tempi sono un po’ più clemente: mi sto definitivamente accettando. È sempre un work in progress, sento che manca sempre un piccolo miglio da fare ma credo che sia normale. Ho un’età per cui non posso dirmi né giovane né attempata: sono nei tempi giusti per cui va bene dire che mi manca ancora un miglio. Forse a quarant’anni avrò fatto quel passo in più e mi presenterò al mondo in maniera semplice e senza paura.