Barbara Cupisti ha terminato il suo nuovo film. Si chiama Hotel Sarajevo,è prodotto da Clipper Media e sarà trasmesso da Rai 1 all’interno di Speciale TG1 sabato 29 maggio in seconda serata. L’Hotel Sarajevo del titolo è l’Hotel Holiday, inaugurato a Sarajevo nel 1984 in occasione delle Olimpiadi invernali. Allora, l’albergo dotato di tutti i comfort era il centro deputato a ospitare gli atleti e le delegazioni provenienti da tutto il mondo. Nel 1992 si è invece trasformato nell’albergo che ha ospitato i giornalisti e gli operatori dell’informazione che hanno seguito da vicino la guerra nell’ex Jugoslavia. Il conflitto, vicinissimo a noi, è stato uno dei più lunghi dell’epoca contemporanea: è iniziato nell’aprile 1992 ed è terminato nel febbraio del 1996 con gli accordi firmati a Dayton, anonima cittadina statunitense.
Seguendo Zoran, un giovane disegnatore di graphic novel serbo, Barbara Cupisti ripercorre alcune delle vicende cruciali del conflitto nell’ex Jugoslavia. Si sofferma sull’assedio di Sarajevo e sulla guerra in Bosnia-Erzegovina per raccontare le ferite di un conflitto avvenuto nel cuore dell’Europa. Qui, comunità che fino a quel momento avevano convissuto si ritrovarono coinvolte in crimini spietati, come lo stupro di guerra o le uccisioni di massa, le cui conseguenze si vivono ancora oggi.
Barbara Cupisti non teme di affrontare la realtà odierna del Paese. Scruta i giovani per offrire il quadro di una nazione che si ritrova come ferma nel passato, congelata e incapace di guardare al futuro. E trova il modo per guardare anche all’attuale situazione che si sta vivendo in Ucraina: seppur lontane geograficamente, le due guerre in qualche modo si somigliano e hanno dei punti di contatto, soprattutto dopo che i partiti nazionalisti hanno avanzato nuove ipotesi di scissione.
Non spaventi però tutto ciò. Il cinema di Barbara Cupisti non è quello giornalistico, da maestrina alla cattedra che impartisce lezioni. È un cinema compartecipato, in cui lo spettatore diventa testimone diretto delle parole di chi sta davanti alla macchina da presa. Ed è un cinema tangibile, mai astratto e sempre vivido. Sebbene non sia un film totalmente suo, Hotel Sarajevo ha il tocco di Barbara Cupisti sequenza dopo sequenza. Quello stesso tocco che negli anni l’ha portata a dirigere lavori come Madri, un lavoro sulla maternità nella guerra infinita tra Israele e Palestina, o Womanity, racconto di 36 ore di vita di quattro donne tra India, Egitto e Stati Uniti. A dispetto di chi dice che un’attrice molto popolare, come nel suo caso, non possa far la regista impegnata.
Intervista esclusiva a Barbara Cupisti
Come nasce Hotel Sarajevo?
Mi interesso da tempo alla situazione in Bosnia e in particolar modo alla storia delle madri di Srebrenica. Mi ero già messa in contatto con alcune di loro. Avrei voluto inserire le loro storie all’interno di Womanity, il mio precedente film, ma poi ho desistito perché c’era un altro tipo di sentire e di sentimento in ballo. Avrei voluto raccontare delle donne che sono state violentate da chi è ricorso allo stupro come arma di guerra e che hanno scelto di tenere i figli avuti da quelle violenze. Womanity, però, parlava di un altro tipo di lotte al femminile e sarebbe risultato fuori contesto, si sarebbe creato una sorta di dislivello fin troppo evidente e il progetto avrebbe perso coerenza.
Ho sempre avuto però il pallino della guerra in Bosnia. È quella che la nostra generazione ha vissuto di più. È durata quattro anni, tantissimo, un’eternità. Ed è stata la prima guerra di cui abbiamo visto le immagini. Per la prima volta sapevamo tutto di un conflitto mentre era in corso. E, per la prima volta, vedevamo le immagini della quotidianità sotto la guerra girate dai civili. Non con i cellulari, come accade oggi, ma con piccole telecamere.
Quando mi hanno proposto di curare la regia di Hotel Sarajevo, non ho avuto dubbi. Ho però rivoluzionato il progetto che mi era stato proposto, l’ho rivoltato per trasformarlo in qualcosa che mi appartenesse, in un film che si avvicinasse ai miei.
Nonostante ti sei ritrovata con un’idea già sviluppata, hai portato chiaramente la tua impronta seguendo le tue mille direzioni, che come sempre non deludono mai. Hai sì seguito il protagonista Zoran, disegnatore di graphic novel, ma hai puntato l’attenzione anche su altri personaggi, soprattutto donne. Come ad esempio Bakira Hasecic, presidentessa dell’associazione delle donne vittime di stupro. O Boba Lizdek, che ai tempi del conflitto è stata la compagna del giornalista francese Paul Marchand. Ma ci sono anche la direttrice dell’hotel oggi, la fidanzata di Zoran e l’amica del disegnatore, che si preoccupa di cosa ne sapranno della guerra le generazioni future. Come ti sei mossa?
In un primo momento, il progetto era un altro. L'intera Bosnia-Erzegovina vive una particolare situazione definita “frozen conflict”, di conflitto appunto congelato. Ecco perché rispetto ad altri miei film Hotel Sarajevo appare meno fluido, rispecchia la situazione in cui si ritrova l’intera nazione.
Sono arrivata a Sarajevo e sin da subito mi sono accorta che non si muove foglia. Non c’è nemmeno una manifestazione che faccia prendere coscienza di quanto sta accadendo, con i partiti nazionalsocialisti ritornati al potere. Non c’è nessuna realtà politica che spinga alla reazione, come magari accade altrove. È tutto così come si vede anche nel film, è tutto un big chill, un grande freddo.
Ho optato per Zoran come “guida”. È serbo bosniaco e ha vissuto da vicino la guerra, provandone ancora le conseguenze sulla sua pelle. Zoran ha ricevuto il compito di disegnare un graphic novel sulla guerra ma non è per lui facile. Deve fare i conti con le difficoltà emotive legate all’argomento. Mi ha aiutato nel percorso delle persone da incontrare proprio perché è il percorso che lui stesso deve fare per il suo fumetto. I suoi amici sono pazzeschi: i giovani ragazzi, quelli che non erano ancora nati durante la guerra ma che subiscono la situazione politica attuale, sono i più combattivi. La mia paura è che con l’arrivo della gelata questi frutti, se vogliamo usare una metafora botanica, non maturino.
Ho paura che in Bosnia capiti qualcosa di simile a quello che sta accadendo in Ucraina. È molto probabile, non è del tutto escluso. Considerate che coloro che portano avanti le spinte secessioniste dell’etnia serba sono amici di Putin: se dovessero scegliere, seguirebbero la Russia e non l’Europa.
Immaginate quanto drammatico sarebbe avere due fronti di guerra aperti in Europa, uno più a nord e uno qui accanto a noi, nei Balcani. Rischiamo uno scatafascio.
La situazione che descrivi è ben rappresentata in Hotel Sarajevo dalla situazione in cui versa Srebrenica, con il suo paesaggio tutto coperto da una fitta coltre di neve, quasi spaventosa. È una città da cui sono andati via quasi tutti e in cui, durante il conflitto, sono stati uccisi otto mila uomini che le madri o le mogli non hanno potuto neppure seppellire. Ci sono delle immagini forti nel tuo film.
Ce n’erano anche di più forti e crude. Ho avuto la possibilità di accedere a dei materiali che non ho messo perché, essendoci la guerra in Ucraina, non volevo mostrare. Immagini che mostravano le centinaia e centinaia di cadaveri rinvenuti nelle fosse comuni. Risalgono a circa sei, sette anni fa, a quando hanno ritrovato le fosse comuni grazie alle immagini dei satelliti.
Siamo stati e siamo tuttora testimoni della disperazione della gente che scappa via dalle zone di guerra, abbandonando tutto e tutti, la propria vita e i propri affetti. Nel ripercorrere la storia della fidanzata di Zoran scopriamo che anche lei era andata via ma che poi, a conflitto finito, è ritornata a Sarajevo. Mi chiedo e ti chiedo cosa spinge la gente a tornare nel luogo da cui è fuggita.
Te lo dicono, in particolar modo, i ragazzi. I più giovani, quelli che hanno avuto la possibilità anche di studiare all’estero come la fidanzata di Zoran, tornano perché vorrebbero cambiare il loro Paese. E per lo stesso motivo è tornato anche Zoran. E, invece, si sono ritrovati di fronte a una situazione politica davvero preoccupante.
Il tasso di interesse verso la politica è pari allo zero, la gente non va neanche a votare. Dopo gli accordi di Dayton, nessuno si riconosce nella realtà creata, diversa da quella reale e sociale del Paese. Quando poi ci si rende conto che al governo ci sono quasi le famiglie di coloro che hanno provocato la situazione di trent’anni fa, chiunque smette di pensare all’ipotesi di un cambiamento. Mentre alcuni ragazzi tornano, altri se ne vanno. Come dice Boba, “anche se ci fosse un’altra guerra, non avremmo i soldati, i giovani sono tutti andati via”.
Sono andati via o si sono suicidati. Ed è un dato terribile, soprattutto alla luce di quando si sta vivendo in Ucraina oggi. Il riferimento all’Ucraina non è solo pensato ma è anche presente nelle parole di Zoran. Hai mai pensato di lavorare a qualcosa che possa sensibilizzare ulteriormente l’opinione pubblica nei confronti di quello che sta avvenendo laggiù? Dopo il clamore dei primi giorni, la situazione ucraina sembra essere a oggi passata quasi in secondo o terzo piano.
Non so come sia avvertita oggi in Italia. Vivo tra gli Stati Uniti e Varsavia. E, quando sto in Polonia, ho la guerra alle porte, è impossibile non avvertirla. Sto già lavorando a un progetto sull’Ucraina. In questi giorni, ho avuto contatti con molte donne ucraine e sono emerse storie allucinanti, anche solo a sentirle raccontare. Sto raccogliendo ad esempio la storia di una ragazza, che vive nell’Ucraina meridionale. Tiene una sorta di video diario e mi manda quasi tutti i giorni le immagini di quello che accade intorno a lei, girate con il cellulare. Mi fa vedere quello che succede realmente e non quello che in questo momento sembra l’interesse principale, chi ha torto o chi ha ragione. Nessuno sembra più pensare alla realtà della guerra.
Gli ucraini sono coscienti del fatto che la guerra non finirà nel momento in cui si metterà la parola fine. I postumi andranno avanti di generazione in generazione. Hanno consapevolezza di quello che verrà. Le mamme che portano via i figli sono preparate a quello che accadrà, non vengono prese alla sprovvista come è accaduto in Bosnia. Si stanno già organizzando, anche se la situazione resta tremenda.
Quanta sensibilità serve per non farsi travolgere dalle storie? Ne hai nel tuo percorso lavorativo incontrato di complicate, difficili e sofferte. Credo che ognuna ti abbia lasciato qualcosa. Come fai a metabolizzarle?
All’inizio, è stato difficilissimo, impossibile, dimenticare le storie. Io ho avuto la mia vita completamente stravolta. Con Madri e Vietato sognare è come se mi avessero preso a schiaffi in faccia. Ho riconsiderato l’intera mia esistenza. Ero abituata a far l’attrice, provenivo da una condizione più ovattata, quasi al fuori della realtà. Realizzare Madri è come se mi avesse risvegliato da un sonno o da un torpore. Ho preso allora le distanze da tutto quello che avevo avuto fino a quel momento, ho visto il mondo con occhi diversi e ho trovato il coraggio di fare cose che magari prima non avrei avuto modo di affrontare.
Si pensa sempre che il documentario sia un linguaggio cinematografico maschile. Tu hai dimostrato di saperlo declinare in “chiave rosa”. Quanto è stato o è tuttora difficile superare questo tipo di gender gap?
Il gender gap si fa sentire quando si vogliono affrontare temi che non sono prettamente femminili. Parlare di conflitti non è stato semplice. Non sono una giornalista e ciò ha complicato ulteriormente le cose. Per molti, non sono giornalista e di conseguenza non avrei le skills, le capacità, per farlo. “Non sei stata una reporter di guerra, come ti permetti di farlo?” era il commento più diffuso. Non tra i produttori, Rai Cinema mi ha sempre permesso di fare i miei documentati. Il preconcetto era forte da parte dei colleghi maschi ma anche dei direttori di festival. Se lo stesso mio film viene realizzato da un uomo, va bene a tutti. Lo faccio io e viene sempre guardato con sospetto. Chissà perché?
Eppure, sono più di 15 anni che realizzi documentari di un certo valore.
Ogni volta sembra quasi che debba dimostrare a qualcuno che so fare il mio lavoro di regista. Mi sono ritrovata con i miei documentari a rompere diversi tabù e sono felice di averlo fatto. Un primo tabù era legato all’essere donna. Ma un altro grosso derivava dal fatto che avevo fatto l’attrice in un cinema più popolare, considerato sempre di serie B. Non ero un’attrice, come si direbbe, impegnata e i pregiudizi da abbattere non sono mancati. Fortunatamente, ho trovato chi credeva nelle mie capacità.
Il primo a puntare su di me è stato il produttore Alex Ponti, un grandissimo. Mi ha notato mentre realizzavo gli extra, i contenuti speciali per i dvd dei film targati Rai Cinema. Ho parlato a lui del progetto di Madri, da sempre l’idea di un film sulla madre di Gesù. Insieme lo abbiamo proposto a Rai Cinema e tre giorni dopo ero già in Palestina a fare i sopralluoghi. E poi devo molto a Marco Muller, che scelse il film per il Festival di Venezia ancor prima che fosse ultimato. Non era scontato ma a lui non importava chi fossi o cosa facessi. All’epoca, lavoravo ancora come attrice e come conduttrice (Giovanni Minoli mi aveva messo a condurre un programma). A lui interessava solo il film per le sue qualità intrinseche: devo a lui l’aver trovato questa mia vocazione.
Visto che ti muovi tra diversi Paesi, il gender gap è forte anche all’estero?
In Italia è più netto rispetto agli altri Paesi occidentali. Dobbiamo ancora lavorare molto su quest’aspetto. Ma più che il gender gap è forte la divisione in compartimenti tra registi o attori. Si guarda molto alla provenienza di chi sta dietro la macchina da presa o alle scuole frequentate. Un attore e un’attrice che vogliono far regia son sempre visti con un sospetto. Cosa che non accade altrove, come ad esempio in Francia.
Non hai la tentazione di ritornare davanti alla macchina da presa per far l’attrice?
La verità? Ultimamente, sì e molto. È accaduta di recente una cosa che mi ha divertita molto. Lo scorso anno, mentre ero a Washington, ho ricevuto la mail di una casting director di New York. Mi chiedeva di presentarmi a un provino per un film pazzesco con il protagonista di Mad Men. L’ho fatto, non è andato bene, ma mi ha tirato su il morale perché mi sono accorta che ero ancora capace di far l’attrice. Mi sono divertita e mi ha fatto pensare che se ci fosse la situazione giusta potrei tornare a recitare. Mi piacerebbe prender parte a una bella serie di Netflix, una di quelle storiche e magari non italiana: preferirei recitare in inglese in un ruolo da donna di una certa età ma ancora attiva, sprint e un po’ spericolata.
Grazie alle esperienze di tutti questi anni penso di essere diventata non solo una persona migliore ma anche una “migliore attrice”. Il contatto e il confronto con le varie realtà mi hanno arricchito tantissimo non solo dal punto di vista personale, spirituale e psicologico ma anche da quello artistico. Sono molto orgogliosa di aver fatto pace con il mio lato attoriale: mi sono resa conto che è proprio quello che mi ha dato la possibilità di leggere in modo diverso anche gli eventi. La preparazione utile a entrare dentro ai personaggi da interpretare mi ha insegnato a vedere la storia, anche gli eventi più grandi, sempre dall’interno delle persone. Entrare in empatia con i personaggi mi ha permesso, quindi, di dare delle letture anche desuete alle varie situazioni.
E il progetto di dirigere il primo film di finzione c’è ancora?
Si, ho finito la mia prima sceneggiatura. Rai Cinema ne ha pagato lo sviluppo. Siamo in attesa di novità.