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Barbara Giordano: “Emanciparmi da me stessa per essere libera” – Intervista

Barbara Giordano
In Indagine su una storia d'amore, Barbara Giordano porta sullo schermo una parte di sé, offrendo al pubblico non solo una performance, ma una finestra sul complesso mondo di chi vive per raccontare storie.
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Nel film Indagine su una storia d'amore di Gianluca Maria Tavarelli, in uscita al cinema il 18 luglio per Adler Entertainment, Barbara Giordano interpreta Lucia, una donna che si confronta con le sfide del suo rapporto di coppia e della sua carriera di attrice. Ma chi è Barbara Giordano, la persona dietro il personaggio? La nostra intervista ci porta a conoscere una figura complessa e affascinante, che si muove con agilità tra teatro, cinema e televisione, cercando costantemente di bilanciare la sua ambizione con la realtà del mondo dello spettacolo.

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Barbara Giordano è cresciuta in un ambiente dove l'arte era di casa, con una madre attrice e un padre appassionato di teatro. Questo contesto ha inevitabilmente influenzato il suo percorso, spingendola verso una carriera che sente profondamente sua. Nonostante ciò, Barbara si distanzia dall'immagine della tipica attrice narcisista: è una professionista che desidera semplicemente fare bene il proprio lavoro, senza necessariamente cercare l'attenzione dei riflettori.

Lucia, il personaggio che Barbara Giordano interpreta nel film presentato al Torino Film Festival 2023, riflette in parte questa filosofia. Pur essendo appassionata del suo mestiere, Lucia non si lascia dominare dall'ego e accetta con serenità lavori meno glamour per mantenersi. Tale caratteristica distingue Lucia dal suo compagno Paolo, impersonato da Alessio Vassallo, più ambizioso e meno disposto a scendere a compromessi. Barbara, parlando di Lucia, evidenzia quanto ammiri la capacità del personaggio di non identificarsi completamente con il lavoro, una qualità che lei stessa trova difficile da coltivare.

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La carriera di Barbara Giordano è segnata da un continuo confronto con il proprio ego. L'attrice riconosce che il suo ego diventa opprimente quando non può esprimere la sua passione attraverso il lavoro, ma riesce a metterlo da parte quando è impegnata in progetti significativi. L’equilibrio è cruciale per Barbara, che vede nella recitazione non solo una professione, ma anche un mezzo per raccontare storie che hanno un impatto sociale.

Un altro tema centrale che abbiamo affrontato con Barbara Giordano è l'approvazione degli altri, un aspetto esplorato anche nel film. Cresciuta con genitori che l'hanno sempre incoraggiata, oggi sente la mancanza del loro sostegno, il che la costringe a trovare la propria approvazione interiore. Questa ricerca di validazione esterna è un filo conduttore che attraversa sia la sua vita personale che quella professionale.

Nonostante l'uso dei social media, Barbara Giordano non cerca la fama attraverso di essi. Li vede come un mezzo di condivisione e interazione, piuttosto che un palco per l'autocelebrazione. Ciò le consente di mantenere una connessione autentica con il suo pubblico, sebbene piccolo, e di evitare la pressione di dover sempre apparire perfetta.

Barbara Giordano è un'attrice che ha saputo fare delle sue esperienze personali e professionali una fonte di crescita continua. La sua capacità di riflettere su se stessa e di confrontarsi con le sfide del mestiere la rende non solo una talentuosa interprete, ma anche una persona profondamente consapevole del suo percorso.

Barbara Giordano (Foto: Maddalena Petrosino; Make up: Chiara Corsaletti per Making Beauty Managemen
Barbara Giordano (Foto: Maddalena Petrosino; Make up: Chiara Corsaletti per Making Beauty Management; Capelli: Elisa Zamparelli per Making Beauty Management; Styling: Allegra Palloni;
Total look: Maje; Press: Sara Battelli).

Intervista a Barbara Giordano

Chi è Lucia dal tuo punto di vista?

Lucia è una donna che fa l’attrice e che, soprattutto, la fa con piacere quando può: è sicuramente questa la sua ambizione primaria ma non si identifica con il suo lavoro. È mossa una forte curiosità ed è lontana dall’immagine che solitamente si ha dell’attrice: erroneamente si è portati a pensare che l’attrice sia una donna che vuole apparire e stare al centro dell’attenzione, una narcisista. Non è il suo caso: vuole semplicemente svolgere il suo lavoro come qualsiasi altro.

Nel frattempo, si mantiene come cameriera, senza lasciare che l’amor proprio prenda il sopravvento. A differenza del compagno Paolo, che invece è mosso dall’ambizione e che preferisce aspettare la famosa chiamata stando davanti alla televisione e dannandosi nel guardare quei reality che permettono ai loro concorrenti di guadagnare fama e popolarità. La descrivo in relazione al compagno solo perché penso che i personaggi esistano in relazione con gli altri non perché penso che sia necessario declinare una donna in funzione dell’uomo che ha accanto.

Quanto ti reputi simile o dissimile da Lucia?

Non abbiamo nulla in comune. E mi dispiace anche perché vorrei un giorno essere più leggera e vicina al suo modo di rapportarsi alle cose. Come prima cosa, ho allontanato qualsiasi tipo di Paolo dalla mia vita proprio perché avevo la necessità di concentrarmi sulla mia ambizione senza dovermi mettere a spalleggiare qualcuno che mi disistima. Perché la disistima di Paolo verso Lucia, sebbene sia declinata con un registro molto comico, divertente e ironico, è veramente terribile: la coppia dovrebbe essere la casa della motivazione individuale, si sta insieme per funzionare meglio in società.

Forse io Barbara comincio dalla Lucia alla fine del film. Anche se, molto onestamente, l’ho anche invidiata per come riesce a giocare con il lavoro non identificandosi in esso, qualcosa che per me risulta essere molto difficile.

Tale difficoltà a distinguere tra te stessa e il lavoro che fai non dipende dall’essere cresciuta da sempre a pane e recitazione?

Penso di sì ed è un aspetto sul quale lavoro molto a livello di crescita personale. Mi chiedo sempre quanto l’approvazione dello sguardo genitoriale sia stato effettivamente importante, essendo figlia di una madre addetta ai lavori e di un padre che, nonostante facesse il medico, era un grande appassionato. I miei mi hanno sempre incoraggiata a proseguire sulla strada della recitazione, sostenendo che mi apparteneva. E oggi l’assenza del loro sguardo è per me problematica, anche perché mi responsabilizza a darmi da sola quell’approvazione che manca, a sentirmi all’altezza del mio lavoro. E non è semplice.

L’approvazione, lo sguardo dell’altro, è centrale nel film Indagine su una storia d’amore, dove passa attraverso i social. Ti sei in qualche modo “approvata” da sola nel tempo a dispetto di un numero di followers che non è mai cresciuto in maniera esponenziale?

È un tema molto particolare da affrontare. Partiamo dal presupposto che a me piacciono molto i social, mi divertono e non ne faccio un uso estremamente referenziale. Li amo come veicolo, come se fossero una possibilità in più di fruizione e condivisione di informazioni di cui sono molto appassionata, a partire dai temi sociali. Riconosco loro anche una sorta di immediatezza.

Tuttavia, è vero che non ho tanti followers ma ciò mi permette di continuare a coltivare la mia libertà e la mia leggerezza: in questo modo, riesco ad avere interazioni dirette con le persone che ogni tanto si affacciano al mio profilo. Ho una piccola audience, non mi piace il termine “seguito”, che mi incoraggia e con la quale riesco a interagire anche per ottenere spunti inerenti alla vita di tutti i giorni, dai consigli sul parrucchiere a quelli sul ristorante vegano a Milano.

Mi piace il mio uso dei social. Anche se una volta qualcuno, dopo un messaggio bellissimo di complimenti, giusti o sbagliati che fossero, ha aggiunto “Ma perché lo fai? Qualcuno ti paga per farlo?”: è stata una domanda che mi ha imbarazzato tantissimo, oltre che mortificato, perché mi sono per un attimo sentita come una persona che non aveva nulla da fare e che stava lì a postare. Ma è grazie anche a quella domanda che ho capito che l’intrattenimento è un lavoro: i social, togliendo il vincolo del palcoscenico e dello schermo, hanno reso tutti  e tutte intrattenitori e intrattenitrici.

Non ho mai fatto uso dei social come autocelebrazione. Sono sempre stata molto in imbarazzo verso coloro che li usano per mostrare il loro privilegio e non sono neanche risolta quando sponsorizzo il mio lavoro perché temo di poter ferire chi invece un lavoro non ce l’ha. Sul numero di followers non mi sono mai fatta tante domande: spesso non dipendono nemmeno dai contenuti postati ma da tanti altri mille fattori. Ma godo molto nell’averne pochi perché posso relazionarmi a loro in maniera più approfondita. E gratis, perché nessuno mi paga (ride, ndr).

In tal modo, posso essere la regista di me stessa, senza dover necessariamente offrire una versione migliore di quello che sono, un po’ come accade a Paolo e Lucia nel film. Scelgo in piena autonomia cosa mi interessa condividere o di cosa mi interessa parlare.

Il poster del film Indagine su una storia d'amore.
Il poster del film Indagine su una storia d'amore.

Essere attrice significa anche relazionarsi con il proprio ego. Che rapporto hai con il tuo ego?

L’ego è schiacciante se non vengono appagati i bisogni primari del mestiere: il mio scalpita quando non lavoro mentre quando lavoro è come se risolvessi i miei “traumi” psicologici. Se non posso coltivare la mia natura di attrice, la mia passione e il mio lavoro, il mio ego è prevaricante: diventa difficilissimo da gestire, mi fa male e mi fa sentire frustratissima, prendendosi tutto lo spazio possibile e arrivando persino a farmi sentire una nullità… L’ego è qualcosa di molto diverso dall’amor proprio: è come un’ombra che vuole prendersi tutto.

Al contrario, quando lavoro soprattutto a progetti in cui non solo mi riconosco come personaggio ma di cui ne condivido il senso d’urgenza del racconto, riesco ad affrontare l’ego e metterlo da parte. È quella per me la vittoria. Non mi interessa in quel caso far vedere quanto sia più o meno brava come attrice: sono felice quando la gente si ricorda della storia che ho raccontato perché tengo molto alla funzione sociale del mio lavoro, all’importanza del vedersi rappresentati. Non voglio che si creino barriere tra me e il pubblico, tanto che non mi ha mai interessato l’aspetto divistico tanto quanto quello identificativo.

Ma per poterci riuscire, devi lavorare. Ed è un po’ la storia del cane che si morde la coda: non mi interessa essere famosa ma, se non sei famosa, non lavori. Che poi è anche uno dei temi del film di Tavarelli: per cosa si diventa famosi oggi? Per quello che si è veramente o per come si appare? È una domanda che interessa Paolo e Lucia ma anche Alessio Vassallo e me come attori, entrambi usciti dall’Accademia.

Prendiamo il mio caso: sono stata protagonista di Love Me Tender, un progetto che per me è stato importante fare, presentato al Festival di Locarno prima e poi a quello di Toronto: sono usciti articoli da Londra a New York ma in Italia sembra quasi che non l’abbia nemmeno interpretato. Questo per sottolineare quanto a volte si fa fatica a ingranare, sebbene a livello personale quel film mi abbia profondamente appagata perché è riuscito a parlare direttamente alle persone.

Nel parlare di lavoro, il teatro sembra averti dato molto più del cinema e della televisione. Hai qualche rammarico in merito?

Ho fatto molto teatro, è vero, ma credo anche di aver fatto dell’ottimo cinema e dell’ottima televisione. Per me, l’incontro con chi mi sceglie è sempre più forte del mezzo: il medium è solo un pretesto per incontrare persone. Nel momento in cui lavoro con Daniele Vicari, Klaudia Reynecke o i fratelli Taviani, non mi pongo domande su quale sia il mezzo: il cinema è per me è un bellissimo strumento che amo ma è un luogo di incontri con registe e registi, sceneggiatori e sceneggiatrici… è più un bisogno che un rammarico: ho la convinzione che occorre aspettare gli incontri giusti con le persone che cercano ciò che cerchi anche tu.

Nel guardarti indietro, quale pensi che sia stato l’incontro più “giusto”?

Se parliamo di cinema, Klaudia Reynecke, che mi ha dato la possibilità di affrontare in Love Me Tender un personaggio femminile che non fosse funzionale a un uomo ma solo a se stessa e al suo universo: per me è stato molto rivoluzionario, guardandomi intorno da questo punto di vista non ci sono tantissimi ruoli in tv o al cinema che mi portano a dire che avrei voluto interpretarli.

L’assenza di ruoli è frustrante per tante attrici come me che non sono facilmente collocabili o non risultano così rassicuranti non corrispondendo a uno specifico stereotipo. Non siamo adatte a un certo tipo di narrazione: cosa dovremmo fare? Cambiare lavoro? Ovviamente, no: dobbiamo semmai cercare di andare incontro ad altri tipi di narrazione.

E, per fortuna (lo dico da attrice ma anche da spettatrice), qualcosa sta cambiando, sembra che ci sia sempre più l’esigenza di raccontare storie di donne vere. Mi auguro, quindi, di avere ancora tante possibilità davanti senza dover rinunciare alla mia idea di cinema o a quello in cui credo.

Barbara Giordano nel film Love Me Tender.
Barbara Giordano nel film Love Me Tender.

Per studiare all’Accademia “Silvio D’Amico”, hai dovuto lasciare la tua Catania. Cosa ha rappresentato per te salutare la Sicilia?

Non vedevo l’ora di andarmene. Avevo debuttato a teatro a 15 anni con I Beati Paoli ed ero consapevole di ciò che volevo fare. Quando sei piccola, il teatro ti accoglie con una generosità che non è di certo quella che ti viene riservata da adulta: pensavo che avrei trovato una sorta di famiglia ma così non è stato. In più, da figlia di attrice, ho anche ascoltato il consiglio di mia madre che mi ripeteva, così come a mia sorella (Lydia, attrice anche lei, ndr). come occorresse andare via per smarcarsi dal suo nome.

In tutta sincerità, sono innamorata geograficamente della mia terra ma sono molto amareggiata per come questa decide di trattare la cultura: vedo miei colleghi e mie colleghe veramente estenuati. Soffro di fronte a quella che considero un’ingiustizia e alla malagestione di talenti e risorse.

A casa, non mi sono mai sentita nel posto giusto: Catania non era la mia città. E anche oggi, quando ci torno, è chiaro che ne sono affascinata e sedotta ma non resisto di fronte al trattamento riservato all’amministrazione delle attività artistiche e culturali, basti pensare al modo imperdonabile in cui è stata trattata Laura Sicignano, straordinaria direttrice del Teatro Stabile di Catania per quattro anni. A Roma non sarebbe mai stato permesso, ragione per cui molto spesso mi vergogno per quello che accade.

Motivo per cui la Sicilia non mi è mai artisticamente mancata. Ho semmai il rammarico per qualcosa che avrei voluto fosse diverso e ho grandissima stima e rispetto per chi decide di investire comunque nella propria quotidianità per migliorare lo status quo.

Hai citato tua madre, l’attrice Mariella Lo Giudice, scomparsa nel 2011. Sei riuscita a far ciò che lei desiderava ovvero smarcarti dalla sua identità?

Oggi posso rispondere con serenità: sì, perché io e mia madre abbiamo avuto vite molto diverse. Mia madre è stata scoperta a 14 anni da Turi Ferro e dopodiché è entrata a far parte della compagnia fissa del Teatro Stabile di Catania quando questa comportava fare spettacoli e tour in tutto il mondo. Mamma cominciava a lavorare a settembre e finiva ad agosto ma il suo era un altro lavoro rispetto al mio: non ha avuto ad esempio lo stimolo continuo del confronto con le coetanee, come è accaduto a me in Accademia.

Ho sempre cercato di non confondere me e mia madre, sentendomi molto emancipata dal confronto. Anzi, quando ero più giovane, stupidamente, cercavo anche di insegnarle il mestiere perché, ovviamente, nel frattempo la recitazione era cambiata e, secondo me, il suo modo di recitare superato. Ma ero giovane anche quando è morta: ho il grandissimo rimpianto di non averle fatto vedere la donna che sono diventata e di non aver avuto abbastanza tempo per farlo, proprio perché ancora in quella fase conflittuale per cui dovevo dimostrarle di essere migliore di lei.

Indagine su una storia d'amore: Le foto del film

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Anche tua sorella Lydia è un’attrice. Com’è condividere con la propria sorella un lavoro come il vostro?

Il nostro rapporto ha attraversato varie fase. In un primo momento è stato anche complesso, proprio a causa dell’approvazione genitoriale di cui accennavo prima: tra noi, si lottava per conquistare il primo posto del podio. Crescendo, siamo diventate prima di tutto donne e l’essere entrambe attrici è diventato un forte punto d’unione: seppur molto diverse, siamo altrettanto fan e sostenitrici l’una dell’altra. Lydia mi ha anche diretta in uno spettacolo online durante la pandemia, prodotto dal Teatro Stabile di Catania sotto la direzione di Laura Sicignano.

Lydia ha poi una totalità di talenti impressionanti. È una vera e propria artista eclettica, una bravissima attrice ma anche una cantante e disegnatrice: i suoi successi parlano per lei. Ma, distinte le differenze, non viviamo più del confronto infantile ma siamo molto affiatate: sappiamo da dove veniamo e abbiamo imparato a essere alleate.

Il percorso è stato complesso ma ce l’abbiamo fatta. A breve, porteremo in scena insieme uno spettacolo, La furia delle sirenette, in cui interpretiamo due sorelle sirene attaccate dalla nascita: non riescono a staccarsi ma hanno desideri e bisogni diversi. Sarà un bellissimo viaggio per la regia di Maria Vittoria Bellingeri, un’opportunità importante per esplorare il nostro rapporto umano e lavorativo.

Ti reputi una donna emancipata?

Mi reputo una donna che vuole emanciparsi. E per essere totalmente libera mi manca emanciparmi da me stessa. Mi rendo conto che spesso mi metto in discussione più del dovuto. Anziché sentirmi sbagliata, dovrei riconoscere ad esempio che per quanto riguarda la recitazione è il sistema a presentare le sue falle e non io, a causa della sua ossessione per i nomi. Mi è capitato spesso di arrivare in fondo ai provini e di non essere scelta perché non ero un nome, dimenticando come la gente in realtà non si ricordi dei nomi ma dei personaggi. Mi sono vista, dunque, non confermare perché non ero “famosa” ma ci ho messo sempre molto a riconoscere che il problema non era mio.

Devo ancora emanciparmi da tantissime cose ma in cima alla lista metterei il riuscire a emanciparmi dal mio senso di responsabilità quando è irrealistico rispetto al contesto in cui mi trovo. E vale sia nel lavoro sia in ambito privato.

Barbara Giordano (Foto: Maddalena Petrosino; Make up: Chiara Corsaletti per Making Beauty Managemen
Barbara Giordano (Foto: Maddalena Petrosino; Make up: Chiara Corsaletti per Making Beauty Management; Capelli: Elisa Zamparelli per Making Beauty Management; Styling: Allegra Palloni;
Total look: Maje; Press: Sara Battelli).
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