Il 2023 è un anno particolare nel percorso professionale di Barbara Ronchi. E non solo perché la serie tv Imma Tataranni 3, in cui interpreta la “cancelliera” Diana, è tornata sugli schermi di Rai 1 doppiando in ascolti la controprogrammazione e segnando un eccellente 27,1% di share. L’affetto del pubblico è semmai la ciliegina sulla torta di un periodo che ha visto Barbara Ronchi uscire fuori dai confini nazionali, ricevere il più importante dei premi per un attore italiano, sentire l’affetto e la vicinanza dei colleghi e degli addetti ai lavori, e a preparare ben altri cinque titoli che arriveranno presto sotto ai nostri occhi.
Quest’anno è il risultato di un traguardo cominciato sin da bambina, sin da quei lontani giorni in cui Barbara Ronchi è protagonista delle recite familiari e impone a tutti di pagare un biglietto per assistere alle sue performance casalinghe senza sapere che il suo destino era stato già segnato dalle muse di greca memoria. Non solo da Melpòmene ma anche da Talia e Clio, che nelle vene di Barbara Ronchi hanno iniettato la passione per il dramma, per la commedia e per la Storia. Tant’è che prima di diventare attrice Barbara Ronchi si laurea in Scienze storiche ed archeologiche.
Ed è dopo la laurea che Barbara Ronchi decide di ridare voce a quel talento da bambina, diplomandosi all’Accademia nazionale d’arte drammatica prima di dedicarsi a teatro e trovare la fiducia nel 2013 di Valeria Golino che la dirige in Miele. Ma è solo il primo di una lunga lista di titoli che passo dopo passo la porta alla corte di Marco Bellocchio, Francesca Archibugi, Cristina Comencini e Giulia Steigerwalt al cinema e di Cinzia Th Torrini, Luca Ribuoli, Mattia Torre e Gianluca Maria Tavarelli in televisione.
Fino a quando nella sua vita non arriva il ciclone Imma Tataranni con il suo carico di popolarità e successo. Un po’ come accaduto a Vanessa Scalera, anche Barbara Ronchi si ritrova davanti alla possibilità di veder affermarsi ciò che più di ogni altra cosa, famiglia a parte, la rende felice. Ed è proprio da Imma Tataranni che cominciamo la nostra intervista esclusiva con Barbara Ronchi, una conversazione che restituisce il ritratto sereno di una donna di oggi, consapevole del potere dell’autodeterminazione.
Intervista esclusiva a Barbara Ronchi
Nella prima puntata della terza stagione di Imma Tataranni, abbiamo visto Diana, “la cancelliera”, avvicinarsi in maniera quasi inedita al sostituto procuratore: è molto più coinvolta nelle indagini.
Visto che Calogiuri era lontano dalla procura, c’è sembrato quasi naturale che la persona di cui Imma si fidava più, Diana, diventasse il suo braccio destro a tutti gli effetti. Diana ama il suo lavoro ma ciò le ha dato uno scossone in più: ha la possibilità di uscire dalla procura e di essere più dentro alle indagini, qualcosa che le è sempre piaciuto.
Il ritorno di Calogiuri, però, rimescolerà nuovamente le carte in tavola. Non rimarrà Diana delusa, come è umano pensare?
Diana adora Calogiuri, sa che quello a fianco di Imma è il suo posto. Non se la prenderà assolutamente con lui però sarà spinta a fare delle valutazioni sulla sua vita. Dal suo punto di vista, il suo rapporto con Imma è rimasto sempre lo stesso: è stata semmai Imma a darle in assenza di Calogiuri maggiore fiducia, accrescendo la stima che ha nei suoi confronti e perdendo un po’ di quella diffidenza che è un po’ il suo tratto distintivo. Dopo tanti anni vicine, hanno scoperto che non sono solo amiche ma che possono anche collaborare insieme: lo fanno e funziona.
In un panorama televisivo profondamente cambiato dal punto di vista degli ascolti, in cui un programma seguito da due milioni di persone rimane in prime time, il ritorno di Imma Tataranni ha catturato l’attenzione di quasi 5 milioni di persone, con il 27,1% di share. Qual è stata la tua reazione nel vedere un’accoglienza così calorosa da parte del pubblico?
Ho provato una sensazione bellissima. Di fronte a quei dati, senti che si è creato un rapporto speciale con le persone. Dopo la messa in onda mi sono arrivati tantissimi messaggi di ringraziamento da parte di moltissima gente che non vedeva l’ora di guardare la serie. Imma Tataranni è un prodotto che, secondo me, riesce a coniugare perfettamente l’aspetto crime con quello della commedia, non sfociando mai nella farsa o nella presa in giro di qualcuno o qualcosa. L’affetto del pubblico rimane incredibile e credo anche che si rifletta nel lavoro che facciamo sul set: dagli attori alla produzione, teniamo tantissimo al progetto.
In un certo modo, al pubblico arriva anche la complicità tra voi attori.
È verissimo. L’altra grande forza di Imma Tataranni è data dal fatto che sul set siamo diventati casa l’uno per l’altro. È bellissimo ritrovarsi da cinque anni a intervalli regolari: il giorno in cui ci apprestiamo a girare una nuova stagione (solitamente un anno sì e un anno no), ci si abbraccia proprio come parenti che non si vedono da un po’.
E poi ci divertiamo mentre la giriamo, cercando però di mantenere sempre alta l’asticella. Nessuno di noi va in automatico con i propri personaggi, tendiamo sempre a sorprenderci: se faccio divertire te che sei con me sul set, immagino che si divertirà dopo anche chi è a casa davanti alla tv. C’è un gioco che faccio con Vanessa Scalera: cerco di farla ridere veramente pensando che così riderà anche il pubblico.
Barbara Ronchi in Imma Tataranni 3
1 / 10Quello tra te e Vanessa Scalera è un rapporto speciale che va al di là della serie tv stessa. A breve, vi ritroverete entrambi al Festival di Roma con dei film molto diversi: tu con Io e il secco e lei, invece, con Palazzina LaF e Dall’alto di una fredda torre, ispirato allo stesso spettacolo che hai tu portato in scena a teatro qualche anno fa.
Io e Vanessa ci siamo conosciute proprio a teatro. Lo spettacolo teatrale che ho interpretato era stato scritto per lei, che in quel momento era impegnata con le riprese di Lea di Marco Tullio Giordana. La produzione ha di conseguenza cercato un’attrice che potesse sostituirla per le prove in teatro. Ed è stato così che mi sono presentata io che non conoscevo nessuno… ed è da lì che è cominciata la nostra amicizia perché sin da subito si è capito che non c’era rivalità tra noi: quel ruolo è come se l’avessimo preparato entrambe e il che è qualcosa di abbastanza speciale.
Nella prima scena della prima puntata di Imma Tataranni 3 vediamo Imma e Diana bambine. Che tipo di bambina è stata Barbara Ronchi?
Credo di essere stata una bambina molto vivace e molto curiosa. Mi piaceva mettere su degli spettacoli casalinghi con i miei fratelli durante le cene… spettacoli per cui, giustamente, volevamo anche essere pagati e chiedevamo il pagamento di un biglietto: eravamo già imprenditori!
Cosa porta poi quella bambina che amava la recitazione a studiare scienze storiche e archeologia all’università?
È complicato dire a se stesso di voler far l’attore. Almeno, lo è stato nel mio caso: mi vergognavo di dirlo sia a me sia agli altri. Subivo quel pregiudizio per cui la figura dell’attore è molto legata a un concetto di vanità e, quindi, mi vergognavo di essere associata a quel paradigma. Al tempo stesso, mi era sempre piaciuto studiare storia e, di conseguenza, archeologia, ragione per cui mi sono iscritta a una facoltà che ai miei occhi non appariva difficoltosa e che mi consentiva di continuare a studiare recitazione.
Una volta laureata, avrei avuto la possibilità di continuare il percorso universitario con il dottorato. Ma, dentro di me, c’era quella voce che mi diceva “adesso o mai più, dopo sarai troppo grande per provarci”. E così a 24 anni ho sostenuto il provino per entrare all’Accademia Silvia D’Amico di Roma: mi ero preparata in gran segreto, senza dire nulla ai miei, per tutta l’estate. Venivo poi pian piano ammessa agli step successivo finché non sono stata ammessa.
E a quel punto ho dovuto dirlo ai miei. Loro sono stati fantastici: “Ci fidiamo di te” è quello che mi hanno letteralmente detto, “fai quello che ti senti e sii felice”. È stato un bel modo per cominciare a sentire l’amore, l’affetto e la fiducia di tutti.
Un inizio che ti ha portato fino a questo 2023 per te molto speciale da un punto di vista professionale. Sei appena rientrata dal Toronto Film Festival (TIFF).
Sono stata lì per la prima uscita nordamericana di Rapito, il film di Marco Bellocchio che verrà distribuito negli Stati Uniti. È stato particolarmente emozionante vedere come reagiva il pubblico di fronte a una storia molto legata al nostro tessuto sociale: è rimasto molto colpito dal rapimento di un bambino da parte della Chiesa, una vicenda che è molto lontana dal loro vissuto storico-politico. Ma è stato anche sorprendente ritrovarsi a un festival pensato in primo luogo per il pubblico: la sensazione era quella di entrare tutti in un grande cinema per vedere e vivere il film tutti insieme. Seguivano poi il Q&A e il dibattito con il pubblico e c’erano pochissimo glamour e moda. In più, c’erano proiezioni in continuazione: non essendo solo competitivo, il TIFF è anche un market place da dove arrivano opere da tutto il mondo per essere presentate ai distributori americani.
Il pubblico internazionale ha avuto già modo di conoscerti bene grazie a un film che su Netflix è stato per molto tempo al primo posto della top ten dei più visti in tutto il mondo: Era ora.
È stata un’esperienza incredibile. Avevamo fatto un film in cui credevamo tutti e che avevamo amato molto. Quando ci hanno comunicato che non sarebbe uscito in sala come previsto, naturalmente ci era dispiaciuto. Le commedie in sala sono in questo momento il genere che pagano di più lo scotto della chiusura per il CoVid, c’è come una sorta di allontanamento tra il pubblico e il cinema che mi auguro che prima o poi finisca. Per tale ragione, si era optato per l’uscita direttamente in piattaforma e, col senno di poi, è stata la fortuna di quello che era il nostro piccolo film, che in sala non avrebbe mai avuto la stessa visibilità. Mi hanno scritto da ogni parte del mondo…
E il 2023 è stato anche l’anno in cui sei stata premiata con il David di Donatello come miglior attrice protagonista per Settembre, il film di Giulia Steigerwalt che presto vedremo anche su Rai 3. Cosa significa per un’attrice vedere riconosciuto il proprio lavoro anche con un premio?
La cosa più bella che ho sentito quella sera è stato l’affetto e la stima dei colleghi intorno. Quando è stato pronunciato il mio nome, è partito un bellissimo applauso spontaneo che mi ha mostrato quanto i colleghi fossero coinvolti e felici per me. Tra i seduti, c’erano anche tante persone con cui avevo lavorato e avevo conosciuto negli anni… è sempre importante che quello veda quello che fai e che lo sostenga: ti fa sentire meno sola, ti fa capire che stai facendo bene il mestiere e ti dà la benzina per continuare a farlo. È come se ti infondesse anche la forza per voler fare sempre di più.
Ci si senti soli nel fare gli attori?
Beh, siamo soli. Il nostro è un lavoro che si fa principalmente in solitudine. Un po’ come succede in tanti altri settori, è solo dopo che si comincia a lavorare in gruppo con gli altri. Viviamo grandissimi momenti di preparazione dove non c’è nessun altro presente e periodi in cui non lavoriamo. E questi ultimi non è detto che siano momenti sempre piacevoli: non lavorare per tanto tempo può spingere a rimettere tutto in discussione. Sono periodi di solitudine che cerchiamo di riempire con lo studio e con la preparazione per farci trovare poi pronti quando arriverà un altro progetto. Non è un mestiere facile ed ecco perché è bellissimo sentire qualcuno che ti sostiene con il suo affetto.
Com’è convivere in casa con qualcuno che fa il tuo stesso mestiere? Il tuo compagno (Alessandro Tedeschi, ndr) è un attore e insieme avete condiviso anche il set di Dieci minuti, il film di Maria Sole Tognazzi tratto dal romanzo di Chiara Gamberale di prossima uscita.
È molto bello e stimolante perché, chiaramente, il tuo compagno capisce esattamente i momenti in cui sei assente fisicamente perché stai lavorando in un’altra città e ti sostiene. Nel nostro caso, ci sosteniamo a vicenda e capiamo quali sono i sacrifici che l’altro fa. Immagino che valga per tutte quelle coppie in cui i due fanno lo stesso lavoro, anche se a volte potrebbero innescarsi degli strani meccanismi di competizione… tra di noi c’è sempre stato però sostegno e rispetto: Alessandro è una delle prime persone a cui chiedo consigli e a cui faccio leggere le sceneggiature per avere dei feedback. E viceversa.
Hanno smesso di chiederti a chi lasci tuo figlio quando vai al lavoro?
Fortunatamente non me l’hanno mai chiesto. La mia è una famiglia in cui, per via dello stesso lavoro, i ruoli sono del tutto interscambiabili: se non ci sono io, c’è Alessandro e viceversa. Copriamo l’uno la mancanza dell’altra e siamo comunque sostenuti da una grande comunità di amici e familiari che sono pronti ad aiutarci: un po’ come quando mia madre mi lasciava a mia nonna o a mia zia. Naturalmente, facciamo il possibile per portarci nostro figlio dietro, dal momento che il nostro lavoro permette di farlo almeno fino a quando non frequenterà le scuole elementari: dopo, si vedrà.
Quattro film di prossima uscita (Io e il secco, Dieci minuti, Non riattaccare e Santocielo) e uno in lavorazione (Il treno dei bambini). Come sceglie i progetti Barbara Ronchi?
La prima discriminante è la storia. A volte, scelgo in base a chi è il regista… ma sono tanti i fattori per cui si scelgono i progetti, compresi gli attori e i colleghi con cui vorrei lavorare. Mi piace spaziare tra i generi: mi piace la commedia come mi piace il dramma, il film storico come il contemporaneo. Ciò che rimane di tutta questa varietà sono io e il desiderio di scomparire nei personaggi ed essere il meno riconoscibile possibile.
In Santocielo, il nuovo film di Ficarra e Picone, ritrovi Francesco Amato, il regista della serie tv Imma Tataranni. È stato facile passare con lo stesso regista dalla serialità televisiva al cinema?
Sì. Francesco, che viene dal cinema, ha girato Imma Tataranni come se fosse un progetto cinematografico. Cambiavano solo i tempi, dato che la tv procede in maniera molto più veloce del cinema. Sul set di Santocielo, non ho notato cambiamenti: era sempre lui con il suo desiderio di tenere sempre alta la qualità. In più, Francesco riesce a tenere sempre unito il set: si lavori tutti in un’unica direzione, la buona riuscita. È bravissimo nel creare gruppo bellissimi di lavoro.
Hai portato qualche tempo fa a teatro Giusto la fine del mondo. Se ci fosse davvero l’apocalisse, cosa salveresti?
Se potessi salverei tutto e tutti. Mi piacerebbe fare come in quei cartoni che guarda mio figlio, dove c’è sempre un familiare che a un certo punto scopre di avere dei superpoteri. Ecco, in quella situazione mi farei venire io i superpoteri per salvare tutto il possibile.
Anche la spasmodica voglia di apparire?
No, per carità.
Che rapporto hai con i social?
Li uso ma non condivido quasi mai niente di personale. Sono quasi tutti contenuti legati al lavoro ma so che alle persone che ci seguono fa piacere quando concediamo qualcosa di ciò che stai per fare o anche della tua felicità. E mi onora pensare che siano felici di vedermi. Di conseguenza, ogni tanto, è giusto anche restituire parte di quella loro felicità.