Pastimes (Z Tapes/La Barberia Records) è il nuovo album dei Baseball Gregg, il duo italo-californiano che nel corso dell’ultimo anno ha già pubblicato tre diversi EP. Tuttavia, Pastimes non può e non deve considerarsi come la summa dei lavori editi ma è un prodotto che, pur comprendendo i brani già rilasciati, ne aggiunge altri 8 più un ghost track.
Composto dai Baseball Gregg per la prima volta con la band al completo, Pastimes spazia tra atmosfere pacate e poghi estivi, linee di violoncello (scoprirete nel corso dell’intervista perché) e un’anima elettrica. E tutto sotto il nume tutelare di James Joyce. Già il titolo, fa riferimento a una frase dello scrittore: Pastimes are past times, i passatempi sono tempi passati, da Finnegas Wake. Ma l’atmosfera joyciana è presente anche in copertina, dove campeggia un ritratto realizzato da Sam Regan, la metà americana dei Baseball Gregg, di Lucia Joyce, sfortunata figlia dell’autore di Gente di Dublino.
Episodi intimi, richiami storici e letterari, epifanie personali e momenti collettivi compongono l’arco narrativo di Pastimes. A parlarcene è direttamente Luca Lovisetto, la metà italiana dei Baseball Gregg, un gruppo che, scherzando, ha il dono dell’ubiquità per via della particolare formazione spesso “splittata”.
Intervista esclusiva ai Baseball Gregg
Pastimes è il vostro primo lavoro realizzato in maniera per voi strana. Per la prima volta, vi siete ritrovati a lavorare fisicamente nello stesso posto e non a distanza, uno negli Stati Uniti e l’altro in Italia.
Vivo a Bologna mentre Sam vive negli Stati Uniti, in California. Aveva in programma sin dal 2019 di trasferirsi a Bologna: iscriversi all’università era il modo più comodo per ottenere un visto. Ci siamo conosciuti nel 2013, quando grazie al programma Overseas dell’Università di Bologna era venuto in Italia. Da allora, Sam ha continuato a tornare ciclicamente in Italia, soprattutto d’estate, fino a quando è nata in lui la decisione di provare a restare qui e iscriversi al Dams. Il CoVid ha però frenato i suoi piani, ritardandoli di due anni. Ed è così che ci siamo ritrovati per 10 mesi nello stesso posto e abbiamo approfittato della finestra temporale abbastanza lunga per completare l’album.
L’album arriva dopo alcuni mesi in cui, con una cadenza quasi regolare, avete fatto uscire dei diversi EP. Tuttavia, sarebbe limitante definire Pastimes come la summa dei lavori già editi.
I tre EP in totale contenevano 12 pezzi. Nell’album ce ne sono 20 più una ghost track: alcuni sono stati scritti in passato ma il grosso del lavoro è stato fatto tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022. L’album ha come nume tutelare James Joyce, a cominciare dal titolo Pastimes. Ci piaceva Pastimes perché in qualche modo creava un bel parallelismo con ciò che era successo negli ultimi anni nelle vite di tutti. Il lockdown ha lasciato i suoi traumi in tutti e ha condizionato le scelte anche di noi stessi.
Da dove nasce la passione per Joyce?
Avevo scorto il titolo Pastimes quasi per caso in una bibliografia di un libro di Joyce: alcuni suoi amici di New York avevano pubblicato un suo libro postumo, chiamato appunto Pastimes. Mi sono chiesto cosa fosse e ho scoperto che si trattava di una sorta di raccolta di opere, alcune non pubblicate, che doveva il suo titolo a un passaggio di Finnegans Wake, un libro che non ho letto. . Credo che nessuno possa fregiarsi di averlo fatto dal momento che è una sorta di tunnel psicotico nella testa di due decenni dello scrittore che, divenuto cieco, lo aveva dettato ad altre persone, tra cui la figlia.
A dire il vero, c’è stato un momento in cui mi sono appassionato molto al personaggio di Joyce, leggendo ogni cosa che lo riguardasse, persino le lettere, e approfondendo ogni aspetto della sua vita. Ed è inevitabile che si sia creato in me tutto un immaginario che ha poi pervaso anche l’album, a cominciare dalla sua copertina in cui è raffigurata una delle figlie dello scrittore.
Anche le lettere?
Era una fascinazione del tutto casuale. Ero incappato in un passaggio di una delle prime lettere di Joyce al fratello in cui descriveva Roma in maniera caustica. Parlava della capitale come un uomo che fa vedere ai turisti il cadavere di sua nonna. Anche se già la lettura al liceo di Gente di Dublino mi aveva fatto nascere una certa passione nei confronti di Joyce: al quinto anno, sono persino andato con la mia ragazza a Dublino. Quindi, era una passione che ho tenuto sopita per quasi dieci anni! È un autore che mi affascina come tutti quelli che traducono un po’ in auto fiction la propria vita, che parlano di loro in tutte le proprie opere.
E la copertina di Pastimes raffigura, come accennavi prima, Lucia Joyce, la figlia dello scrittore che ha avuto un’esistenza a dir poco disgraziata.
Volevamo mettere la foto originale di Lucia ma per questioni di diritti abbiamo optato per un dipinto realizzato da Sam. Lucia è un personaggio interessante dal punto di vista biografico. Era la seconda figlia di Joyce, quella con cui aveva un rapporto più intimo, tanto che negli anni in cui lo scrittore cominciava a non vedere, Lucia l’aiutò anche a scrivere. Da giovane, Lucia ebbe una relazione con Samuel Beckett, che poi la lasciò. In seguito a gravissimi traumi con la madre Nora, cominciò ad avere crisi psicotiche: il padre la fece anche visitare da Jung, uno dei più grandi specialisti dell’epoca. E il peggio per Lucia arrivò quando, morto il padre, venne abbandonata dalla madre in manicomio, dove passò il resto della sua esistenza.
Quella di Lucia è una parabola molto, molto straziante. Di recente, in occasione del centenario dell’Ulisse, sono uscite molte biografie, tra cui una molto interessante di Luigi Guarnieri per La Nave di Teseo. Anche se in realtà io ho scoperto molto grazie al lavoro di una scrittrice inglese, Carol Loeb Shloss, che è partita da quando Lucia era una stella della danza nella Parigi degli Anni Venti.
La fascinazione per Joyce è tale che una delle canzoni è dedicata alla figura di Sylvia Beach, editrice queer delle opere dello scrittore.
La canzone parla ovviamente di altro ed è nata dalla visione a Bologna di un film egiziano degli anni Settanta, Alexandria… Why? di Youssef Chahine. Il film è una sorta di autobiografia del regista che parte dal suo paese per andare a studiare Cinema in America, anche per rendere orgogliosi i propri genitori. Abbiamo quindi cercato un parallelismo in una figura analoga dell’immaginario joyciano che stavamo raccontando. E abbiamo trovato Sylvia Beach che fa un percorso inverso a quello di Chahine: parte dagli Stati Uniti per affermarsi a Parigi, dove apre una libreria (la Shakespeare and Company) e pubblica per la prima volta l’Ulisse (ma anche Hemingway).
Sylvia Beach è stata un personaggio abbastanza rilevante per la cultura del Novecento, specialmente in ambito letterario. Ed è stata una donna di grande carattere, non solo per il coraggio di vivere liberamente la propria sessualità in un periodo in cui non era facile come oggi ma anche per quello di opporsi al nazismo, rifiutandosi di consegnare le ultime copie del Finnegans Wake rimaste in città.
Ti trovo ferrato sulla letteratura e sulla storia. Percorso formativo classico alle spalle?
In realtà, il mio percorso di formazione è piuttosto frastagliato. Ho frequentato il liceo scientifico prima di frequentare Medicina per quattro anni e mezzo all’Università di Bologna. Non mi sono però laureato: a un certo punto, ho maturato anche una certa insofferenza anche nei confronti dell’ambiente ospedaliero, oltre che ad avere problemi di salute. Ho quindi cominciato a lavorare, prima come volontario e poi come giornalista, in una radio di Bologna che adesso ha chiuso (Radio Città del Capo). Oggi, invece, mi occupo di progetti per la scuola sempre come giornalista.
Sono, però, molto appassionato di letteratura, anche se è Sam quello che legge più di me. Io sono più portato per l’aneddotica. Ma nessuno dei due ha una formazione letteraria: Sam ha studiato Matematica, anche se ora fa tutt’altro, insegna a scuola.
Nei vostri brani parlate comunque di aspetti anche molto intimi. Cosa rappresenta la scrittura per i Baseball Gregg? Ha un valore terapeutico o è una valvola di sfogo?
Le due cose non si escludono. Anzi, molte volte scrivere è terapeutico, altre volte è uno sfogo. La maggior parte dei nostri brani parla di noi e con riferimenti che molto probabilmente non sono comprensibilissimi a un orecchio esterno. A noi scrivere è servito tantissimo per emanciparci da quella saudade adolescenziale o, comunque, da quella situazione di totale incomunicabilità che si può avere in una certa fase della vita. Non dico che scrivere sia necessariamente una terapia ma può aiutare in qualche modo, è qualcosa che fa bene.
L’hai appena citata: l’adolescenza. Che tipo di adolescenti siete stati? È nata allora la passione per la musica?
Siamo stati adolescenti come tanti, con i dolori del giovane Werther aggiornati al Duemila. La passione della musica è nata per me molto tardi. Da piccolissimo, avevo cominciato a studiare il pianoforte. Dai cinque ai dieci anni, ho fatto pianoforte classico. Poi, invece, ho cominciato a giocare a basket e a fare tante altre cose, non considerando più la musica. Più o meno intorno ai 18 anni, per via di amici e di cose che stavano accadendo in quel periodo, ho deciso di cominciare a suonare la chitarra da autodidatta: prima nella mia stanzetta e poi insieme ai primi gruppi. È stato il momento in cui è cambiata tutta la mia vita.
Passando dai tempi passati ai passatempi, quali sono i tuoi?
Recentemente ho cominciato a suonare il violoncello. Quest’estate, abbiamo conosciuto Cristina Muñoz, una violoncellista e compositrice spagnola che sta a Londra. Ha arrangiato tutti gli archi dell’album e quest’estate è venuta a Pesaro. Vedendo quello strumento e come ne parlava, mi sono incuriosito. Sam, invece, ha la passione per la pittura, per gli acquerelli: gli è nata negli ultimi due anni ed è diventata quasi un lavoro.
Dietro al concetto di passatempo si nasconde un ragionamento, se vogliamo anche nichilista, che facevamo ancor prima di incontrare la parola in Joyce. Nella vita tutti abbiamo un sacco di strutture che ci autoimponiamo, come il lavoro, il dovere e così via. Quindi, la vita si compone di attività che facciamo per passare il tempo: è un’attitudine in cui ci rispecchiamo.
Tra i temi che trattate nelle canzoni ce n’è uno molto personale: il funerale di un amico suicida. Cosa lascia quel tipo di esperienza?
Non era proprio un amico, era un musicista con cui non è che fossi in rapporti stretti. Tuttavia, era accaduto un episodio che mi aveva colpito e dilaniato per un po’ di tempo. Tutto è successo due settimane prima del lockdown che ha sconvolto il mondo; quindi, ho avuto molto tempo per pensarci. In quel periodo, prendevo lezioni di tennis da tavolo e lui era venuto a un paio di lezioni. La settimana prima del gesto aveva anche pagato l’intero corso ed è proprio questo che mi ha mandato in tilt e fatto riflettere sulla consequenzialità delle azioni.
Recentemente si è tolto la vita anche un altro giovane, senza grossi prodromi, probabilmente dopo un trauma legato al CoVid. Quindi, è stato un tema un po’ ricorrente nel nostro album, anche in pezzi che non ne parlano esplicitamente di suicidio o di morte. Molto probabilmente il CoVid ha catalizzato dei rapporti di forza della società e tendenze che già esistevano ben prima.
Per citare una vostra canzone, se i Baseball Gregg fanno un giro in bicicletta in un pomeriggio d’agosto, come in Montese, dove vanno?
Nell’Appennino bolognese, dove solitamente vado in bicicletta nei pomeriggi d’agosto. I colli bolognesi si prestano molto, con o senza Vespa Special.
Tu e Sam siete giovani. Che rapporto avete con i social?
Non buonissimo. Sono di fatto un lavoro che toglie quasi più tempo della produzione musicale: si usano un po’ per inerzia ma non si capisce quanto possano influire realmente. Sam è addirittura meno attivo di me, sta solo su Twitter. E anche per me i social sarebbero un tipo di mondo dal quale cercherei di fuggire qualora potessi.
Quindi, non aprirete mai un profilo OnlyFans per parafrasare il titolo di un’altra canzone contenuta nell’album.
Sam ha scritto questo brano dal punto di vista di qualcuno che ha una relazione insalubre con la pornografia e che si innamora di una persona che vede su OnlyFans. In generale siamo a favore del sex-work e del porno in generale, ma è interessante come questo brano sia in realtà interpretabile fra le righe anche come una critica più vasta della mercificazione del privato nelle nostre vite effettuato dal capitale avanzato. In Italia tendiamo ad avere un certo stigma nei confronti del sex working: probabilmente tendiamo ad avere ancora un certo tipo di prurito vittoriano, figlio anche dei tempi che viviamo.
Possiamo secondo voi sperare in Better Days?
Better Days è la canzone che chiude l’album. Volevamo un finale abbastanza positivo e, poiché si racconta di un mondo migliore senza l’uomo, abbiamo scelto una musica che facesse da contraltare. Non volevano sembrare degli ecofascisti ma ci piaceva l’idea di un mondo in cui l’egoismo dettato dal consumo venisse sconfitto. Alla fine della canzone, la natura trionfa e il mondo continua a girare anche senza l’uomo.
Avete in mente un tour?
I Baseball Gregg hanno una formazione “splittata” in due. Esistono i Baseball Gregg in Italia con gente che suona qui. Ed esistono i Baseball Gregg negli Stati Uniti con gente che suona là. Ogni tanto queste due entità si incontrano, in Italia o a metà strada, come è accaduto qualche tempo fa per un festival in Islanda. Io in Italia e Sam in America viaggiamo in parallelo portando il nostro progetto avanti in entrambi i territori.
E non si creano così fenomeni di competizione?
No. Anzi. Ci permette di essere in due posti diversi nello stesso esatto momento.
Ti senti libero di essere ciò che vuoi?
Si. Nei limiti che il vivere in società impone.