In un paese come quello iraniano, parlare e denunciare significa spesso morte e lo sa bene Masih Alinejad, una giornalista e attivista nominata al Nobel per la Pace nel 2021, che si è fatta voce delle donne iraniane con le sue battaglie di civiltà. Alla sua figura e al suo percorso, favorito dai social media, è dedicato Be My Voice, il film diretto da Nahid Persson che Tucker Film porterà in sala il 7 marzo in occasione della Festa della Donna.
“Questo documentario è un importante riconoscimento a chi, dall’esilio, non rinuncia ad agire in favore dei diritti umani ma soprattutto al coraggio di chi, dall’interno dell’Iran mette a rischio il proprio futuro per ribadire un principio fondamentale: le leggi che obbligano a indossare o vietano di indossare capi d’abbigliamento sono contrarie ai diritti”, ha commentato Riccardo Noury, il portavoce italiano di Amnesty International.
Dare voce a chi non ce l’ha
Nahid Persson, la regista del film Be My Voice, è iraniana ma da tempo sta in Svezia. Ha diretto una serie di appassionati documentari che denunciano la corruzione e la crudeltà dei leader della Repubblica islamica d’Iran. I suoi film, da Prostituzione dietro il velo a La mia rivoluzione rubata, hanno descritto in maniera dettagliata il modo in cui il governo del paese ha calpestato i diritti dei propri cittadini.
Le sue opere sono state selezionate in diversi festival del mondo, hanno vinto vari premi e hanno trovato la distribuzione in molti territori. Tuttavia, a nulla è servito il suo operato. La stessa Persson si è resa conto con il tempo che i governi occidentali erano come sordi e ciechi. Nessuno di loro ha avuto mai il coraggio di affrontare il regime iraniano. E la repressione nel Paese ha preso il sopravvento, macinando tutto ciò che incontrava sul cammino.
Questa è la ragione principale per cui, nel 2013, ha deciso, con dolore, di smettere di fare film politici sull’Iran. Ha virato allora su temi diversi con il documentario Io, Anders e le altre 23 donne, un film sull’amore e gli incontri nel XXI secolo trasmesso spesso in tv da Cielo. Il soggetto, il tennista professionista Anders, era un Casanova dei nostri giorni che usciva contemporaneamente con 24 donne diverse. E una di queste era proprio lei, Nahid Persson.
- Un nuovo cambio di decisione
Tuttavia, la decisione non è durata a lungo. “Due anni fa, di fronte a cosa stava accadendo in Iran, non potevo chiudere gli occhi”, ha ricordato la regista del film Be My Voice. “Come me, c’erano altre iraniane in esilio. Come la giornalista e attivista Masih Alinejad, che ha 6 milioni di followers su Instagram. Usavano i social media per riferire delle atrocità commesse dalle autorità iraniane contro i concittadini”.
“Ho deciso di realizzare il film Be My Voice quando mi sono resa conto che sui social le persone, disperate, inviavano video a Masih affinché lei divenisse la loro voce. Per far capire cosa accadesse in Iran basta fare un esempio. Nel novembre del 2019 la gente protestava contro l’aumento del prezzo della benzina. In tre giorni, il regime ha ucciso 1500 persone e ne ha arrestate 7 mila. Molti dei detenuti sono stati poi condannati a morte. Il regime ha disattivato internet in tutto lo stato: così facendo, il mondo intero non avrebbe saputo niente del genocidio in corso. La gente, però, ha trovato il modo per far pervenire i video a Masih”.
Chi è Masih Alinejad
Masih Alinejad, l’attivista al centro del film Be My Voice, è una guerriera che lontana dalla sua terra d’origine continua a lottare contro ogni limitazione dei diritti civili, per il rispetto delle donne. Lei è l’esempio da seguire per milioni di donne iraniane che si ribellano contro l’obbligo di indossare l’hijab. Il rischio di morire non la spaventa. Le minacce continuano ad arrivarle ma nulla sembra scalfire la sua forza e zittirla.
Attraverso Instagram, raccoglie testimonianze e video inediti di chi in Iran è rimasto. In paese in cui la vita umana vale meno di quelle degli animali da soma, le donne in particolare non hanno voce in capitolo. La loro condizione è quasi preistorica e disumana, priva anche del più comune dei diritti: vestirsi come si pare.
La vita delle donne in Iran
Sembrano passati secoli da quando sotto la dinastia Pahlavi fu bandito il velo e le università erano aperte a chiunque, senza discriminazione di genere. La rivoluzione bianca aveva portato a un’emancipazione quasi totale: i nuovi codici progressisti introdotti permettevano ad esempio il divorzio e limitavano la piaga della poligamia. Le spose bambine erano un ricordo lontano (la maggiore età era il limite minimo per contrarre matrimonio) e l’aborto era stato legalizzato nel 1977.
Tuttavia, le forme di resistenza al sistema politico dello Scia fecero vivere l’occidentalizzazione della nazione come una forzatura. Il regime dell’ayatollah Khomeini fece poi il resto cancellando ogni forma progressista. Ogni donna perse il loro incarico e venne obbligata a indossare il velo. A nulla servirono gli interventi di altre nazioni, coraggiose più ieri che oggi. “Le donne che hanno fatto la Rivoluzione erano e sono donne con la veste islamica, non donne eleganti e truccate come lei che se ne vanno in giro tutte scoperte trascinandosi dietro un codazzo di uomini. Le civette che si truccano ed escono per strada mostrando il collo, i capelli, le forme, non hanno combattuto lo Scià”, disse Khomeini nella famosa intervista rilasciata alla giornalista e scrittrice italiana Oriana Fallaci.
- L'obbligo del velo
Non portare il velo oggi può comportare per le donne pene asprissime. Come ci ricorda il caso dell’avvocata Nasrin Sotoudeh, condannata a 38 anni di carcere e 148 frustrate. L’associazione è semplice: se non porti il velo, sei una prostituta. Un’associazione del tutto stupida, inutile e fuorviante. La stessa Nahid Persson, la regista del film Be My Voice, ha dimostrato con il suo La prostituzione dietro al velo come indossare il velo non sia sinonimo di purezza e incorruttibilità.
Nel film, Persson raccontava la storia di due giovani di Teheran, Minna e Fariba. Vicine di casa, amiche e vittime del sistema iraniano, si prostituivano per strada. Le due erano inoltre sempre costrette a scegliere tra il lasciare i loro piccoli figli a casa e il portarli con loro mentre consumavano i loro rapporti con vari uomini. Sfidavano la legge islamica che vieta la prostituzione e persegue l’adulterio, rischiando anche la pena capitale.
Eppure, indossavano il velo: segno che non è l’abito che rende una donna pura ma il contesto in cui è obbligata a vivere. Quale vita può esistere in un Paese fondamentalista che rielabora e reinterpreta le leggi a misura dell’uomo, come se non esistesse l’altra metà del cielo?
“La Repubblica islamica è come l’Isis”
Per Nahid Persson, il film Be My Voice rappresenta anche un modo per ridare speranza a chi in Iran l’ha persa. E per tale ragione si è tuffata anima e corpo nel documentario lavorandoci per due anni dalle 6 del mattino fino a tarda notte, senza prendersi mai una pausa. “Ho fatto il film per la mia famiglia, per la mia gente, per me”, ha evidenziato più volte. “La Repubblica islamica crollerà quando il popolo sarà unito e le altre nazioni boicotteranno il regime. Devono tutti capire che il regime non è così diverso dall’Isis: ha fatto le stesse identiche cose. L’unica differenza è che il regime è al potere da 42 anni e giustifica le sue azioni con la legge islamica”.
Le riprese di Be My Voice sono cominciate all’inizio del 2019. La regista Nahid Persson si è recata a New York, dove vive Masih Alinejad, per seguirne i passi ovunque. “Masih è molto simile a me”, ha ricordato Persson. “È un’attivista come me. Ma ha cento volte più energia di me. Sono rimasta affascinata: riesce a essere in dieci posti diversi quasi nello stesso momento!”.
Sebbene viva negli Stati Uniti, Masih continua a ricevere minacce di morte. Il regime iraniano non la lascia in pace. Non dimentichiamo che molti giornalisti dissidenti iraniani residenti all’estero sono stati a lungo tormentati dal regime e, in taluni casi, raggiunti e uccisi. A perdere la vita è stato Ruhollah Zam, amico della regista giustiziato nel dicembre del 2020. La stessa sorella di Masih è stata costretta a prendere le distanze dal suo operato. Così come la regista Persson ha vissuto l’onta dell’arresto per il documentario La prostituzione dietro al velo.