Per Beatrice Puccilli, esplorare la psiche di un personaggio complesso e sfaccettato come Vera nella serie Netflix Adorazione non è solo una sfida attoriale, ma anche un viaggio emotivo che intreccia profondamente le esperienze personali con quelle della finzione. Beatrice Puccilli, con una sensibilità che va ben oltre il talento recitativo, si è immersa in questo racconto trasformando una figura fragile e forte al tempo stesso in un simbolo di crescita e resilienza.
“Sono contenta che arrivi l’evoluzione del personaggio, la sua crescita ma anche la sua apertura alla dolcezza e alla tenerezza,” esordisce Beatrice Puccilli, cogliendo l’essenza di Vera, che rappresenta una delle sorprese più potenti della serie. Attraverso il suo racconto, Beatrice Puccilli ci invita a riflettere non solo sul suo personaggio, ma anche sulle dinamiche che segnano l’adolescenza, la solitudine, la fragilità delle relazioni e quel senso di incompletezza che spesso accompagna il passaggio verso l’età adulta.
L’intervista è un’occasione per addentrarci nella mente di una giovane attrice che, con un’intelligenza rara e una disarmante sincerità, riesce a collegare le proprie esperienze di vita con quelle dei suoi personaggi, creando un ponte tra finzione e realtà che emoziona e fa riflettere. Beatrice Puccilli non interpreta semplicemente Vera: la comprende, la vive e, attraverso di lei, restituisce al pubblico un racconto universale di autodeterminazione, scoperta e accettazione.
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Intervista esclusiva a Beatrice Puccilli
“Sono contenta che arrivi l’evoluzione del personaggio, la sua crescita ma anche la sua apertura alla dolcezza e alla tenerezza”, esordisce Beatrice Puccilli quando le si fa notare come Vera, colei che interpreta nella serie Netflix Adorazione, sia una delle sorprese del racconto. “Nel leggere la sceneggiatura ero molto felice di essere lei. Per capirla a livello emotivo non sono dovuta andare molto distante da chi ero io a quindici anni: nonostante le differenze legate al contesto sociale, economico o familiare, l’emotività era la stessa”.
E chi era Beatrice a quindici anni?
Da molti punti di vista, credo di essere rimasta sempre la stessa ragazza determinata e per certi versi forte: le persone che ho avuto intorno hanno potuto appoggiarsi molto su di me e sulla mia apparente forza anche per questioni che forse non dovrebbero appartenere a una quindicenne. Avevo allora le mie fragilità, come le ho tutt’ora che sono un po’ più strutturata, ma quella che più mi pesava era l’ansia, che mi portava a soffrire di attacchi di panico e a non star bene senza che nessuno sapesse cosa mi affliggesse. Non che non ne conoscessero le ragioni: mascheravo io le mie condizioni perché non potevo e non volevo mostrare la mia vulnerabilità. Sbagliando, tra l’altro, perché è stato nel momento in cui ne ho parlato che il mio malessere ha cessato di esistere.
Non ne parlavi nemmeno con tua madre?
Mia madre è stata di sicuro molto più presente della madre di Vera. E, a onor del vero, in ciò sono stata molto fortunata: nonostante lei lavorasse e percepissi di conseguenze delle piccole assenze, ho sempre capito che tutto ciò che faceva era sospinto dall’amore per me e per mio fratello. A livello emotivo, è stata sempre presente, anche quando il lavoro la teneva lontana.
Come Vera, quindi, anche tu hai un fratello…
Rientra tra le tante similitudini che ho riscontrato tra la mia vita e quella del personaggio. Nonostante rispetto al racconto della serie mio fratello sia piccolo, ci lega un rapporto molto simile a quello tra Vera e Giorgio, fatto di amore e di odio al tempo stesso, come accade in tutte le relazioni tra fratelli: “ti odio per quanto ti amo e ti amo per quanto ti odio”, mi verrebbe da dirgli.
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Adorazione riflette molto su come la generazione degli adulti non sia sempre pronta ad assumersi sulle spalle la genitorialità. La famiglia di Vera è alquanto disfunzionale: com’è stato calarsi nei panni di una quindicenne che non può fare appello su nessuno al di fuori di se stessa?
Con le dovute differenze del caso, tutti noi a quindici anni affrontiamo problemi di cui non possiamo parlare con i genitori e per cui siamo chiamati a cavarcela da soli. È forse questo che a quindici anni porta a farti avvertire un forte senso di solitudine anche se intorno hai dei punti di riferimento, come possono essere le amicizie. Quindi, nonostante la mia famiglia, anch’io a quindici anni mi sono sentita molto sola e ho cercato di riportare quella sensazione anche in Vera.
L’amica nel caso di Vera si chiama Diana…
Anche il loro è un rapporto di odio e di amore. Si riflettono le stesse dinamiche che intercorrono tra Vera e Giorgio ma con una sostanziale differenza: Giorgio è un uomo e Vera ha palesemente un idiosincrasia nei confronti di tutti gli uomini che orbitano nella sua vita… vorrebbe essere non vista da loro e non è disposta a implorare il loro amore, come forse dovrebbe fare oggi ogni ragazza per non cadere nelle reti di una relazione tossica.
Beatrice riesce a riconoscere le red flag di una relazione tossica?
Sì, perché ne ho vissuta una in prima persona. Oggi forse saprei riconoscere ciò che c’è di sbagliato in un legame ma non sono in grado di stilare un elenco perché comunque ogni relazione è unica e talmente a sé da non poter generalizzare. Ciò che so di certo è che è sempre rischioso quando uno sconosciuto si avvicina alla nostra vita e proprio per questo in alcuni casi potrebbe ritornare utile affidarsi agli occhi di chi ci guarda dall’esterno: nel mio caso, ci sono state persone intorno a me che hanno notato aspetti che io stessa non riuscivo a cogliere. Meglio dunque fidarsi di chi siamo sicuri che ci vuole bene: un genitore, un fratello, un amico…
La red flag che più dovrebbe allarmarci è forse il nodo allo stomaco. Quando lo si prova, c’è sempre qualcosa di sbagliato: non illudiamoci che siano sempre farfalle perché a volte possono anche essere scarafaggi.
Come si reagisce dopo aver preso consapevolezza di una relazione tossica?
Tutte le cose più belle della mia vita sono arrivate dopo aver posto fine a quel legame sbagliato. E non è una casualità: ero talmente concentrata a sopravvivere e ad amare l’altro che non amavo me stessa. Credo nell’energia positiva dell’universo: tutto quello che ho sofferto mi è poi tornato in una forma buona. Per cui il primo passo per reagire è il tornare o l’imparare ad amare se stessi, riacquistando quella volontà e autodeterminazione che poi si traducono in ricerca di indipendenza.
Quando l’adolescente Beatrice ha capito che stava diventando una giovane donna?
Ho realizzato di essere abbastanza matura solo quando ho deciso che volevo fare l’attrice perché era un qualcosa che in realtà andava estremamente contro quelle che erano le aspettative e i desideri di mia madre, la persona a cui ero e sono più legata in assoluto. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di renderla felice fino a quando non ho compreso che dovevo rendere felice me stessa, divenendo la protagonista della mia vita e scegliendo esclusivamente per me. È in quel frangente che mi sono autodeterminata e, tornando indietro, lo rifarei…
Cosa ti faceva dire che volevi diventare un’attrice?
Penso che attori si nasca. Non c’è stato mai il momento epifania in cui mi sono detta che potevo farlo, lo ero da sempre: c’è stato semmai il momento in cui si sono detta che quella cosa che sentivo poteva essere anche un lavoro. Sin da piccola ho sempre saputo che erano due le cose che mi piacevano fare: recitare e scrivere. E oggi recito e scrivo, ritenendomi la persona più fortunata del mondo.
Cosa si sarebbe invece aspettata tua madre?
Ho studiato Economia all’università e la strada già segnata sembrava essere quella: mia madre avrebbe voluto che facessi qualcosa inerente a quel percorso che sicuramente, stando a quelle sue preoccupazioni che capisco, mi avrebbe garantito più stabilità e solidità.
Il giudizio degli altri ha mai influito sulle tue scelte o ti è mai pesato?
L’unico giudizio di cui mi importava era quello di mamma. Per il resto, ho vissuto tutta una vita al cospetto di un giudice severissimo pronto a esaminare ogni mia azione, scelta, performance o relazione… e, purtroppo, quel giudice ero io stessa. Per fortuna, ho imparato anche a essere più auto indulgente, provando anche a perdonarmi per gli eventuali errori commessi.
Qual è oggi la tua prima reazione di fronte a un errore commesso?
Oggi rido perché so che si può sempre rimediare.
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Adorazione: Le foto della serie tv
1 / 38Il tuo primo ruolo di attrice è arrivato grazie al film The App di Elisa Fuksas. Cosa hai provato quando per la prima volta ti hanno detto “sì” come attrice?
È stato veramente molto emozionante. Mi ricordo ancora la sensazione generata dalla tachicardia per l’incredulità quando, uscendo dal camerino per recarmi sul set, ho visto quella macchina enorme che si chiama Cinema in azione, fatta di tantissime persone intente ognuna a fare il proprio lavoro. Mi son detta: “Wow, allora avevo ragione! Sono nata per questo ed è questo che voglio fare”.
Mai avuto paura di ciò che comportava fare “quello”?
Tantissime volte ma sono ottimista, nonostante la consapevolezza di come rimanga un lavoro rischioso dal punto di vista delle certezze economiche o della stabilità relazionale. Di certo, ho avuto paura di non reggere psicologicamente la pressione ma la volontà di farlo sovrasta tutto.
Da romana, hai mai avuto la percezione di sentire quello vuoto che attanaglia i ragazzi di Sabaudia in Adorazione?
Sono nata e cresciuta a Portuense, un quartiere “di mezzo”, che divide due mondi tra loro opposti. Ed è stato meraviglioso perché mi ha permesso di osservare e conoscere tante realtà e tanti sguardi diversi sulla vita. Mai avvertita ad esempio la noia: mi sono divertita tantissimo e ho vissuto un’adolescenza molto attiva e piena di stimoli.
E, tanto per continuare a rimanere in tema Adorazione, che rapporto hai avuto con il tuo corpo?
È una domanda che tutte le volte mi fa sorridere perché penso alle risposte di un uomo, le cui preoccupazioni potrebbero essere l’avere le spalle più grosse o i bicipiti più in evidenza. Per noi donne, invece, ha ben altre implicazioni: per come è strutturata la società in cui viviamo, il nostro corpo ci descrive, arriva prima di tutto il resto e, come qualunque altra donna, anch’io ho affrontato un lungo percorso prima di arrivare a scoprirmi, a piacermi e ad amarmi. Da bambina, ero persino convinta di essere molto brutta: tornavo a casa piangendo se qualcuno mi prendeva in giro per qualche motivo legato al mio aspetto…
È stato attraverso le prime relazioni amorose che ho imparato a guardarmi diversamente. Adesso mi vedo invece solo con i miei occhi, mi piaccio e va bene così. Non me ne importa molto se non piaccio agli altri ma non è stato semplice accettarsi crescendo in un contesto in cui l’immagine è tutto e i social ti bombardano di canoni di bellezza che rasentano l’idea di perfezione.
In qualche modo, mi ha aiutato anche il cominciare intorno ai 16 o 17 anni a posare per qualche fotografo scoprendo quando mi piacesse rivedermi ogni volta con lo sguardo di qualcuno di nuovo e di diverso: ognuno di loro si soffermava su dettagli, difetti o particolari che io stessa non conoscevo… mi ha permesso di ricostruire un quadro più dettagliato su chi sono e di scoprirmi maggiormente.
Per la serie Netflix, ti sei confrontata con attori coetanei o con altre dalla più navigata esperienza. Ansia? Sindrome dell’impostore?
Ovvio, è quasi scontato sottolinearlo. Ricordo ancora il primo giorno in cui avrei dovuto recitare con Ilenia Pastorelli che interpreta mia madre: non la conoscevo ancora ma ero una sua fan accanita sin dai tempi di Lo chiamavano Jeeg Robot, quasi la temevo ma al nostro primo incontro è sbocciato l’amore per il modo affabile con cui si è posta in relazione con me. Ho imparato sicuramente tantissimo da tutti perché comunque ho avuto la fortuna di far parte di un set in cui sono nati grandi rapporti di amicizia che continuano ancora oggi. Da un punto di vista umano, sono nate delle belle connessioni: a Sabaudia, noi ragazzi vivevamo in delle stanze con dei terrazzini comunicanti e ciò ha favorito un mood da campus scolastico.
Prossimamente, ti vedremo in Diva futura, il film di Giulia Steigerwalt presentato in concorso al Festival di Venezia in cui interpreti Marcellina, un ruolo ispirato a un personaggio realmente esistito. Hai potuto notare differenze tra l’essere diretta da lei e l’esserlo da un uomo come Stefano Mordini?
Le uniche differenze notate possono essere legate all’approccio e al metodo di regia, diversissimi, e non al loro genere di appartenenza. Giulia, ad esempio, è solita renderti partecipe anche del suo lavoro, chiamandoti spesso al monitor per mostrarti delle scene, qualcosa che invece per Stefano non era minimamente plausibile. Ma mi sono trovata bene con entrambi, in grado di costruire sul set un clima sereno e tranquillo con approcci funzionali ai progetti, ognuno a modo loro. Non è un caso che nutra grande stima per entrambi.
Diva futura… come ti immagini tra dieci anni?
Curioso come la prima immagine che mi sia venuta in mente non sia legata al lavoro: mi sono vista mamma con due bambini che scorrazzano in giardino. Sin da quand’ero più piccola, ho sempre avuto un forte istinto materno forse perché, essendo stata tanto amata, ho voglia di restituire un po’ di quell’amore che ho ricevuto io. Mi piacerebbe anche, qualora ne avessi la possibilità economica, adottare anche dei bambini…
Hai citato più volte tua madre nel tuo racconto… e tuo padre?
È la persona più meravigliosa del mondo: è estremamente orgoglioso del lavoro che ho scelto e con lui il processo di accettazione è stato di gran lunga più facile.
È la classica storia per cui le figlie sono più coccolate da papà e i figli da mamma?
Per niente: mio padre non è un coccolone, anzi… Non è mai stato tipo da abbracci o carezze: mi sono anche mancati fino a quando non ho scoperto che non dovevano necessariamente partire da lui perché potevo fare anch’io il primo passo. La sua non era anaffettività ma solo una grande forma di pudore e timidezza.
Ti vedremo come attrice anche nel prossimo film di Ivano De Matteo, Una figlia, in cui interpreti Sharon, una ragazza che vive in una casa circondariale per minori. E la scrittura? Non in tanti lo sanno ma sei stata anche cosceneggiatrice di un film straordinario che si chiama Una sterminata domenica…
Avevo anche scritto una serie in passato che si chiama The Chill House con Fabrizio Benvenuto e Alain Parroni: avevamo vinto anche il Premio Solinas Experimenta Serie ma purtroppo il progetto non si è più realizzato per via di fattori che non dipendevano dalla nostra volontà.
Visto che sembri conoscere così bene il mondo dei giovani a cui appartieni, secondo te da cosa nasce il disagio e la perenne insoddisfazione che vivete?
Dall’infinità di possibilità a cui siamo violentemente sottoposti. La causa è da ricercare è in quello che nel marketing chiamano “paradosso della scelta”: di fronte a due bancarelle differenti, una con cento opzioni di acquisto e una con due solamente, ci dirigeremmo nella seconda proprio perché la mente umana non è progettata per razionalizzare su così tanta offerta. Ed è quello che accade giornalmente nelle nostre vite: siamo sottoposti costantemente a una marea di stimoli che ci tartassano l’esistenza.
Ci hanno detto che potevamo essere qualsiasi cosa ma non ci hanno dato gli strumenti per filtrare tutti quegli input che riceviamo, ragione per cui non sappiamo più chi siamo, muovendoci semplicemente in superficie e senza l’esigenza di andare a fondo per comprendere meglio lo stato delle cose. Una condizione che Adorazione racconta bene con un finale che rappresenta l’ultimo baluardo di speranza per un mondo che si spera possa essere anche sincero.