Beatrice Schiaffino è la protagonista femminile di Do ut des, film in uscita il 4 maggio che abbiamo imparato a conoscere grazie alle nostre interviste agli attori Gianni Rosato e Luca Avallone. Nel film, Beatrice Schiaffino interpreta Emmanuelle, una scrittrice che sta portando avanti un esperimento sulla sessualità. Almeno questo è quello che crede Leonardo, un imprenditore di successo che ha fatto del suo potere e della manipolazione gli strumenti con cui si relaziona alle donne, usate semplicemente per accontentare i suoi desideri. L’intento di Emmanuelle è ben altro, tanto che da carnefice Leonardo si trasformerà in vittima, ragione per cui Do ut des viene raccontato come un revenge movie al femminile.
Nata a Genova nel 1990, Beatrice Schiaffino sa cosa voglia dire la manipolazione, avendola vissuta sulla propria pelle. Ce lo racconta in quest’intervista esclusiva, in cui ricorda come in passato abbia permesso a qualcuno di abusare psicologicamente di lei e come lo abbia capito con gli anni, metabolizzando il dolore e l’esperienza con la terapia. Proprio per questo, il suo consiglio è il più sincero che possa esserci: quando vivete determinate situazioni, non vergognatevi di parlarne e di cercare aiuto. Quello è il primo passo verso la risoluzione.
Con alle spalle uno sterminato curriculum di ruoli teatrali e cinematografici, Beatrice Schiaffino attrice lo è stata sin da bambina, scoprendo presto il potere dell’immaginazione, del gioco e del racconto, ancor prima di iniziare un percorso accademico fatto di studi e sacrifici. E sullo studio non ha nessun dubbio, motivo per cui potreste imbattervi in un testo di cui è co-autrice, Divismo 3.0, se frequentate l’Università.
Intervista esclusiva a Beatrice Schiaffino
La nostra intervista a Beatrice Schiaffino parte da una circostanza che solo gli addetti ai lavori conoscono ma che permette di aprire la nostra discussione sulla manipolazione e sul consenso. Il primo lancio stampa del film Do ut des è stato per errore (involontario) accompagnato dalla diffusione di una foto di scena in cui lei appariva con il seno nudo. L’immagine è stata “richiamata” qualche minuto dopo ma aiuta a far riflettere come la diffusione di certe fotografie rappresenti una forma di violenza quando queste vengono decontestualizzate e proposte in maniera diversa rispetto alle intenzioni e agli scopi originari.
Dà fastidio la diffusione di una foto non autorizzata?
Mi sono arrabbiata molto, è qualcosa che mi ha toccata. Erano le 09.30 del mattino quando mi sono arrivati i primi link che segnalavano l’uscita di Do ut des nelle sale. Ne avevo aperti due che, più o meno, riportavano lo stesso comunicato stampa ma la sorpresa è arrivata al terzo: tra le varie foto pubblicate, c’era anche la mia a seno nudo. L’ho trovato sconcertante: non avevo mai approvato quell’immagine: è partito immediatamente il giro di telefonate con produttore e ufficio stampa per cercare di rimuoverla.
Non si tratta di una questione di pudore ma di consenso. Nel film, ci sono ovviamente scene di nudo ma sono contestualizzate: il ruolo prevedeva determinate sequenze, ho un buon rapporto con il mio corpo e non mi sono creata grossi problemi nel girarle. Sono un’attrice e, in qualche modo, sono allenata a mettere in scena i diversi momenti della vita di una persona e a mettermi al servizio delle necessità del ruolo: a volte è più difficile e faticoso stare ore e ore in certi sentimenti, anche di rabbia e di rancore, che girare nuda.
La diffusione della foto mi ha dato fastidio perché è stato un frangente in cui non mi sono sentita rispettata. Non avevo autorizzato o consentito l’uso di quell’immagine, che è artisticamente interessante all’interno del film ma non fuori da quel contesto: diventa una questione di scelta e di non scelta, di consenso e di non consenso. Il punto della questione, ripeto, non era il nudo: sul set non mi ha dato alcun fastidio, a differenza di altre situazioni in cui, seppur vestita, mi sono sentita malissimo per gli sguardi che ho ricevuto.
In che senso?
Purtroppo, penso di poter parlare a nome della maggior parte delle donne. Viviamo in un contesto in cui il catcalling, il commento o la diceria, sono estremamente diffusi. Siamo immersi in una realtà in cui una donna è costantemente attenzionata. E, se fa un lavoro come il mio, ancora di più. Non ho avuto disavventure grosse o epocali ma ho vissuto comunque situazioni sui set che sono state molto fastidiose. Per fortuna, ci sono anche tante persone che lavorano invece con professionalità, come è accaduto sul set di Do ut des: nonostante noi attori lavorassimo anche con il corpo, ci sentivamo tranquilli perché avvertivamo fiducia, pulizia e professionalità.
Do ut des, in qualche modo, parla anche di consenso. Di consenso mancato perché la manipolazione prevede di per sé una mancanza di consenso da parte di chi è manipolato.
O, meglio, la manipolazione è un consenso a un contesto sbagliato, a quello che di fa credere un manipolatore. Il film si basa un po’ sul concetto di cosa è giusto o sbagliato a seconda della prospettiva che assumi. Emmanuelle, il mio personaggio, è una scrittrice molto intelligente e caparbia ma anche molto ferita che ha messo a punto un piano molto stratificato e ben definito che poco sfugge alle sue previsioni: tutto ciò che ha immaginato, accade nella realtà. Ma ogni suo passo si porta dietro una certa pesantezza: in fondo spera che arrivi la redenzione di Leonardo, che rappresenterebbe la soluzione al dolore che avverte e sente.
Emmanuelle sta cercando vendetta per la sorella Francesca: in Francesca vediamo alcuni dei risvolti che può avere un mancato consenso perché è vittima della manipolazione mentre in Emmanuelle vediamo altri dei risvolti che la violenza comporta. Una violenza subita spesso porta a una violenza esercitata, frutto di un dolore immenso e di tantissima rabbia: Emmanuelle agisce di pancia, se vogliamo, contro una tipologia di uomo abituato a prendere quello che vuole senza curarsi troppo di chi c’è dall’altra parte. Leonardo ha un modo di agire che è basico e primitivo… e basico e primitivo è anche lo stupro: non c’è molta differenza.
A cosa hai fatto appello per entrare nei panni di Emmanuelle, una donna molto differente da te?
Emmanuelle ha rappresentato una bella sfida, oltre che una bella occasione per me. Come personaggio, è molto distante da me e, come tale, per interpretarlo ho dovuto sezionarlo e scandagliarlo. È una donna molto sfaccettata. Ha un lato seducente, attraente, intelligente, scaltro ma anche dolce: ha una relazione con un’altra donna di cui è innamorata e verso cui nutre un sentimento che ho sempre colto come puro. Ma, allo stesso tempo, è una persona estremamente ferita, forte e in qualche modo vorace: ha tanta di quella rabbia che vorrebbe mangiarsi vivo Leonardo, pezzetto per pezzetto. Per entrare in quello stato d’animo, ho dovuto guardare dentro di me e fare appello a piccole parti che a volte tendiamo a mettere da parte: l’arte, invece, ci dà la possibilità di recuperarle, viverle ed elaborarle.
Purtroppo, anch’io nella mia storia personale ho subito delle violenze e ho vissuto situazioni come i lutti (la perdita di mio padre) che non avrei voluto vivere. Non ho avuto la stessa reazione di Emmanuelle, non mi sono trasformata da vittima in carnefice ma ho reagito in maniera forse più sana, affrontando un percorso terapeutico. La parte interessante del lavoro di attrice, anche se faticosa, è data dal poter vivere emozioni e situazioni che nella vita non vivresti mai: in questo caso, mi sono confrontata con la vedetta feroce che Emmanuelle attua con tutte le sue motivazioni. È stato abbastanza faticoso portare addosso la sua frustrazione, la sua rabbia e i suoi sentimenti, ma ho anche provato un certo piacere nel vedere come si ribalta la dinamica “vittima carnefice” con tutti i suoi pro e contro.
Quindi, per certi versi, per te interpretare Emmanuelle è stato catartico?
Sì, sicuramente. Nelle relazioni private, ho subito delle cose che solo dopo, negli anni, ho realizzato fossero abusi psicologici, in grado di minare la mia sicurezza e la mia consapevolezza. Sono stati anni di lavoro molto faticosi: l’arte nelle sue varie declinazioni mi ha aiutato tanto e continuerà a farlo.
Quando in scena capita qualcosa che risveglia un dolore che posso aver vissuto in prima persona, mi interrogo molto e cerco di lavorare con consapevolezza per trarne il miglior risultato possibile. Mi aiuta a darmi delle risposte o una lettura a ciò che mi è accaduto facendomi capire le cose in maniera diversa da prima: oggi un uomo che mi tratta come quello con cui stavo a diciotto anni non lo incontrerei nemmeno.
È solo lavorando sui dolori che ho vissuto che ho acquisito sia maturità sia morbidezza. Elaborandoli, mi sono accorta che ero cresciuta troppo in fretta e, quindi, mi sono riappropriata di una certa leggerezza.
Quanti anni avevi quando hai perso tuo padre?
Avevo diciotto anni. Ero in quella fase della vita in cui stavo uscendo dall’adolescenza per diventare adulta, un’età in cui comincia a vedere tuo padre e tua madre non solo come genitori ma anche come persone con un nome, un vissuto e delle vite che leggi in maniera diversa. Mia madre, ad esempio, ha oggi per me ruoli tra loro differenti: non è solo mamma… e mi dispiace non aver potuto vedere mio padre da un’angolazione diversa. Era un uomo divertentissimo ma anche molto profondo: sono sicura che hai avrei vissuto diversamente il nostro rapporto ma è andata così.
Quando invece ti sei resa conto di essere stata vittima di abusi psicologici?
Molto dopo rispetto a quando li ho vissuti, quando ho cominciato a chiedermi perché mi fossero accadute determinate cose. E ho trovato le risposte grazie a un terapeuta: un percorso psicologico è la cosa più bella che ci si possa regalare perché cambia radicalmente il modo di avere a che fare con se stessi e con gli altri. Ti aiuta a rivedere certi vissuti e a capire ciò che per difesa tendiamo a mettere da parte per non farci male.
La prima volta che ho usato la parola “abuso” per quello che avevo vissuto, ho pianto tanto: non ne ero prima consapevole fino in fondo ma il terapeuta ha avuto gli strumenti giusti per farmelo capire. Ecco perché è importante rivolgersi a uno specialista e non fermarsi a parlare solo con un amico o un’amica di quello che accade: il terapeuta condivide con te strumenti che altri non possono avere. Sarà per questo che poi ho voluto studiare anche come counselor, un’esperienza fortissima che oltre a farti capire come aiutare l’altro guida anche te a vedere dentro te stesso, soprattutto nelle sedute di terapia di gruppo.
Se ne parliamo, non è per pornografia del dolore ma per poter essere d’aiuto anche a qualcun altro.
È vero. Tendiamo a nasconderci quando capitano certe situazioni, ce ne vergogniamo anche ed evitiamo persino di accennarle. Ma parlarne è invece già metà del lavoro: riuscire a tirare fuori delle parole è già parte del lavoro dell’elaborazione.
Quasi tutti noi abbiamo storie più o meno di dolore, di confini non rispettati, di diritti da riconquistare e ferite da sanare: parliamone, non sentiamoci sbagliati e non nascondiamoci in un angolo. Sentiamoci parte del gruppo, saremo in tanti. Che è un po’ anche la forza di un movimento come il #MeToo, in cui la differenza è fatta proprio da quel “too”, inclusivo e non esclusivo. Smettiamola di pensare che siamo noi quelli sbagliati, mettiamo a fuoco quanto accaduto, non colpevolizziamoci e capiamo perché abbiamo lasciato che certi comportamenti prendessero piede per evitare che riaccada. Rimanendo nel nostro cantuccio, non faremmo altro che far aumentare rabbia e dolore.
È più facile di quanto si pensi: diciamolo ad alta voce. Solo così riconosciamo quanto è accaduto e possiamo andare avanti.
Beatrice Schiaffino in Do ut des
1 / 4Tu nasci e cresci in una zona d’Italia che è fantastica, diciamocelo. Ma che non è certo la mecca del cinema o del teatro. Cosa ti ha spinta verso la recitazione.
Mio padre era di Portofino, mia madre di Santa Margherita Ligure e sono cresciuta a Rapallo. In pratica, ho trascorso l’infanzia in vacanza. Vedevo il mare non solo d’estate ma anche d’inverno: a scuola avevo un banco con vista mare!
La passione per la recitazione è nata in me fin da bambina ma in maniera molto spontanea. Ho sempre avuto molta libertà di giocare, esplorare e di pastrocchiare in casa: potevo dipingere qualsiasi cosa, muri compresi. Creavo situazioni, scenografie e storie, che interpretavo: giocavo così per ore e ore. Oppure ascoltavo molta musica, spesso opere classiche, e immaginavo i mondi che c’erano dentro.
Crescendo, ho poi scoperto il teatro e ho cominciato a conoscerne le regole, fino a quando non ho poi cominciato a frequentare i primi laboratori e le prime scuole: il G.A.G. (Gruppo Artisti Genovesi) o la London Drama School. Ricordo molti spettacoli visti al Teatro della Tosse (in particolare, un Sogno d’una notte di mezza estate con delle scenografie mozzafiato) o al Teatro Carlo Felice.
Ma in casa mia si vedeva anche molto cinema. Mia madre ne era appassionata: con un gruppo di amici, organizzava una sera settimanale di cinema e critica in casa. Già da bambina, venivo chiamata a vedere i film di Tarkovskji o a valutarne una sequenza!
Quando si è poi trattato di scegliere il mio percorso di formazione, mi sono iscritta all’Università di Pisa, Discipline dello Spettacolo e della Comunicazione. Ma nel frattempo sono arrivati anche i primi lavori: studiavo e lavoravo contemporaneamente.
E ti saresti mai aspettata allora di ricevere un premio come quello di miglior attrice protagonista a un festival come quello di Dubai proprio per Do ut des?
È stato un bellissimo riconoscimento. Ne sono molto orgogliosa ed è stato per me una sorpresa. Chi mi conosce, sa che sono una persona poco competitiva: l’unica competizione che sento è quello con me stessa. Sono molto severa nei miei confronti, sono una perfezionista che richiede a se stessa standard molto alti, aspetto su cui sto lavorando un po’ negli ultimi tempi per ammorbidirmi. Al premio e alla competizione con gli altri non pensavo proprio ma mi fa piacere averlo ricevuto da un festival che si svolge in un Paese che deve ancora lavorare molto sulla condizione femminile. Segno anche che Do ut des è un film meno morboso e più interessante di come lo descriva certa comunicazione.
A proposito di stereotipi, ti piace combatterli. Tra i tuoi sport, ci sono anche attività come la boxe, il paracadutismo e il rafting.
Sono sempre stata molto curiosa e sono spinta per natura a misurarmi sempre con cose nuove. Devo capire come funzionano e come risponde il corpo a seconda dei casi. Forse per questo mi piace anche molto il mio lavoro: mi pone spesso in condizioni per me inediti. Ho girato ad esempio anni fa un film che si chiamava Blue Water: era il mio primo ruolo da protagonista e interpretavo una nuotatrice quasi sempre in acqua. Mi avevano chiesto se volessi una controfigura: ovviamente, no! Avrò preso da mio padre la mia parte avventurosa: era uno skipper che ha fatto il giro del mondo in barca a vela e preso parte a tantissime gare internazionali. Era proprio coraggioso e spavaldo!
Ti rivedremo presto in un altro thriller, Phobia.
Il thriller è il mio genere preferito: mi diverte tantissimo (così come mi diverte la commedia). In Phobia, interpreto Michela, la coprotagonista. Con la protagonista Chiara, interpretata da Jenny de Nucci, siamo due amiche a cui accadono delle cose che non svelo… è stata una bella esperienza, anche perché il regista Antonio Abate, un giovane alla sua opera prima, si è rivelato molto in gamba.