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Beba, le cicatrici del primo amore – Intervista esclusiva

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Quello che odio di te è il nuovo singolo di Beba, una delle voci femminili più interessanti, importanti e inclusive della scena urban in Italia. L’abbiamo incontrata per un’intervista in esclusiva che fa il punto sul suo percorso e scopre una giovane donna da sempre contro le etichette e i pregiudizi.

Beba è tornata. Una delle artiste più interessanti della scena urban in Italia, ha pubblicato il nuovo singolo Quello che odio di te (Epic/Sony Music Italy), un brano in cui Beba racconta il primo vero amore, l’esperienza e l’emozione di tutto ciò che viene fatto per la prima volta, comprese le prime delusioni, e come questo definisca l’approccio al sentimento negli anni che seguono. Nonostante sia passato il tempo e abbia vissuti altri amori, il primo rimane sempre indelebile, fra rancore e malinconia.

Ibrido fra il rap e l’urban che attinge anche al pop, Quello che odio di te è l’ennesima conferma della versatilità di Beba e della sua voglia di sperimentare, restando però sempre fedele a sé stessa e ai suoi esordi. Un percorso in continua crescita ed evoluzione, in grado di adattarsi a un mix di generi diversi, che rendono l’artista torinese originale, unica e in grado di riempire un vuoto nel panorama musicale femminile attuale.

Abbiamo incontrato Beba per un’intervista esclusiva a tutto tondo, che partendo dal brano arriva a molto altro.

Beba.
Beba.

Intervista esclusiva a Beba

“Beba o Roberta per me è indifferente: ho scelto come nome d’arte quello con cui mi chiama mia mamma sin da quando sono piccola”, mi risponde Beba quando le chiede come preferisce essere chiamata nel corso di questa nostra intervista esclusiva. È una delle domande che porgo solitamente quando ho davanti chi come lei ha scelto di presentarsi al pubblico con un appellativo diverso da quello affibbiato alla nascita (le altre domande vertono sempre sull’uso del “tu” e sul pronome in cui l’intervistatə si riconosce).

Quello che odio di te è il tuo nuovo singolo, in cui racconti gli effetti, le ferite e le cicatrici che lascia per sempre addosso il primo amore.

Mi sono calata nei miei ricordi per scriverlo ma mi sono concessa anche qualche licenza poetica nel ripercorrere quello che ho personalmente vissuto. Scrivere una canzone è un po’ come scrivere la trama di un film: c’è molto vissuto dietro ma qualcos’altro viene aggiunto. Sono dunque andata a ritroso, indietro nel tempo, per ritrovare le sensazioni e le emozioni che risalgono alle primissime ferite in amore, le stesse che consciamente o inconsciamente ti porti dietro per tutte la vita.

Quanti anni avevi quando ti sei per la prima volta innamorata?

Non so stabilirlo esattamente: a volte provi sentimenti che ti sembrano amore ma che non lo sono. Forse la prima volta che sono stata davvero innamorata avevo diciassettenne anni ma non è facile dire se si trattasse di amore oppure no. Quello di amore è un concetto poco etichettabile che assume significati diversi in base alle fasi della vita: ci possono essere amori più o meno lunghi, più o meno importanti, più o meno consapevoli o più o meno strutturati… Sono comunque una persona che ama molto: sono felice di aver molto amato, non sempre le persone giuste ma sempre con il cuore.

Il fatto che non siano sempre state le persone giuste lo abbiamo scoperto sentendo la tua produzione e, in particolar modo, Narciso, un tuo precedente singolo in cui raccontavi di un amore tossico. Eri già andata via da casa dei tuoi quando hai vissuto il primo amore?

Non ancora. Sono uscita di casa la prima volta a diciannove anni quando ho deciso di andare a vivere a Milano per motivi di studio. Solo dopo ho cominciato a coltivare la musica in maniera professionale e ho vissuto la storia raccontata in Narciso. Dopo quella convivenza, ho cambiato nuovamente casa… ma è da quando avevo 19 anni che sono indipendente.

Nel testo di Quello che odio di te canti anche di come il rancore ceda il passo alla malinconia. Qual è lo switch, secondo te, da mettere in atto per riuscirci?

Non sono così certa che il rancore possa trasformarsi del tutto in malinconia perché, comunque, la malinconia prevede che ci sia ancora un attaccamento a quelle sensazioni negative vissute. Lo switch più importante da fare per qualunque cosa della vita e, in particolare, in seguito a dei traumi legati a relazioni sofferte sia quello relativo alla gratitudine: tutto ciò che succede, accade per un motivo, anche quello che ci sembra molto brutto. Se si riesce ad andare oltre al devastante momento che si vive, ci si rende conto come tutto quanto sia servito a fortificarci. Basta dunque prendere l’esperienza negativa come un insegnamento: ci ha dato gli strumenti per vivere meglio tutto ciò che verrà dopo.

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Di recente hai raccontato del problema che ha interessato le tue corde vocali. Si può essere grati anche a un’esperienza come quella?

L’esperienza che ho vissuto qualche mese fa è stata nel suo piccolo traumatica: non ho potuto parlare per due settimane e cantare per mesi. È stata sicuramente molto intensa ma mi ha permesso di rendermi conto molto banalmente del fatto che, anche se non puoi parlare, chi ti vuole capire in qualche modo ci riesce.

Per abitudine, non riesco a stare chiusa in casa a piangermi addosso e, anche se non parlavo, uscivo comunque di casa. Andavo in giro con uno sfondo sullo smartphone con scritto “Non posso parlare, mi hanno operato alle corde vocali: prova con i gesti”. Mi sono quindi ritrovata ad avere interazioni molto particolari con le persone, con cui anche in assenza della parola riuscivo a farmi comprendere da chi voleva realmente farlo. È stata come una selezione naturale delle interazioni di qualità, una sorta di piccolo esperimento sociale per valutare il grado di inclusività degli altri. Ma anche per capire chi è effettivamente sulla tua stessa lunghezza d’onda e valutare chi ti comprende senza che tu dica niente o che ricorra al linguaggio dei segni, che in quel periodo avrei veramente voluto imparare.

Anche se con il verbo imparare non sei sempre andata d’accordo…

Io e la scuola abbiamo avuto un rapporto abbastanza complicato.

Hai citato la parola “inclusività”. Sei una delle poche artiste della scena urban che ha sempre mantenuto un linguaggio inclusivo. Non sei mai ricorsa a frasi discriminatorie o offensive nei confronti dei gruppi sottorappresentati. Ironicamente, non sarebbe stato più facile per te farlo?

Una mia amica mi diceva sempre che avrei dovuto fare scandalo perché solo così si arriva in alto in Italia. Da persona molto intelligente, sono anche molto poco giudicante. Sarà perché nella vita sono cambiata anche tanto, ho sbagliato tanto e sono stata giudicata: di conseguenza, non riesco a giudicare niente o nessuno. Appartengo alla categoria di quelli per cui la propria libertà finisce nel momento che comincia la libertà degli altri… Sono contenta che arrivi questa percezione della mia musica ma non ci ho mai riflettuto più di tanto: l’essere inclusiva fa da sempre parte del mio carattere e non è una caratteristica studiata a tavolino che necessita di soffermarcisi sopra.

Per cosa sei stata giudicata?

Oggi mi ritengo una persona abbastanza completa ma negli anni ho dovuto sbagliare tanto per imparare e per crescere. Tuttavia, non tutti riescono a non fermarsi alla prima impressione, idea o opinione che si fanno sul mio conto solo guardandomi. Non sempre è facile ma ha un suo risvolto positivo: chi ti sta vicino sa veramente chi sei e ti conosce veramente.

Ha influito sul giudizio l’essere donna?

Sicuramente sì. Sono stata giudicata spesso come una donna dagli atteggiamenti e dalle caratteristiche maschili: la società in cui viviamo ritiene ancora che esistano tratti che siano appannaggio solo degli uomini, come l’indipendenza, la sicurezza o il senso pratico. Sono figlia di questa società, ragione per cui sono stata mal interpretata e per cui a volte mi viene da dire che la vita per un uomo sia molto più semplice. Ma io amo essere donna e non vorrei mai essere uomo… Tutti coloro che sono più vulnerabili di me o che non si sentono all’altezza mi ritengono una minaccia ed essenzialmente mi fanno la guerra.

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In un verso di Quello che odio di te canti che hai imparato a usare il sesso per non essere usata.

È un argomento alquanto delicato ma a tutti è capitato di sentirsi usate. Dietro ci sarebbe un discorso incredibilmente lungo sulla sessualità ma, quando ti rendi conto che un uomo ciò che vuole da te è solo il sesso, finisci per usare il sesso per avere l’uomo: è una dinamica molto tossica che andrebbe estirpata alla base ma che quando siamo giovani si tende ad assecondare perché la riteniamo la normalità.

Hai 506 mila followers sui social, un numero che comporta una certa responsabilità.

Sento molta responsabilità in merito ai messaggi che posso mandare ma non in proporzione ai numeri: i numeri sui social e non solo sono l’illusione più grande del nuovo millennio. So di avere tra chi mi segue tantissime persone, per lo più giovani donne, che si immedesimano in quello che scrivo e che mi ritengono un loro punto di riferimento: non posso non tenerne conto quando scrivo. Anche perché ricordo sempre ciò che mi ha spinto a fare musica: il desiderio di diventare quel punto di riferimento femminile che a me è mancato quando ascoltavo le canzoni degli altri. Ascoltavo di tutto ma arriva sempre quel momento in cui mi chiedevo dove fossi io in quelle canzoni: mi mancava la possibilità di rispecchiarmi.

Non ti riconoscevi nelle rime “sole, cuore e amore”?

Erano pochissime le donne che facevano rap. Andavano per la maggiore le cantanti pop che proponevano, tra l’altro, canzoni che erano per lo più scritte da uomini. Come dicevo, sono cresciuta ascoltando di tutto ma il genere che andava a toccare corde che sentivo più mie è sempre stato il rap, a cui però mancava quasi del tutto l’apporto femminile in quegli anni. Non mi rivedevo nella donna innamorata delle ballad: avrei voluto qualcuna che cantasse quanto fosse importante svegliarsi la mattina e considerarsi forte e potente, lontana dal modo in cui gli uomini la vedevano.

Beba.
Beba.

Hai un enorme e bellissimo tatuaggio sulla schiena. Cosa rappresenta?

Vorrei avere una storia incredibile da raccontare in merito ma non ce l’ho. E quindi dico la verità: sono una persona molto impulsiva e quel tatuaggio è stato disegnato poche ore prima che lo facessi solo per una ragione ornamentale. Ho altri tatuaggi che nascondono significati più profondi ma non quello.

Un tatuaggio è sempre un secondo abito sulla pelle. Non è che forse hai voluto coprire la parte più vulnerabile del tuo corpo, quella più soggetta ad attacchi da cui non ci si può difendere?

Interessante come ipotesi: spesso faccio delle cose senza renderci conto che è il nostro inconscio a scegliere per noi. Potrebbe quindi essere che in un momento determinato della mia vita io abbia sentito il bisogno di proteggermi la schiena e che lo abbia concretizzato con il tatuaggio. Non credo che nulla accada per caso: siamo figli dei riti tribali, un tatuaggio lo è, e ogni rito aveva un significato.

Non credi che tutte le cronache o le polemiche che ruotano intorno al rap, alla trap e all’urban, in Italia possano nuocere al genere stesso?

Fortunatamente, negli anni è un po’ cambiato il pregiudizio nei confronti del genere. Certo, ci sono artisti che portano avanti determinate filosofie di vita e altri come me che scelgono vie diverse. Ognuno porta i suoi messaggi, anche se non sono sempre fan del messaggio: da ascoltatrice, valuto se una canzone è bella al di là del contenuto che veicola e che posso anche non condividere.

“Non aspetto il principe che mi salva”: si legge in un tuo commento a una foto sui social. Quando hai realizzato che le favole non esistevano?

Quando ho capito che dovevo farcela da sola. Sono cresciuta con una figura paterna molto assente e credo che dipenda da ciò la mia impostazione mentale del mondo: una bambina che cresce senza un papà che la protegge, per quanto la mamma si impegni nel sopperire alle mancanze, porta sempre con sé l’idea di doversi salvare da sola.

Che rapporto hai con tua madre?

Io e mia madre siamo identiche. Chi ci conosce, dice che lei è me tra trent’anni. È sempre stata una madre super presente: è come se fosse la mia migliore amica e siamo sempre in costante contatto. È la persona che chiamo e con cui mi confronto quando ad esempio ho un problema, con cui parlo quando sono infelice: è lei il mio punto di riferimento.

“Con cui parlo quando sono infelice”: quanto è importante parlare dei propri stati di salute mentale?

Non sempre è facile farlo soprattutto quando si viene risucchiati dal turbine delle emozioni. Ma, in base alla mia esperienza, verbalizzare le emozioni è il modo migliore per far pulizia nella propria testa. Ecco perché è fondamentale costruire intorno a sé una rete di persone con cui aprirsi e in grado di aiutarti a mettere in ordine i pensieri dando il giusto peso alle cose. Anche perché quando si è dentro a determinate realtà, non sempre si ha la lucidità di analizzarle con chiarezza: parlarne aiuta a ridimensionare anche tutto ciò che si ritiene insormontabile. Sono una di quelle persone che tende sempre a chiedere un consiglio o aiuto se ne ho bisogno.

Non hai mai amato le etichette, così come non hai mai amato le regole. Qual è la prima che hai infranto da bambina?

Quando ero ragazzina, ho rubato in un negozio di cosmetici solo per il brivido di farlo. Ma è stato orrendo: mi hanno beccata e hanno chiamato mia madre perché ero minorenne. Avevo tredici anni e credo di aver pianto tutte le mie lacrime per la vergogna provata agli occhi di mia madre e di me stessa.

Quando hai capito invece la prima volta che ce l’avevi fatta con la musica?

Quando mi sono licenziata dal lavoro di cameriera che ho fatto per otto anni. Riuscivo a sopravvivere con quei pochi spiccioli che guadagnavo dalla musica e, se volevo andare in studio o in giro per le esibizioni live che nel frattempo arrivavano, non avrei avuto più tempo per servire i tavoli da sera. Quando sono andata via, è stato un momento molto commovente e bello: il titolare sapeva che la musica era il mio sogno…

Materialmente, non sarei riuscita a gestire lavoro, musica e studio. Ero arrivata a Milano per far musica ma avevo anche un piano B da portare avanti per cui mi ero iscritta all’Università e studiavo Economia e Comunicazione: se non fossi riuscita nel mio intento di far la cantante, avrei fatto la manager, lavorando sempre nella musica ma dietro le quinte. Per un periodo, ho lavorato, studiato, scritto e trascorso ore in studio ma poi ho capito che facevo tutto male, qualcosa andava lasciata.

Ho anche lasciato l’università e, quando è accaduto, mia madre è stata molto comprensiva. Di fronte alla mia determinazione, non ha avuto dubbi, fidandosi di me.

Ti è dispiaciuto aver lasciato Torino, la tua città?

Sono tornata a viverci di recente. Ho vissuto a Roma con un mio ex fidanzato ma, quando ci siamo lasciati, ho sentito l’esigenza di tornare a Torino anziché a Milano, che non mi ha mai fatto sentire a casa nonostante ci abbia vissuto per tanti anni. Avevo necessità di stare con i miei amici: non mi bastavano più i weekend, avevo bisogno di viverli in qualunque momento. Credo molto nel valore dell’amicizia e ho bisogno di stare dove stavano i miei amici.

Hai da poco cambiato management.

Far riferimento per lavoro a Jack La Furia è molto forte per me come esperienza: sono cresciuta con la sua musica, per cui nutro nei suoi confronti una stima e un rispetto immensi. Sono onorata dei consigli, delle indicazioni e delle direzioni che mi sta dando.

Il featuring impossibile che ti piacerebbe realizzare?

Con Rosalia, lo dico in tutte le interviste.

Beba.
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