Giugno è un mese particolare per Beniamino Marcone, talento poliedrico del panorama artistico italiano. Sono infatti tanti i progetti in cui lo vedremo impegnato: reduce dal successo del film tv Mascaria e di Per Elisa – Il caso Claps, lo vedremo al cinema con Gli immortali, su Rai 1 nella serie tv Alfredino – Una storia vera e su RaiPlay in due differenti film, I’m – Infinita come lo spazio e Gli anni belli.
Nato a Roma nel 1982, Beniamino Marcone ha conquistato il pubblico sin dagli esordi grazie a due successi come I Cesaroni e Il giovane Montalbano, dimostrando la sua duttilità interpretativa. Nel corso della nostra intervista in esclusiva, l’attore si apre sia sul suo percorso professionale sia su quello personale, segnato un evento che ha profondamente riscritto le sue priorità: la nascita del primo figlio.
Diventare padre ha profondamente cambiato la vita di Beniamino Marcone, rendendolo più consapevole e responsabile. Un'esperienza che gli ha permesso di comprendere appieno anche il dramma vissuto dai genitori di Alfredino Rampi, la cui storia viene raccontata nella serie tv di Rai 1 in onda l’11 e il 12 giugno. La paternità, inoltre, ha portato Beniamino Marcone a riflettere sul proprio rapporto con i genitori e sul valore della famiglia. Un legame che ha plasmato la sua personalità e che continua ad essere un punto di riferimento importante nella sua vita.
Ma non solo. Dopo anni di esperienze anche all'estero, Beniamino Marcone è oggi tornato a vivere nel suo paese d'origine, riscoprendo il valore di una vita più semplice e a contatto con la natura. Una scelta che ha influenzato anche il suo approccio al lavoro, rendendolo più consapevole e meno incline all'ansia da prestazione.
Quello che emerge dal nostro incontro è un ritratto intimo e completo di Beniamino Marcone, un attore che continua a stupire il pubblico con la sua passione e il suo impegno.
Intervista esclusiva a Beniamino Marcone
“Si tratta di un piccolo cammeo, di una partecipazione speciale in nome dell’amicizia che ci lega”, mi risponde Beniamino Marcone a proposito di Gli immortali, il film firmato da Anne-Riitta Ciccone che arriva al cinema il prossimo 20 giugno grazie a EuroPictures. Con la regista e sceneggiatrice, del resto, Beniamino Marcone aveva già lavorato in I’m – Infinita come lo spazio e in Gli anni belli, da poco approdati su RaiPlay.
Piccolo o grande che sia il tuo ruolo, il film racconta sotto forma di favola un’esperienza complessa e complicata da vivere come la perdita. Che rapporto hai con la perdita?
Ci sono tante sfaccettature della parola che vanno tenute in considerazione. La perdita può avere a che fare con la morte, come nel caso di Gli immortali, ma può anche riferirsi a qualsiasi tipo di allontanamento traumatico che può verificarsi con la fine di ogni tipo di relazione. A parte quella dei nonni, sono stato molto fortunato a non vivere direttamente la perdita intesa come morte ma l’ho vissuta in quanto rottura: da sempre, soffro molto il distacco, che sia da un amico, da un luogo o da un posto. È qualcosa che mi fa star male e a cui mi abituo piano piano solo con il tempo.
Perdita di un amore o di un posto: per autoaffermarti, hai dovuto ad esempio lasciare il luogo di cui sei originario.
Nato a Civitavecchia dove sono stato giusto qualche giorno, sono cresciuto a Cerveteri e lasciare quel mondo e tutto ciò che mi stava a cuore non è stato semplice. Il distacco più grande è stato quello dalla famiglia ma, da grande girovago, molto onestamente non vedevo l’ora di andare via: da liceale sono stato il classico ragazzo ribelle che voleva allontanarsi da quel contesto comunque paesano. È stato solo crescendo che mi sono reso conto dei tanti aspetti che una piccola comunità racchiude e custodisce.
E, quindi, dopo aver girato tanto, essere stato all’estero e aver vissuto in altri universi, sono ritornato nel posto che avevo lasciato: mi riconosco più in un contesto piccolo che nella grande città. Paradossalmente, è stato il CoVid che mi ha permesso di riavvicinarmi a un contesto fatto di natura, di mare e spazi molto più aperti e accessibili, in cui ho riacquistato un ritmo di vita più calmo e lento. Continuo a spostarmi per lavoro ma ho la base nel mio piccolo paese, dove ho solide radici e posso permettermi di fare una passeggiata nella natura senza dover necessariamente prendere la macchina.
So quanto una città possa essere complicata anche a livello logistico e, di conseguenza, preferisco fare il pendolare ma mantenere un livello di benessere psicofisico alto.
Quando quel ragazzo a cui il paese stava stretto ha sentito il richiamo della recitazione?
Ho cominciato a muovere i primi passi in un altro tipo di contesto che, se vogliamo, non è molto lontano da quello dell’attore. A scuola, da ragazzino, ero colui che era deputato a fare le interviste per il giornalino in cui scrivevo e uno dei più attivi quando si trattava di organizzare lo spettacolo di fine anno. Erano chiaramente tutte iniziative legate a un mondo adolescenziale e non ne avevo ancora chiare le implicazioni.
Mi sono poi trasferito per frequentare l’università ed è lì che sono entrato in contatto con il gruppo universitario di teatro: avevo già alle spalle le più disparate e a volte assurde esperienze di teatro amatoriale quando ho deciso di iniziare a studiare recitazione seriamente e a frequentare scuole più professionalizzanti, fino ad arrivare poi al Centro Sperimentale di Cinematografia. I miei inizi rimangono comunque rocamboleschi e divertenti: ricordo le serate allo sbaraglio in piazza in cui ci si doveva inventare qualcosa per attrarre l’attenzione della gente, avevo una sfrontatezza che ora non ho.
Forse più che sfrontatezza era il fregarsene del giudizio altrui: qualunque cosa fosse, mi ci buttavo. Da professionista, oggi, sono molto più legato alla qualità, allo studio e alla preparazione: se qualcuno mi dicesse di andare a fare uno spettacolo in piazza la prossima settimana, andrei nel pallone. Ma mi ricordo ancora le improvvisazioni, le letture dei testi di Stefano Benni o miei, le finte interviste, le filastrocche inventate…
Cosa avevi scelto di studiare all’Università?
Agraria, prima di finire al CSC senza sapere assolutamente nulla. Provenivo da una famiglia per cui occorreva studiare qualcosa di “serio” e le alternative era solitamente due: o ingegneria o medicina. Stupii tutti quando dissi che volevo studiare Agraria ma in realtà la scelta era dettata dal desiderio di andare via di casa: avrei dovuto studiare a Viterbo. Questo non vuol dire che non mi sia poi impegnato: ho sempre portato i risultati a casa ma è stato lì che si è insinuato in me il demone della recitazione, traendo piacere da quello che facevo e trovando un contesto sociale in cui mi riconoscevo.
Come hanno preso i tuoi genitori la decisione di fare l’attore?
Internamente, secondo me, non benissimo ma non mi hanno mai ostacolato. Il giorno in cui a casa ho detto che non ce la facevo più a stare su un libro per più di otto ore e non mi ci vedevo più nel farlo, hanno accettato il mio cambiamento, forti forse dal vedermi realmente motivato.
Ora che anche tu sei diventato genitore reagiresti allo stesso modo?
Beh, conoscendo anche l’ambiente del teatro e del cinema, sarei molto più realista e forse anche duro con un figlio che fa lo stesso mio discorso. Anche perché è inutile girarci intorno: se non sei più che motivato, non hai talento e non hai le capacità giuste, occorre che qualcuno ti mostri ciò che tu ancora non riesci a vedere perché preso dalla voglia di fare. Non è detto che tutti possano fare l’attore ed è qualcosa che ripeto spesso quando mi capita di incontrare i ragazzi delle scuole: il mondo delle arti dello spettacolo è vasto, non esiste solo la figura dell’attore e ci sono mille altri mestieri che vale la pena abbracciare.
Io stesso negli anni mi sono appassionato alla fotografia e al montaggio, per esempio, scoprendo che esistono tante altre professioni ancora più stabili che, oltre a garantire maggiore continuità lavorativa, possono aprire anche le porte del mercato estero in maniera più semplice. Ecco perché a un ragazzo che vuole commettere la stessa mia follia direi di fermarsi un attimo a pensare per capire cosa sta realmente cercando: recitare è l’essenza della sua vita o serve solo a camuffare un’altra esigenza? Nel secondo caso, quel vuoto potrebbe essere colmato anche da una professione più tecnica che può dargli maggiore garanzie e non fargli mollare tutto a quarant’anni per aprire un b&b, come è capitato a molti.
A chi è meno giovane di me chiedo anche di far chiarezza sul mestiere stesso dell’attore. Spesso si hanno l’idea confusa anche per via dei social: quello che si sta seguendo o vedendo è un professionista della recitazione o uno che ha imparato a fare dei contenuti? Senza demonizzare nessuno, sono lavori per cui servono skills e capacità differenti. Trovo molto bravi i creator che propongono contenuti divulgativi, ad esempio, ma non sono attori: sono semplicemente persone molto preparate con un percorso diverso seppur fatto sempre di studio e cultura.
L’esser padre di un bambino di un anno e mezzo ti ha permesso di capire che tragedia ha rappresentato la storia del piccolo Alfredino raccontata nella serie tv in cui interpreti Marco Faggioli, il coordinatore delle attività di salvataggio?
Divido la mia vita in due parti e lo spartiacque è stata la nascita di mio figlio, che segna inevitabilmente un prima e un dopo. Dal momento in cui è venuto al mondo, affronto la vita in maniera totalmente diversa e il nostro è un legame che va ben oltre tutto il resto. Per cui, la risposta non può che essere “sì”. Ho capito benissimo perché tante persone, soprattutto genitori, rimasero incollate davanti allo schermo per seguire la diretta delle operazioni di salvataggio con così tanta apprensione… e, soprattutto, perché si creò quel clima di sentimento collettivo per cui quel bambino doveva essere a tutti i costi salvato: era sinonimo di quell’amore filiale universale in cui tutti si riconoscono. Qualsiasi genitore in quel frangente sarebbe stato disposto a fare a cambio con il figlio, così come lo sarei oggi anch’io.
La storia di Alfredino racconta anche molto di noi Italia, un Paese che a inizio anni Ottanta stava profondamente cambiando. Mentre ci si apprestava a diventare una potenza di livello mondiale, dall’altro lato non aveva ancora un sistema in grado di affrontare una situazione così drammatica di vita quotidiana. Per ironia del destino, è stata quella tragedia a mettere in atto un cambiamento che ha poi portato alla nascita della nostra Protezione Civile, un ente riconosciuto oggi come all’avanguardia nel mondo.
Alfredino - Una storia italiana: Le foto della serie tv
1 / 15Sei diventato padre in concomitanza dei tuoi quarant’anni: ha stravolto la tua identità?
Il percorso della genitorialità è qualcosa che ognuno affronta nell’età in cui preferisce e si sente pronto. Se potessi tornare indietro, però, proverei ad affrontarlo sicuramente in età più giovane ma sono anche fatalista: se è arrivato adesso, vuol dire che ero pronto. Ha stravolto la mia identità fino a un certo punto: chiaramente la stanchezza è tipica della maturità, a trent’anni avevo di sicuro un’energia diversa, ma il modo che io e la mia compagna abbiamo di vedere le cose, di affrontare la vita e di stare con lui è molto giovane.
Ci piace ancora rischiare, fare delle scelte controcorrente e trasmettere a nostro figlio il senso del pericolo e della libertà per metterlo nelle condizioni, sebbene sia ancora molto piccolo, di crescere in autonomia, senza i genitori che debbano necessariamente guidarlo. Stiamo ponendo le basi affinché possa domani diventare un giovane in grado di ragionare con la propria testa.
Comunque, mi sento molto più giovane oggi che qualche anno fa: sto ad esempio facendo molto più sport con mio figlio. E mi sono anche reso conto di dare un peso diverso al tempo e alla velocità con cui viverlo: paradossalmente, un figlio mi ha permesso di avere una marcia in più, nonostante le molte preoccupazioni e la minor spensieratezza: non c’è niente di più bello o più importante per me di trascorrere del tempo con lui.
Quindi, riassumendo, direi che non è tanto la genitorialità a cambiarti ma il rapporto che instauri con tuo figlio, fatto di valori solidi, sensibilità, empatia e complicità. Chiaro che poi non sia sempre tutto rose e fiori ma le giornate storte o le notti insonni convivono con quei momenti belli e importanti da cogliere insieme.
Era lo stesso tipo di rapporto che hai vissuto tu con i tuoi genitori?
Ho avuto la fortuna di crescere in una famiglia del sud in un contesto di comunità. I grandi pranzi, le grandi cene e la famiglia allargata mi hanno dato il giusto imprinting per sviluppare una mentalità aperta, curiosa, accogliente e ospitale. Quella mentalità che ti portava anche a formarti grazie agli incontri per strada e a relazionarti con tutti, dalla persona più buona a quella meno. Ma anche gli incontri negativi erano fondamentali: ti davano gli strumenti per capire e allontanarti da ciò che per te non era piacevole.
Rispetto per l’altro, per i genitori e per la compagna. E per se stessi?
Il rapporto con me stesso è un po’ più complicato perché sono un eterno insoddisfatto. Sono molto critico con me stesso ma mi riconosco anche una grande perseveranza: mi impegno tanto ma consapevole di come si possa fallire e anche sbagliare.
L’insoddisfazione s riversa nel rapporto che hai con il tuo corpo?
Sono stato bravo a non prendermi troppo sul serio, altrimenti non mi sarei mai avvicinato alla recitazione. L’ho affrontata con la consapevolezza che il corpo sia un valore aggiunto e non qualcosa da togliere o nascondere. Non si tratta di essere pieni di sé ma è frutto di un pensiero per cui il corpo non è qualcosa che ci si sceglie in autonomia. Conta prima di tutto essere in salute e accettarsi e, quindi, la mia insoddisfazione non è mai stata legata alla mia fisicità. Anzi, più i corpi sono unici e meno si rischia di appiattire il racconto con figure stereotipate a cui è arrivata l’ora di dire basta (senza però cadere nell’estremizzazione opposta). Gli stereotipi sono la morte dell’arte: chi l’ha detto che uno con la faccia da bravo ragazzo non possa interpretare un killer?
C’è sempre da qualche parte la speranza di rivedere il tuo Fazio nel Giovane Montalbano?
Se ne parla spesso e non c’è conferenza stampa a cui io partecipi in cui mi viene chiesto ma non ho una risposta da dare. Sono molto legato a quel personaggio come a quello di Diego nei Cesaroni: ero appena uscito dal CSC e mi sono ritrovato, dopo una serie di ruoli di contorno, ad avere due possibilità enormi. I Cesaroni mi avevano trasformato per tutti in Diego ma Fazio mi ha permesso di lavorare su un progetto di altissima qualità su un set in cui mi sono sentito totalmente accettato, contribuendo a farmi comprendere che evidentemente anch’io potevo lavorare come attore e a un certo livello.
Mai avuta la tentazione di passare dall’altro lato della camera?
Non riesco a stare fermo. La curiosità di cui prima mi ha portato a girare dei documentari e a collaborare alla scrittura. Ho anche scritto un cortometraggio che sicuramente prima o poi girerò: credo da sempre che un attore che si cimenta alla regia porti una sensibilità diversa sul set, basti pensare a Francesco Bruni o Paola Cortellesi: sa come dialogare con i colleghi in modo diretto e concreto e come guidarli nella maniera giusta senza chiedere loro l’impossibile, si parla la stessa lingua. Non è con l’autorità che si lavora bene, anzi: si finisce con il creare un ambiente tossico…
Isabella Leoni, con cui ho lavorato in Mascaria ha ad esempio una calma incredibile nell’affrontare il suo lavoro di regista, una pace interiore che ha messo tutti di buon umore e che ci ha resi molto più propensi a dare il massimo nel poco tempo a disposizione. Come negli sport di squadra, si gioca bene quando tutti tirano dalla stessa parte.