Con una carriera iniziata sotto i riflettori del successo globale grazie al suo brano Bambola, Betta Lemme ha navigato attraverso le tempeste emotive e professionali che tale successo ha comportato, trovando infine la sua vera voce in Dance Til Forever, disponibile in radio e su tutte le piattaforme digitali dall’8 marzo.
Dance Til Forever unisce il pop d’oltreoceano all’energia della dance house, con richiami ad atmosfere spagnoleggianti. Il risultato è un mix esplosivo, un beat unico che culmina nel ritornello e che fa subito venire voglia di ballare. Non è un caso, inoltre, che l’eclettica artista, autrice e producer dei suoi brani, abbia scelto di tornare sulle scene proprio nella Giornata Internazionale della donna: con la sua musica, Betta Lemme si fa promotrice di valori importanti legati all’empowerment femminile e alla giusta lotta per la rivendicazione dei diritti fondamentali di tutti. La musica è per lei uno strumento fondamentale attraverso cui creare consapevolezze e affermare l’importanza della libertà individuale, senza pregiudizi.
In questa intervista esclusiva, Betta Lemme si apre sulla sua lotta per mantenere l'autenticità in un mondo che spesso richiede compromessi, sull'importanza del benessere mentale e su come il riconnettersi con la propria musica sia diventato un percorso di guarigione. Betta Lemme non si limita a parlare di musica; la sua storia è intrisa di riflessioni sul ruolo delle donne nell'industria (al suo fianco oggi c’è una manager dall’indiscusso talento, Denise Santoro), sull'importanza delle radici culturali (e della pasta!) e sulla resilienza personale di fronte agli ostacoli.
Questa conversazione offre uno sguardo intimo sulla vita di un'artista determinata a trasmettere messaggi di forza, autenticità e speranza attraverso le sue canzoni. Scherza molto, durante il nostro incontro su Zoom, mentre gioca con il suo elastico tra le dita (“ma non sono a disagio: sono molto diretta e te lo direi”) e ci si fa una promessa: prima o poi, ci si vedrà al Convento dei Cappuccini a Palermo per far visita alle Catacombe e vedere da vicino la mummia della piccola Rosalia. Non glielo suggerisco io ma è lei stessa a farlo: da bambina, era appassionata di archeologia e quel posto l’ha sempre ammaliata.
Intervista esclusiva a Betta Lemme
“Avevo chiamato due amici e abbiamo iniziato a scrivere una canzone. Ero reduce da un momento in cui musicalmente non mi sentivo me stessa ma, quando sono venute fuori le prime note, ho pensato che finalmente avessi tra le mani qualcosa che mi facesse sentire me stessa. Dance Til Forever è diventata poi come una medicina: più la ascoltavo, più mi ritrovavo”, sono le prime parole che Betta Lemme ci dice quando le chiediamo come ha avuto origine la sua nuova canzone, arrivata a distanza di anni dal successo di Bambola.
Il fatto che Bambola avesse ottenuto un riscontro al di là di ogni più rosea aspettativa, oltre 83 milioni di views solo su YouTube, ha avuto un peso sul tuo benessere mentale?
Non posso dire di no, ha finito inevitabilmente con l’influenzarmi. Mi ha dato l’opportunità di connettermi con tanti ascoltatori sparsi nel mondo e inevitabilmente ciò spinge a voler sempre di più a livello anche umano, a entrare maggiormente in contatto e soprattutto ad ascoltare in qualche modo le loro storie. Ha fatto nascere in me la voglia di usare la mia musica come mezzo per aiutarli a vivere meglio ciò che stavano passando e vivendo: è come se si fosse creato un dialogo che desideravo mantenere costante.
Purtroppo, però, qualcosa si è infranto a causa di logiche discografiche che non dipendevano dalla mia volontà: quel dialogo appena nato si è spezzato e per me è stato semplicemente devastante, molto devastante. La musica dovrebbe rappresentare una zona di comfort, veicolo di messaggi ora tristi ora coraggiosi, e chiunque dovrebbe avere la possibilità di poterlo fare senza perdere mai di vista chi è. Per me, è stato orribile non poter diffondere la mia musica e scomparire quasi nel nulla solo perché non volevo rinunciare a essere me stessa. È stato anche frustrante. Ed è una sensazione che in tante persone vivono nella quotidianità quando si vedono tarpate le ali.
Ti sei sentita good quando sei tornata a pubblicare una canzone che ti rappresentava?
Più che good, mi sono sentita leggera. Ma non è una sensazione che ho provato subito: quando scrivi musica, non sai cosa ne verrà fuori e come andrà nel futuro. Vivi in una dimensione quasi sospesa fino a quando non rilasci la canzone e tutto trova un senso. Ora posso dire di sentirmi libera come una piuma, come canto nel testo di Dance til Forever: mi sento benissimo.
Credi di essere stata trattata come una bambola dall’industria musicale?
Tutte le volte che entravo in uno studio di registrazione… Non accadeva solo nell’industria musicale ma anche nella mia vita privata. Così come succede a tutte quelle persone che in ambito lavorativo non possono esprimere il loro parere e devono solo tacere, stare in silenzio e obbedire, ci si sente congelati. Come quando Barbie nel film di Greta Gerwig viene messa dentro la scatola, mi sono ritrovata anch’io ad avere così tanto tempo per pensare e rivalutare tutto ciò che era meglio per me… e per scrivere musica, tanta musica, forse troppa musica che ora ha bisogno di essere ascoltata. Forse oggi sono anche grata a chi ha detto “no” ad alcune mie canzoni nel tempo: posso finalmente portare avanti il mio progetto nella maniera che ritengo più onesta e congrua per me.
Dance til Forever è stata rilasciata l’8 marzo, una data simbolica per tutte le donne.
Non è stata scelta a caso: credo nella forza delle donne e sono convinta davvero che abbiamo dei superpoteri: per quanto molto spesso ci sottovalutino, siamo incredibilmente forti nel credere in chi siamo da non arrenderci di fronte alle limitazioni che la società tende a imporci fin da quando siamo piccole. È la ragione per cui oggi sono anche molto selettiva nello scegliere le persone con chi voglio lavorare: sono circondata da donne, alcune incredibili, di cui mi colpisce favorevolmente il rispetto per il lavoro, l’integrità e l’onestà. Caratteristiche che mi permettono di andare avanti… ed io credo molto nell’integrità, è una gran cosa.
Quando è stata la prima volta che ti sei sentita bene come donna?
Tutte le volte che ero al sicuro nella mia casa con i miei amici o a ballare in un locale gay. Difficilmente, esco da sola: come a tutti, mi capitano i momenti in cui lo faccio ma non riesco a godermeli a pieno perché purtroppo il mondo è ancora un po’ troppo… arcaico. Quindi, mi sento al sicuro come donna da quando ho cominciato ad ascoltare la mia intuizione di circondarmi solo di altre donne o di ragazzi che non mi vedevano come una preda. Essere donna è incredibile e ho sempre con me l’immagina di mia nonna, il modo in cui ha affrontato la vecchia, come si presentava e quanto gentile era con gli altri.
I tuoi nonni erano italiani, calabresi. Che legame hai tu con l’Italia?
I miei nonni sono immigrati in Canada andando allo sbaraglio, in una terra in cui non conoscevano nessuno. I miei genitori sono nati oltreoceano ma ciò non significa che abbiano perso il legame che hanno con la loro terra d’origine, che continuano a percepire come casa. Ciò ha fatto sì che la nostra famiglia fosse molto tradizionale e all’italiana: non è un caso che io stessa impazzisca per la pasta aglio, olio e peperoncino o per la pasta e fagioli… potrei mangiare pasta tutti i giorni e non sarebbe un problema: non me ne importerebbe della linea: datemi una carbonara e mi fate felice, anche se poi ogni tanto quando, soprattutto quando vado via dall’Italia, sono piena di brufoli (ride, ndr)!
Penso di avere con il cibo lo stesso rapporto che ho con la musica. Sono cresciuta con mia nonna, era la persona con cui parlavo di più ed è anche il motivo per cui, essendo lei multilingue, conosco anch’io diverse lingue. Cucinavamo insieme e mettevamo la musica a tutto volume, ridevamo e cucinavamo allo stesso tempo. Anche se non c’erano chissà quanti soldi in casa, ho imparato da lei a ridere e a divertirmi: bastavano cibo e musica.
Hai cominciato a suonare il piano a due anni. Cosa ti ha spinto a farlo così presto?
In casa di nonna c’era un pianoforte, su cui non riuscivo nemmeno a salire. Ero forse attratta da quei tasti che emettevano musica e, accorgendosene, nonna mi ha seduta lì mentre indossavo ancora il pannolino. Crescendo, non avrei mai pensato che mi sarei ritrovata su un palco con un microfono in mano per cantare: tutti pensavano che avrei forse lavorato dietro le quinte tant’è che anch’io stessa mi sono sorpresa quando è accaduto… comunque sì, la responsabile è ancora una volta nonna: mi incoraggiava a suonare guardandomi per ore e senza mai lamentarsi (ride, ndr). Mi spronava ad andare avanti e a non mollare e quello è il regalo più grande che si possa a un bambino o a chiunque cerca un modo per esprimersi.
Per una donna che fa il tuo lavoro, il corpo diventa strumento di espressione, un’estensione della propria arte. Purtroppo, le critiche di chi non apprezza arrivano puntuali, soprattutto in Italia dove alle giovani cantanti si rimprovera spesso e a sproposito di usare l’estetica per raggiungere il successo. È accaduto a Elodie così come ad Annalisa, per esempio.
Credo che per ogni artista sia fondamentale essere se stessi e non pensare a quello che viene detto loro dagli altri: l’importante è sentirsi a proprio agio, mostrarsi come meglio credono e farlo, soprattutto, rispondendo a una propria volontà. È vero che il sesso vende ma è anche vero che occorre sempre rispondere a una propria esigenza ed essere coerenti con il proprio percorso. Onestamente, ho sentito la musica di entrambe senza aver visto le loro performance, mi è piaciuta e non credo che sia il loro corpo a fare la differenza: sono due grandissime artiste.
Tu che hai rapporto con il tuo corpo?
Non ci penso spesso. Mi piace indossare vestiti che mi rendono felice, portare un bel completo o tirare i capelli all’indietro… ho imparato ad amarmi ogni giorno di più e farlo mi ha aiutato anche a superare i momenti più difficili. E, comunque, non smetterò mai di mangiare pasta! (ride, ndr).
Cosa vedi quando ti guardi allo specchio?
Negli ultimi due anni, l’immagine che vedevo riflessa era un po’ triste, come una candela che ha accesa solo una piccola fiammella. Mi guardavo e non mi riconoscevo. Mi chiedevo che cosa avrei potuto fare per rialimentare quella fiamma… non è stato facile ma con la pazienza, l’amore e l’aiuto di amici fantastici piano piano sono tornata a vedere me stessa. Nonostante gli alti e bassi, a fine giornata mi specchio e mi vedo finalmente felice.
Quando hai avuto la percezione che la tua musica stava diventando grande aprendo la strada all’artista che sei oggi?
Non so se la mia musica sia diventata grande: è un giudizio soggettivo ed è bello che siano gli altri a dirlo e non io. Io posso dirti quando per me una mia canzone è speciale: quando per la prima volta la suono al pianoforte e mi emoziona quasi fino alle lacrime… in quell’istante è come se si fosse sprigionata una magia. Oppure, quando la suono per qualcun altro e quel qualcun altro prova le mie stesse emozioni, gli stessi sentimenti. È qualcosa che non do mai per scontato e che spero sempre di poter condividere con un numero maggiore di persone: quello mi renderebbe felice.
E sei felice oggi?
Sono molto ma molto più felice di quanto non lo sia stata in passato.
Cosa ti aspetti da Dance Til Forever?
Onestamente? Non mi aspetto nulla se non che la gente ami la canzone quanto la ami io. Sono solo felice di poter finalmente esprimermi liberamente: se piacerà anche gli altri quanto piace a me, sarà fantastico. Chiunque l’ascolterà, capirà finalmente come sono io e che musica mi rappresenta… non ho voluto lanciare la canzone in grande ma in maniera molto tranquilla: è come se avessi aperto lentamente la porta e da uno spiraglio osservassi l’effetto che fa. Io rimango dietro la porta in attesa di mostrare quanto tanto altro ho ancora da mostrare e solo al pensiero di farlo mi emoziono. Il mio unico obiettivo è quello di ritrovare quel contatto con la gente che mi è mancato e di poter finalmente proporre il mio primo live: non ce n’è mai stato uno tutto mio, spero di averlo.
Il connettersi con gli altri passa anche attraverso i social media.
All’inizio, mi piaceva molto usare i social per parlare con le persone. Ricordo persino i nomi di tutti quelli con cui sono entrata in contatto: non importava quante centinaia o migliaia fossero ma mi piaceva ascoltare le loro storie. Per me, era come incontrare qualcuno per strada e conoscerlo. Poi, il rapporto con i social è cambiato nel corso degli anni: pensavo che non avesse senso raccontare qualcuno che non ero e non potere essere super onesta… non mi sembrava corretto mentire e questo probabilmente ha inficiato il rapporto con i social stessi. Da qualche tempo, invece, sono tornata a essere più presente, sperando che la gente si stanchi della mia faccia ma non della mia musica (ride ndr).
Ti spaventa l’odio social?
Non do molto peso agli haters. Non ne ho mai avuto molti, giusto uno che mi ha ‘solo’ minacciato di morte, ma non mi infastidisce ciò che possono scrivere: mi ripeto sempre che per me contano solo ciò che mi dico quando mi sveglio e quello che pensano le persone di cui mi circondo... non è un’emoji che mi cambia la giornata, così come non lo sono né i commenti gentili (che, come tutti, amo) né quelli negativi. Penso spesso che chi mi attacca, per arrivare a scrivere determinate cose, avrà problemi con se stesso e, quindi, non lo prenderei mai sul personale e non mi farei mai ferire.
Chi è la prima persona che chiami quando ti senti ferita?
Spesso nessuno ma è qualcosa su cui sto lavorando. Mi è capitato di star male e di non alzare il telefono ma è un atteggiamento che sto provando a cambiare perché mi sono resa conto che, quando mi è capitato di condividere le mie ansie e le mie preoccupazioni, con gli amici, dopo mi sono sentita meglio. Tutte le volte che è capitato mi son chiesta perché non l’avevo fatto prima… ma se chiamassi qualcuno sarebbe il mio partner o semplicemente la mia amica Julie. Anche se spesso idealmente chiamo mia nonna che non c’è più: penso che non sia a casa e che semplicemente non mi risponda.