Bianca Nappi è tra i protagonisti della serie tv Il metodo Fenoglio – L’estate fredda in onda su Rai 1 in prima serata dal 27 novembre. Nella storia prodotta da Rai Fiction e Clemart, Bianca Nappi interpreta Tonia Grimaldi, la moglie del boss Nicola Grimaldi portato in scena da Marcello Prayer.
Ed è dallo sconvolgente rapimento del figlio della coppia che si dipana il caso che mette in atto le indagini del maresciallo Fenoglio che, con il suo metodo, cerca di capire cosa sta sconvolgendo la Bari del 1991 al centro del racconto della serie tv, tratta dai romanzi di Carofiglio. È difficile rivelare una parola in più sulla trama ma non perché Bianca Nappi non sia propensa a raccontare chi sia il suo personaggio a TheWom.it: semplicemente rovineremmo la sorpresa a chi si lascerà affascinare dal racconto noir e dalle indagini.
Tonia Grimaldi arriva in un momento professionale molto felice per Bianca Nappi. Prima di Il metodo Fenoglio, l’abbiamo vista su Rai 1 nella serie tv Per Elisa – Il caso Claps e ancora prima nella straordinaria Lolita Lobosco, dove dà vita al personaggio di Marietta, la migliore amica della protagonista Luisa Ranieri. Ma quello di Bianca Nappi non è soltanto un volto da tv generalista: i più giovani hanno imparato ad amarla come l’infermiera Rossana della serie Netflix, ormai cult, Tutto chiede salvezza, di cui tra qualche mese vedremo la seconda stagione, e la ameranno in un altro titolo della piattaforma molto atteso, La vita che volevi, con Vittoria Schisano e Alessio Lapice.
Attrice di origine pugliese dal curriculum segnato da numerosi successi, Bianca Nappi ha le idee chiare sul suo lavoro e sulla passione che sin da piccola ha maturato nei confronti della recitazione. Era infatti semplicemente una bambina quando, in casa con l’emancipata nonna Rosa, trascorreva i pomeriggi a vedere opere di Hitchcock o di De Filippo quando ancora i palinsesti televisivi permettevano di formarsi. Aveva vent’anni quando poi ha lasciato la sua Trani per trasferirsi a Roma e inseguire la sua strada, anche se il padre, perso troppo presto, avrebbe voluto vederla avvocata per via della sua parlantina.
Ma lasciamo che a raccontarci di tutto ciò sia Bianca Nappi, con quella sensibilità d’animo e contagiosa simpatia che da sempre la caratterizza.
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Intervista esclusiva a Bianca Nappi
“Sono in treno. Sto andando a Venezia perché, dopo un periodo abbastanza intenso di lavoro, volevo portarci mio figlio: non c’è mai stato. E un po’ è come se non ci fossi mai stata neanch’io: ogni volta che ci sono andata è stato sempre per qualcosa relativo al Festival, vivendo poco la città e la sua realtà. Sono quindi curiosa di fare la turista”, ci svela Bianca Nappi non appena la raggiungiamo telefonicamente per la nostra conversazione. “Piazza San Marco sicuramente”, mi risponde quando le chiedo cosa gli farà vedere della città sull’acqua che tanto lo affascina. “Ma andiamo a dormire alla Giudecca, il quartiere degli artisti: cominciamo da una Venezia un po’ underground, chiamiamola così”.
Nella serie tv Il metodo Fenoglio, interpreti Tonia Grimaldi, moglie del boss Nicola e madre di un bambino che viene sequestrato…
Un bambino che è al centro dell’indagine orizzontale di tutto il racconto. È complicato parlare del progetto perché trattandosi di un noir la paura è quella di anticipare delle cose. Tania Grimaldi è sì una donna a cui rapiscono il figlio, ritrovandosi al centro di una tragedia personale, ma è anche una donna di malavita: in lei, è insita una dicotomia, una contraddizione molto forte. In più, man mano che la storia va avanti, si scoprirà avere avuto una doppia vita…
La serie tv fa riferimento a una trilogia specifica di Fenoglio, un po’ un unicum nella sua produzione. L’estate fredda è un romanzo molto “atipico”, contenenti spunti storici e reali molto importanti, come ad esempio l’incendio doloso che nei primi anni Novanta ha distrutto il teatro Petruzzelli di Bari e la nascita della nuova criminalità organizzata pugliese. Si racconta di un periodo molto caldo in negativo della storia di Bari e la rappresentazione della città è del tutto diversa da come la si può ammirare in altri progetti, tra cui Lolita Lobosco che mi vede coinvolta.
La storia è ambientata nel 1991. Che ricordi hai tu di quel periodo?
Sono cresciuta a Trani in un momento in cui la Puglia non era ciò che per fortuna è diventata dopo ma una periferia d’Italia. Nel 1991 avevo undici anni, frequentavo la prima media ma ero ancora una bambina di una provincia del sud. Mi ricordo che i miei genitori andavano a Bari per la Fiera del Levante e di come il centro storico venisse considerato una zona molto pericolosa: oggi esplode di vita, di locali e di turismo, ma in quegli anni era il luogo in cui non si poteva e non si doveva entrare perché non si sapeva cosa potesse accadere.
Erano anche gli anni in cui si instillava il pensiero di poter lavorare come attrice da grande. Trascorrevo il pomeriggio a guardare quei film bellissimi trasmessi da Rete 4 o Rai 1: ho visto tutto Hitchcock alla tv e tutto Eduardo De Filippo. Nonostante non sia passato chissà quanto tempo, era un’epoca molto diversa dall’attuale: i pomeriggi si trascorrevano in casa, i miei lavoravano e stavo con mia nonna. Era quasi una vita fa da cui in qualche modo ho preso anche le distanze perché forse ero una bambina destinata sulla carta a fare tutt’altro.
Nonna materna o paterna?
Nonna materna: Nonna Rosa è stata una figura molto importante nella mia crescita. È stata la nonna con cui ho condiviso di più. Era una donna molto fiera e molto avanti per il periodo in cui ha vissuto: nata nel 1900, aveva frequentato il ginnasio e allora erano in pochissime a poterlo fare. Persona molto in gamba e colta, nel 1991 aveva già un’età importante (è morta qualche anno dopo) e, oltre a lasciarmi guardare i film, mi raccontava le sue esperienze di vita: i suoi insegnamenti, le nostre chiacchiere e i suoi racconti sono ancora vividi nella mia mente, li tengo ancora con me.
La figura di tua nonna mi spinge a pensare a come spesso si descriva la società meridionale come fortemente patriarcale, nonostante le donne abbiano ricoperto sempre un ruolo importante.
È un problema però di forma e di sostanza. Sostanzialmente le donne al Sud hanno sempre comandato in casa ma formalmente erano gli uomini a dover apparire come coloro che decidevano: il potere economico è sempre stato nelle mani del maschio, molte donne non lavoravano e le poche che lo facevano non guadagnavano quanto i mariti. Non a caso si usa la parola capofamiglia e non capafamiglia. La distinzione tra sostanziale e formale ha fatto sì che l’uomo apparisse simbolicamente come quello vincente e forte: anche se in privato lo contraddicevano, le donne in pubblico assecondavano tale pensiero.
Cosa stai insegnando a tuo figlio a tal proposito? Lo chiedo a te perché parlo ovviamente con te ma avrei posto la stessa domanda anche al padre.
Ci pensavo proprio in questi giorni in cui l’imperativo è diventato quello di educare i maschi innanzitutto ai noi e al rispetto non solo delle donne ma di tutte le persone. Più che l’insegnamento, funziona l’esempio che si da loro. Un genitore non è né uno psicologo né un pedagogo: quando si crescono i figli, si cerca più che a fare bene a sbagliare il meno possibile. Ci si rende conto che un bambino è comunque altro da te, ha già una sua indole: puoi lavorarci ma esiste di suo.
Io e te siamo entrambi del sud e, quindi, ce lo possiamo dire: c’è un certo modo di essere madre nei confronti del figlio maschio che porta a iper coccolarlo, a vezzeggiarlo e ad alimentarne l’autostima anche quando è un perfetto imbecille e non abbia agito nella maniera corretta. Questa tipologia di madre esiste da sempre e forse esisterà ancora ma fortunatamente sta lentamente cedendo il passo a una nuova consapevolezza: è meno presente di quando ero piccola io. Ricordo che tale dinamica era molto presente nei legami parentali con questa figura materna totalmente al servizio di un figlio maschio che andava accontentato in qualsiasi cosa e giustificato anche quando sbagliava o era scorretto. Fortunatamente qualcosa sta cambiando.
Ce lo auguriamo, stando alle statistiche e ai dati relativi agli episodi di violenza sulle donne. Nel caso in cui i fautori siano giovanissimi ci si chiede spesso come non abbiano le madri notato i problemi dei propri figli.
È molto difficile fare un ragionamento centrato: ci sono tanti aspetti (sociali, familiari, economici e psichiatrici) che andrebbero tenuti in considerazione. Genitori a parte, nessuno si accorge di niente: la cerchia sociale, gli insegnanti, i conoscenti… nessuno vede niente. A volte, un genitore è l’ultima persona a scoprire determinate cose, un amico invece potrebbe realizzarle prima. C’è sicuramente un problema di leggera indifferenza verso l’altro, un ascolto superficiale. Però, lo sottolineo ancora una volta, la questione è talmente complessa che è anche difficile avere un’opinione univoca. Di certo, quella che stiamo vivendo è una tragedia sociale su cui dovrebbero lavorare tutti seriamente: magistrati, autorità, scienziati, psicologi…
Il metodo Fenoglio: Le foto della serie tv
1 / 19Cresciuta a Trani, a vent’anni lasci il sud per trasferirti a Roma. Come hai vissuto lo sradicamento da casa?
Per me, è stato come nascere una seconda volta. Nascere è comunque un trauma che si porta dietro aspetti negativi e positivi, con tutti gli inciampi, gli errori e la grande curiosità di andare avanti del caso. Il trasferimento è stato caratterizzato dal non voler essere destinata a un percorso di studi e di vita che non mi apparteneva ma a che sarebbe stato mio se fossi rimasta a casa. Oggi chi in Puglia vuol fare l’attore può iniziare il proprio percorso senza spostarsi più di tanto ma quando ho cominciato io non era così, era escluso che si potesse conciliare le due cose.
Cosa avrebbero voluto per te i tuoi genitori?
Partendo dal presupposto che mi hanno sempre lasciato grande libertà dimostrando di avere molta fiducia nelle mie scelte, soprattutto mio padre avrebbe preferito che io facessi una scelta di vita apparentemente più sicura e, quindi, studiare ad esempio Giurisprudenza. Era affascinato dalla mia parlantina e dal mio modo di esprimermi: secondo lui, avrei potuto essere un’avvocata pazzesca. E, pensandoci, oggi dico anche che non mi sarebbe dispiaciuto ma, all’epoca, non mi interessava proprio.
Comunque, con l’avvocato un attore condivide l’oratoria, la retorica e la messa in scena. Un processo è uno spettacolo a tutti gli effetti.
Assolutamente, sì. E infatti non mi sono discostata troppo dall’ambito giuridico: in certi casi, l’ambito giuridico è intrattenimento (ride, ndr). Un giorno in pretura è da sempre la mia trasmissione preferita. Ne sono una fan storica e sono anche in contatto con alcuni degli autori del programma, che amo proprio perché unisce spaccati del nostro Paese al diritto e all’intrattenimento. Alla fine, il processo è una forma di spettacolo teatrale con tutti i suoi attori in scena e non ci si stacca da programmi di quel tipo perché raccontano un’Italia che altrimenti non avremmo mai modo di conoscere.
Qualcosa di molto simile avviene con voi attori che portate in scena persone che non sareste mai nella vita: è un po’ il bello del vostro mestiere.
Penso che sia l’aspetto più bello ma ancora più bello è sapere che dentro noi c’è tutto: ci sono il santo, l’assassino, il piccolo borghese, l’aristocratico, chi soffre per amore o chi dell’amore se ne frega. C’è tutto dentro noi: si tratta solo di farlo emergere e di farlo venir fuori.
Quand’è stata la prima volta che in te è emerso qualcuno che non eri tu?
Ho iniziato a fare teatro amatoriale ero adolescente. Avevo tra i 15 e i 16 anni e si mettevano in scena le commedie di De Filippo, che va molto forte in ambito amatoriale senza che ne abbia mai capito il perché: sono difficilissime da fare! Mi affidavano spesso il ruolo della svampita: non lo sono mai stata in vita mia ma mi veniva molto bene. Sono state quelle le prime occasioni in cui ho scoperto di poter entrare in contatto con parti di me che non credevo così presenti. Con il tempo, ho cominciato a crederci maggiormente: scavando dentro, a volte neanche troppo in fondo, emergono punti di vista che nemmeno immagini di avere… bisogna soltanto lasciare che vengano fuori.
Di recente, ti abbiamo vista tra i tanti progetti a cui hai preso parte a una serie tv molto amata dai giovani: Tutto chiede salvezza, in cui interpreti l’infermiera Rossana.
Mi sono resa conto di come la serie abbia colpito i giovani proprio di recente quando insieme a Lorenzo Renzi ho preso parte a un bellissimo incontro a Vicenza in un liceo classico che ci ha contattati perché desiderava incontrarci. Dai tanti ragazzi che potrebbero essere miei figli che mi fermano per strada, ho anche realizzato quanto in realtà sia stata vista. Abbiamo già girato la seconda stagione e sono fiera di averne preso parte: è una trasposizione molto bella di un romanzo meraviglioso che Francesco Bruni, sceneggiatore e regista, ha realizzato con la giusta grazia, permettendosi momenti di leggerezza e di ironia che non erano scontati ma che fanno molto bene a un racconto di quel tipo.
Tutto chiede salvezza tratta di salute mentale. Tu sei anche nel cast di un’altra serie Netflix, La vita che volevi, in cui si tratta come argomento la transizione di genere. Quanto è importante oggi che cinema e televisione si interroghino sulla diversità includendola nel proprio racconto?
Rispondo in maniera molto semplice: sogno film e serie che non parlino nemmeno di diversità ma di vite varie perché già solo la parola “diversità” mi dà un po’ fastidio: vorrebbe essere inclusiva ma nella pratica è esclusiva perché va a porre l’accento su qualcosa che percepisci estraneo rispetto a una norma imposta chissà da chi. La usiamo per capirci e per ricorrere a un linguaggio che sia comune a tutti ma ogni storia è diversa, così come diversa è ogni persona. Ci sono semmai delle categorie che finora sono state trattate molto male o tenute ai margini dell’intrattenimento, nei romanzi come nei film. Ed è doveroso che non sia più così.
Sogno storie in cui si raccontino vite di persone: non importa che poi siano bianche o nere, gay o eterosessuali, transgender, o con problemi di salute mentale… sono sempre vite di persone. So che non è facile e che richiede tempo perché i pregiudizi sono duri a morire ma si può andare verso un futuro di storie che raccontino di vite e basta: siamo tutte persone che apparteniamo alla stessa specie vivente.
Hai mai avvertito pregiudizi nei tuoi confronti?
No. Sono stata una ragazza molto fortunata, non ho mai subito bullismo e ho sempre avuto molta facilità nei rapporti umani. Forse qualche pregiudizio nei miei confronti c’è stato quando mi sono trasferita a Roma e ho cominciato a studiare recitazione perché, comunque, ero una persona che proveniva da un ambiente molto diverso dagli altri, che non aveva conoscenza e che doveva fare tutto da capo. Nella maggior parte dei casi, sono riuscita a vincerlo e l’ho anche capito: il pregiudizio è insito in noi verso tutto ciò che ci fa paura o non conosciamo abitualmente, anche a me, se cammino per strada al buio e sento dei passi dietro, verrà di fermarmi, girarmi e aspettare che quel qualcuno passi avanti perché temo che possa farmi del male. Ma, al di là di ciò, mi sono sempre sentita accolta ovunque sia andata.
Ed è stato ben accolto al Festival di Rio de Janeiro Giorni felici, uno degli ultimi film in cui hai recitato?
So che è andata molto bene ma anche al Festival del Cinema Europeo di Lecce. La sceneggiatura era molto bella e anche abbastanza inedito, il film dovrebbe arrivare presto nelle sale e, sebbene sia stata la mia solo una piccola partecipazione, sono contenta di averla fatta perché mi ha permesso di lavorare con due super miti come Anna Galiena e Franco Nero… e poi perché era un’opera prima e le opere prime hanno sempre bisogno di essere sostenute in qualsiasi forma.
Ti vedremo ovviamente nella terza stagione di Lolita Lobosco, una delle serie tv che hanno contribuito al cambio della narrazione dei personaggi femminili in televisione, in cui interpreti il ruolo di Marietta, la migliore amica della protagonista Luisa Ranieri.
Il merito è innanzitutto dell’autrice dei romanzi, Gabriella Genisi, che ha tratteggiato dei personaggi femminili distanti da quelli a cui siamo abituati. E, poi, certamente regia, produzione e messa in scena hanno contribuito molto. Al centro ci sono personaggi femminili atipici che non scimmiottano quelli maschili e che hanno degli equilibri meno risolti rispetto a come spesso si raccontano le donne.
Nella vita reale, conosco tante donne che sono come Lolita, donne che fanno fatica a entrare in una relazione, che a una certa età non sono ancora madri e che hanno una carriera da mandare avanti. E ne conosco qualcuna anche come Marietta, un po’ di meno ma ci sono (ride, ndr), donne che hanno invece una famiglia ma che non hanno intenzione di rinunciare a tutta una loro parte adolescenziale che continua a essere viva ed esplosiva.
Marietta di professione fa il PM. E PM era anche Felicia Genovese, colei che hai interpretato nella serie Per Elisa – Il caso Claps. Qual è stata la difficoltà maggiore nell’interpretare una figura che la storia ci consegna poi come controversa?
Felicia Genovese è una persona che tuttora esiste e che è stata totalmente prosciolta da ogni tipo di accusa mossa nei suoi confronti. È stato molto impegnativo e complesso interpretarla perché effettivamente ha ricoperto nella vicenda di Elisa Claps un ruolo da un lato chiave e dall’altro controverso: abbiamo una verità formale oggi alla quale attenerci. Conoscevo molto bene il caso e far parte del progetto per me è stato quasi motivo di orgoglio.
Per il cinema, sei stata protagonista nel 2017 di La mia famiglia a soqquadro. E a oggi è il tuo unico ruolo da protagonista in un film. Ti sei mai chiesta del perché di questa diffidenza nei tuoi confronti che porta a non affidarti una parte da leading actress?
Dovrebbero un po’ abbassare le difese nei miei confronti. Rimango però fiduciosa del fatto che le cose prima o poi possano cambiare.
Come reagisci quando, dopo infiniti provini e si è rimaste in due per un ruolo, la risposta è no?
Già arrivare in due non è così scontato. Il lavoro di attore è anche un gioco d’azzardo: non sempre la monetina restituisce ciò su cui hai puntato. Con gli anni, ho imparato a non sentirmi colpita personalmente, le scelte degli altri sono basate su mille fattori che nulla hanno a che vedere con me o con il mio talento. Vivo molto meglio da quando ho realizzato che non c’era nulla di personale e forse ciò si riflette anche nella recitazione. Il provino per me resterà sempre un incontro: qualcuno provina te ma allo stesso tempo anche tu stai provinando l’altro, capendo qual è il mondo in cui dovresti entrare e le persone con cui ti piacerebbe o meno lavorare.