È da poco uscito Exit (La Tempesta Dischi) di Blindur, il progetto del songwriter e produttore Massimo De Vita. Exit si compone di 11 tracce che tracciano un particolare percorso, immaginato su un tabellone da gioco. Ed è dall’idea di gioco che siamo partiti per raccontare in quest'intervista il nuovo lavoro di Blindur. In maniera quasi “diabolica”, abbiamo preso i testi delle canzoni e li abbiamo utilizzati per saperne di più su Blindur e su Massimo De Vita.
Il racconto che ne è venuto fuori è ricco di sfumature. Come accade per i giochi da tavolo, ogni casella ha riservato prove, sfide e premi, a cui Massimo De Vita ha risposto spesso spiazzando le nostre aspettative. Non volevamo, per esempio, parlare dell’incidente che lo ha privato della vista da bambino ma è stato inevitabile farlo. Anche perché il nome Blindur non può che partire da lì, da una parola islandese con un significato ben preciso.
Il lancio di dadi che accompagna Exit ha, dunque, accompagnato le domande. Ci siamo confrontati con lo scorrere del tempo, con gli spiriti che accompagnano il nostro presente e con le difficoltà di trovare un equilibrio tra razionalità e irrazionalità.
Sono tante le collaborazioni che arricchiscono il lavoro di Blindur: in Exit troviamo J Mascis dei Dinosaur JR, Rodrigo D’Erasmo, JT Bates dei Big Red Machine, Roberto Angelini, Monique Honeybird Mizrahi e Daniele Ruotolo dei Malmo. Tutti amici di cui Massimo De Vita ha voluto circondarsi, quasi come a voler dare un calcio agli anni in cui, per forza di cose, la solitudine è stata sua compagna.
Intervista esclusiva a Blindur
Exit, il tuo ultimo album, è composto da 11 canzoni sparse su un tabellone da gioco, di cui hai curato tu stesso regolamento e idea alla base. Da dove nasce l’idea del gioco?
Il filosofo contemporaneo Alan Watts suggerisce di vivere tutto cercando di alleggerire ciò che accade e, quindi, convertendo ogni esperienza negativa in positiva: nella sua visione del mondo e della vita, un imprevisto o un ostacolo diventano una sfida. Un po’, quello che sostengo anche nella canzone La festa della Luna: la cosa divertente è che io ho scoperto Watts solo dopo aver iniziato già a lavorare al disco.
Nel corso del tour precedente con la mia band, catapultati a gestire ogni tipo di imprevisto che suonare in giro presenta, cercavamo già di prendere tutto alla leggera per non rischiare di impazzire. Abbiamo cominciato ad autoconvincerci che eravamo in un gioco di ruolo: ogni volta che accadeva qualcosa di folle, ci dicevamo che eravamo in una nuova puntata del gioco, tanto che tra di noi ci chiamavamo giocatori.
L’album si apre con 540 Bar, titolo che indica la profondità a cui si troverebbe Atlantide. Usando il testo della canzone, rivolgendolo a te, ti chiedo: chi sei?
È una grande domanda. Ogni volta che provo a mettermi di fronte allo specchio, mi appare qualcosa di diverso. Nella mia mia visione del tempo, esiste soltanto il presente: anche il passato è influenzato dagli occhi del presente. Solitamente accade il contrario: ci guardiamo indietro per capire chi siamo. Allo stesso tempo, il futuro non si fa nemmeno in tempo a nominarlo che è già passato. Quindi, in quest’ottica, il presente è il mio unico tempo possibile… il tempo di un trentacinquenne in costante ricerca, in costante esplorazione della vita e del suono. Continuo a conservare la mia curiosità: ci sono tante cose che mi porto dietro ma sono sempre affamato di nuovi contenuti.
Si prosegue poi con Eclissi, in duetto con Roberto Angelini. Quale è stato il salto più grande che hai fatto? E, di riflesso, è arrivata l’onda improvvisa che ha cambiato tutto?
Tra i surfisti ci sono quelli che aspettato la grande onda e quelli che invece vanno a cercarla, a stanarla. Io appartengo alla seconda categoria. Mi sono successe un sacco di cose ma forse il salto più forte che ho fatto negli ultimi anni, anni per me turbolenti, è quello di aver incontrato tanti artisti e aver condiviso con loro il mio tempo. Anche se, il passaggio più importante credo sia stato l’aver immaginato una band per i Blindur.
Quando ho registrato il mio secondo album, ero totalmente da solo. Immaginavo la band ma ancora non c’era. Aver messo insieme le persone più improbabili che potevo trovare ha scatenato in me quella grande onda che poi è confluita in Exit: senza di loro, il disco non sarebbe venuto così com’è. Non ci sono solo io al lavoro ma c’è tutta una squadra di persone che è entrata non solo nella mia musica ma anche nella mia vita, apportando molti cambiamenti.
Sereno è una metafora della navigazione della vita. Che ruolo ha giocato l’ignoto, nel tuo caso la musica, nella tua vita?
Odiavo la musica. I miei hanno cominciato a farmi studiare pianoforte dopo l’incidente in cui ho perso la vista: qualcuno aveva detto loro che la musica era terapeutica ma a me della musica non fregava niente. Mi inventavo anche mille malattie immaginarie per non andare a lezione. Negli anni del liceo, invece, la musica mi è servita fondamentalmente come modo per non essere solo: era un modo per parlare con qualcuno. Non sapevo però niente e non avevo mai visto un musicista: ho cominciato allora a suonare degli strumenti in maniera assolutamente improprio. Il primo è stato il basso ma non avevo idea nemmeno che si dovessero usare tutte le dita!
La musica è stata un mezzo per affrancarmi dalla mia solitudine. Ero un ragazzino non vedente con un’indole inquieta. Per mille motivi diversi, avevo deciso di non frequentare altre persone non vedenti: cercavo di rimanere aggrappato a quello che per me era il mondo “normale”. Ma questo non è un Paese facile per chi cerca quel tipo di inclusione.
Era una solitudine cercata o indotta?
Un po’ e un po’. La mia solitudine era chiaramente dettata dalla mia condizione. Ma sono anche un po’ orso caratterialmente: a me piace farmi attraversare dalla solitudine e trasformarla in qualcosa di più dolce. Quando oggi cerco la solitudine le attribuisco un valore positivo ma all’epoca se non ci fosse stata la musica avrei fatto un sacco di guai. Ne ho fatti ma senza musica ne avrei fatti di più!
Perché dici che questo non è un Paese facile?
Non siamo educati alla diversità. Negli anni mi sono ritrovato a vivere situazioni assurde e quelle più assurde di tutte erano legate ai disabili. Molte volte altri disabili mi hanno detto che sbaglio a stare con le persone “normali” e che dovrei invece stare con altri “come me”: questa è la cosa più pazza di tutte in assoluto. È una roba autoreferenziale o ghettizzante.
Poi pensiamo a tutti gli ostacoli. Ho imparato a camminare per strada col bastone da solo perché dove vivo è difficilissimo fare dei corsi di orientamento. Trovare dei semafori sonori a Napoli è un’impresa da mille punti.
E c’è anche tutto il discorso legato all’utilizzo del Braille, linguaggio - per carità - utilissimo. Prima dell’incidente, leggevo tantissimo. Quando ho perso la vista, ho allora provato a imparare il Braille. Ma mi sono ritrovato a dover ripartire da zero ed è stato frustrante: oggi esistono strumenti digitali che permetterebbero di avere una quotidianità più normale. Perché devo conoscere il Braille? Perché io, non vedendoci, devo imparare un’altra lingua che non è la mia?
Vogliamo poi parlare banalmente di cosa accade quando da disabile vai ad assistere a un concerto? Si viene relegati negli angoli più lontani e bui dal palco, devi fare prima mille richieste e inviare decine di incartamenti. E magari ti chiedono di farlo anche via fax, una roba kafkiana quasi.
Fuori dall’Italia, invece, noto una sensibilità diversa. Nessuno, ad esempio, fa caso al fatto che non sono vedente. Mi si considera semplicemente in quanto musicista: posso piacere o meno. Non è che perché non ci vedo allora automaticamente sono una brava persona. Il pietismo è simile all’esclusione: la gente pensa di far bene ma non è così. Quando reagisci, sembra quasi che abbiano paura. Però, quando suonavo per strada, mi faceva comodo essere cieco: il pietismo era remunerativo, mi faceva fare un sacco di soldi! (ride, ndr).
Il risveglio della ragione genera stati di agitazione, come del resto canti.
Qualsiasi presa di coscienza crea inquietudine nel tempo: non c’è adagio più vero del “beata ignoranza”. Ogni volta che scavi in profondità, rischi di risvegliare demoni ancestrali. Con la conoscenza, ho dovuto di fatto prendere atto di una serie di cose anche prima del tempo ma non so se rinuncerei mai a questo. Sono un grande fan della consapevolezza e sono anche un grande fan della conoscenza, nel senso che credo che siano liberatori.
Se mi dicessero che tra cinque anni il pianeta Terra collasserà, tale notizia mi scatenerebbe molta agitazione, mi farebbe arrabbiare, disperare e angosciare. Ma allo stesso tempo dovrei convertire tutta l’energia che si manifesterebbe con l’ansia in azione, mettere in atto un cambiamento. Quindi, la conoscenza e l’ansia fanno da motorino di avviamento al cambiamento e alla rivoluzione: facciamo qualcosa invece di spaventarci. La paura è un istinto naturale che ti pone davanti a un bivio: o ti immobilizza o mette in atto l’istinto di sopravvivenza. L’invito è quello a non aver paura, come ho scritto in Secondo Giovanni.
La casa degli spiriti, oltre a essere un bellissimo romanzo di Isabelle Allende, è anche una canzone di Exit che guarda al passato e alle assenze. Cosa o chi ti manca di più oggi?
In ogni mio disco c’è sempre involontariamente una canzone che, senza assecondare troppo l’aspetto estetico, entra nel vivo della mia storia personale e che poi fatico anche a cantare in pubblico. Puntualmente, questa diventa quella che piace di più e che mi viene richiesta a ogni concerto, costringendomi a metterla in scaletta.
Ho avuto un’infanzia piuttosto complicata, dal punto di vista sia familiare sia personale. L’incidente è arrivato a sette anni e mezzo: tutti i miei ricordi visivi e tutti i colori sono legati a quel periodo, alla prima metà degli anni Novanta. Per me, è tutto fermo lì visivamente. E la stessa cosa è accaduta anche con le persone: conservo l’immagine che avevo allora. Sono consapevole del passare del tempo ma, ad esempio, nella mia testa mia madre e mio padre sono come allora.
Per rimanere fedele a me stesso, dovrei dirti che non vorrei ritrovare niente e nessuno in più di ciò e di quelli che ho oggi nella mia vita. Ci sono state delle perdite importanti, a cui di tanto in tanto mi ritrovo a pensare. Ma mi viene in mente cosa diceva Benigni a proposito di Troisi: mi manca quella persona a cui puoi dire determinate cose e può capirti.
Il mio cassetto segreto, quello in cui ripongo le mie riflessioni, è diventata la musica. Ha veramente un enorme potere taumaturgico: la scrittura per certi versi è molto simile a un esorcismo, una cura. In La casa degli spiriti, usando l’espediente della letteratura (per cui nutro un amore grande quanto quello per la musica), provo a dire quelle cose che oggi non posso dire a quelle persone che non ci sono più.
In Mr Happiness, la storia di un supereroe per caso che torna a essere anonimo, ti chiedi quanto sia quotato il dolore. Sembra quasi che senza di esso non si possa esistere. Nel tuo percorso, quanto peso ha avuto il dolore? Ha mai avvertito se, nell’avvicinarsi a te, si era più interessati al dolore che ad altro?
Mille volte e a più riprese, direi. Il dolore è molto quotato, soprattutto nella televisione generalista, dove si va alla ricerca di storie che per colpire al cuore sono drammatiche. E più sono drammatiche più funzionano. Ho detto tante volte no a richieste e proposte, a volte davvero oscene: vado in televisione se posso parlare della mia musica o del mio nuovo disco. Non mi va di andare a recitare una parte e di prestarmi al pietismo telecomandato: se dovessi parlare della mia esperienza liberamente, non mi creerei il problema.
Se si parlasse di disabilità nella maniera più spontanea, come sta avvenendo nel corso di quest’intervista, sarei la persona che si esporrebbe di più sull’argomento. Ma non perché io sia un supereroe: ci sono tutta una serie di cose che non posso fare, di conseguenza lasciatemi fare in totale libertà tutte le altre che voglio e posso fare.
Il dolore è sempre quotato, non passa mai di moda. Spacca in tutte le sue declinazioni: dai bambini in guerra all’atleta paralimpico, passando per il panda in via d’estinzione. Animali fantastici e dove trovarli: il disabile fa parte della categoria.
In Adesso c’è un bellissimo confronto tra l’uomo razionale e quello irrazionale. Il tuo viaggio è stato più razionale o più irrazionale?
Di fatto, mi sono ritrovato molte volte di fronte a cose che non potevo controllare. La mia curiosità e la mia voglia di stare con le antenne alzate mi portano sempre a scegliere la strada più complicata e ricca di imprevisti. C’è stata una lunga fase della mia vita in cui ho provato a organizzare quello che mi succedeva per controllarlo ma ho capito che, così facendo, mi stavo perdendo qualcosa. Ho allora cominciato ad apprezzare infinitamente l’aleatorietà e la casualità.
Ma non vuol dire che sia un fatalista. Credo che anche alla base di un lancio di dadi ci sia sempre la scelta della volontà che porta ad accettare il gioco, anche se poi ciò che viene fuori dalla scelta non lo sa nessuno. Quindi, direi che il mio viaggio è stato irrazionale. Contrastato fino a un certo punto ma irrazionale da quel momento in poi.
Aar parla di ambiente, guerra e dei tormenti del mondo intorno a noi. Chiedi a un’ipotetica altra persona “Ma tu pensi a me?”. E tu pensi a te stesso?
Molto poco. Sono una persona che si trascura molto anche se negli ultimi anni, mollando un po’ il colpo sulla frenesia del rock’n’roll giovanile, ho capito che è bello farsi ogni tanto dei regali, concedersi delle cose. Mi sembra che l’epoca in cui viviamo vada in direzione totalmente opposta ma dobbiamo trovare del tempo da dedicarci a quello che vogliamo fare e non solo a quello che dobbiamo fare. Non sempre le due cose coincidono. Mi sembra il grande bug di questo momento storico: mi piacerebbe invece un mondo in cui le persone abbiano più tempo libero possibile da dedicare al pensare a ciò che ci piace fare.
Quali sono i regali che ti concedi?
La cosa che più mi piace fare in assoluto è viaggiare. Per fortuna, ho scelto un lavoro che mi fa viaggiare tantissimo. La musica è una grande scusa per essere sempre in viaggio! Per lavoro, per piacere o per svago, viaggiare è il regalo che mi faccio di continuo.
Per citare Exit, qual è il posto in cui spariresti, la tua via d’uscita?
È una canzone che è arrivata come una palla di cannone, in breve tempo. Non ho nemmeno capito perché la stavo scrivendo o di cosa stavo parlando. So solo che la lavorazione è stata accompagnata da un grande pianto, il perché non lo so. Credo che sparire sia quel momento in cui decidi di abbassare il sipario per stare nel posto che decidi tu e con le persone che vuoi tu. Arriva l’esigenza quando non hai più nulla da mostrare e vuoi goderti la tua vita, senza più dadi da tirare o caselle in cui avanzare. Ma occorre del tempo e della pazienza per far sì che arrivi: anche nel gioco, l’ultima casella la si raggiunge con il tiro giusto dei dadi; quindi, tante volte capita di dover tornare indietro.
Sono una persona che tende a incasinarsi la vita da solo molto facilmente ma c’è un minimo comune denominatore che riguarda tutti quanti, dall’astronauta al musicista: l’andare mano nella mano con qualcun altro. È l’immagine più semplice e più commovente che sono riuscito a trovare per raccontare quel bisogno di non trattenere più le emozioni e di consegnarsi totalmente all’altra persona. Quando accade, significa che hai trovato il posto giusto nel momento giusto con la persona giusta.
Una domanda che non ti sarai mai sentito fare: a cosa si deve il nome Blindur? Se a Blind ci si arriva anche da soli, a cosa è dovuto il suffisso “ur”?
Ha dietro un aneddoto abbastanza divertente. Ho avuto modo di incontrare, tramite un giro di amicizie, Robert Plant. Quando mi si è avvicinato, senza saper nulla di me, mi ha subito detto: “I tuoi occhi hanno qualcosa che non va”. Ho risposto: “Io e te abbiamo molte cose in comune. In più, tu non ci vedi da un occhio ma io in questo sono più bravo di te: non ci vedo da due”.
Quel momento di ilarità condivisa ha fatto cadere il muro tra l’artista e il fan che ero io, facendoci entrare in molta confidenza e restare in contatto. Da quel momento, la parola "blind" doveva in qualche modo far parte del nome del gruppo che avevo in mente.
Sono stato poi con lo stesso amico chitarrista a un concerto dei Sigur Ros, un gruppo che da sempre apprezzo: un'ora e mezza che è volata via come un minuto. Insieme al mio amico, abbiamo poi cercato la traduzione in islandese della parola "cieco": “blindur”. E l’ho allora scelta come nome della band: metteva insieme la mia condizione e il mio amore per l’Islanda e il suo immaginario. Tra l’altro, è anche una di quelle parole che si pronuncia così com’è scritta.
Sei stato quindi in Islanda?
Sei o sette volte. Ho tanti amici lì.
Abbiamo cominciato parlando di solitudine, chiudiamo parlando di amici…
È quello che succede con il tempo: basta non ostinarsi a ordinare le cose. Tutte le trasformazioni si mettono in atto da sole: basta non avere paura e vedrai…