Blu Yoshimi è la protagonista del film El Nido, opera prima che arriva oggi on demand su tutte le piattaforme. Si tratta di un film di fantascienza che, in uno scenario che incredibilmente anticipa le conseguenze della pandemia da CoVid, si dipana lo strano legame tra Sara, colpita dal virus che trasforma in zombie, e Ivan, colui che dovrebbe proteggerla e aiutarla a convivere con la sua nuova condizione. Quella che si crea tra Sara e Ivan è una dinamica interessante: in breve tempo, si trasformano in vittima e carnefice di una relazione che oggi definiremmo tossica. Del resto, da questo punto di vista, la fantascienza è sempre stata un escamotage per raccontare di presente e di tematiche universali.
Blu Yoshimi è una di quelle giovani attrici millennial che ha piena consapevolezza dei ruoli che scegli. Sembra infatti che ogni personaggio interpretato tiri fuori un lato nascosto della sua interessante personalità. Di recente, anche se pochi minuti, ha preso parte al film franco-algerino Sigaro al miele mentre prossimamente la vedremo in Il sol dell’avvenire, il nuovo atteso film di Nanni Moretti. Cosa la spinge ad accettare una parte piuttosto che un’altra ce lo dirà lei nel corso di quest’intervista ma la sensazione è che a Blu Yoshimi non manchi la determinazione. Così come non manca la voglia di esporsi in primo piano sugli argomenti che le stanno a cuore.
Sul set da quando era poco più che una bambina, Blu Yoshimi ha anche una forte spiritualità, che non ha paura di manifestare sin dalla scelta di usare come nome d’arte quello che le è stato dato dal suo leader spirituale buddista. Bella e soprattutto intelligente, Blu Yoshimi non ha mai fatto scelte scontate: lo studio per lei è sempre stato fondamentale, da quello con le diverse compagnie teatrali alla laurea al Dams, dalle lingue al canto. A dimostrazione che essere attrice non è un mestiere ma una vocazione.
E oggi Blu Yoshimi ha più di un sogno da portare avanti. La scrittura e la regia in primo luogo. Ma anche il desiderio di cimentarsi in una commedia o in un musical. Come le suggerì qualcuno, ha già collezionato le ore di volo che le permettono di pilotare quell’aereo che è il suo percorso artistico, tenendo a modello l’esempio di una delle nostre più grandi attrici, sua madre.
Intervista esclusiva a Blu Yoshimi
Sei protagonista di El Nido, il film di Mattia Temponi, un film di fantascienza. Come tutti sappiamo, la fantascienza è a volte un modo per poter parlare senza filtri del presente. Nel film si racconta un’epidemia, che ricorda tantissimo il CoVid. Si parla di lockdown, isolamento, tamponi… Ma usa l’escamotage della pandemia che trasforma in zombie per parlarci di un tema caldo dei giorni nostri: l’amore tossico.
È fantastico, pensando che il film è stato scritto prima che ci fosse il CoVid. Tutti tendiamo oggi a parlare di relazioni pericolose o tossiche con gli altri, dimenticando però che il rapporto che si crea tra vittima e carnefice, come nel caso della mia Sara con Ivan, è di totale dipendenza.
Come ti sei approcciata al personaggio? È la prima volta che ti cimenti in un film di fantascienza e che reciti in spagnolo.
Ho apprezzato tantissimo lavorare in un film di fantascienza perché ti dà la possibilità di dire tanto senza raccontare le cose in maniera didascalica ma facendole semmai emergere da un’esperienza più totalizzante. Dai primi feedback ricevuti, tutti riconoscono chiaramente il tema trattato e gli elementi di ogni relazione tossica. Ho amato il personaggio di Sara perché mi ha permesso di riconoscere che in un rapporto malato non esiste una netta distinzione tra vittima e carnefice, è illusorio pensare che vi sia. Sara viene vista come vittima per tutto il tempo ma in realtà potrebbe essere lei la carnefice.
C’è una dinamica molto fluida in cui le controparti non sono così nette. Per trovare una corrispondenza nella realtà basti pensare a qualcosa che tutti hanno commentato con grande leggerezza: il caso Johnny Depp vs Amber Heard. È molto complicato riconoscere chi ha fatto più male a chi. Nei rapporti di dipendenza, è difficile stabilire chi fa più male a chi: tutti quanti abbiamo dentro un mostro e non so perché siamo diventati così giudicanti a livello collettivo e sociale. Siamo tutti intenti a non riconoscere quest’aspetto e a far finta di essere tutti buoni. Anche la persona migliore al mondo ha del marcio. E il marcio va guardato in faccia altrimenti ci si ritorce contro nei modi più sottili anche nelle relazioni, facendoci perdere il controllo.
A quel punto non si tratta di controllo ma di qualcosa di ben più grave: ossessione.
Esatto. Ci sono dei momenti in El Nido in cui per Sara stare con Ivan è quasi romantico. È quasi innamorata dell’idea di sicurezza che le trasmette, del fatto che qualcuno si prende cura di lei quando ancora nemmeno lei si è data il permesso di farlo. Ho amato tanto Sara e, per rispondere alla domanda di prima, ho amato recitare in spagnolo: mi auguro che qualche piattaforma permetta di vederlo in originale con i sottotitoli e non solo nella versione doppiata in italiano.
Parlo tre differenti lingua: inglese, francese (ho anche recitato nel film Sigaro al miele) e spagnolo. Delle tre, lo spagnolo è quella che parlavo peggio. Prima delle riprese, mi sono immersa nell’ascolto della lingua e nella lettura in spagnolo mentre avevo già una buona base grammaticale datami da una professoressa: dovevo garantire ciò che avevo incoscientemente sostenuto al provino: “Claro que hablo bien español!”.
Recitare in una lingua diversa talvolta comporta il non avere il pieno controllo delle parole che dici. Sul set di El Nido, però, mi sono sentita molto libera e ho avuto anche la possibilità di modificare delle battute in corso d’opera, usando parole e termini che pensavo fossero più adatti. C’era ovviamente un coach che verificasse che non dicessi stupidaggini!
Parlare in una lingua diversa mi diverte. Anche i vari dialetti italiani sono delle lingue che permettono di mettersi in gioco e di entrare in mondi diversi dal proprio. I personaggi che scelgo di interpretare hanno sempre qualcosa di mio ma mi danno anche l’occasione di trasformarmi il più possibile. Tutti noi siamo fatti di tanta roba e ogni personaggio va a toccare un tasto di noi stessi.
Ad esempio, ho visto Sara come una sorella minore a cui tendere la mano e dire “io ci sono, vinciamo insieme questa cosa che ti sta accadendo”. Anche perché ho vissuto sulla mia pelle la violenza psicologica, l’abuso psicologico, e la manipolazione. È stato qualcosa che ha condizionato veramente la mia vita in tutto e per tutto. Ha avuto effetti su ogni cosa: è stato pensante e tosto. Non si trattava di una relazione sentimentale ma aveva a che fare con una persona che ha un peso nella mia vita. Credo di non essere l’unica, purtroppo.
Interpretare Sara è stato un bel rito di liberazione e di catarsi. Ma anche uno scambio: io ho aiutato lei e lei ha aiutato me.
El Nido: Le foto del film
1 / 8È strano da un certo punto di vista che mi parli di sorella minore quando potresti essere tu la sorella minore. Ti vediamo sullo schermo da tantissimo tempo. Hai iniziato da bambina ma hai solo 25 anni.
Grazie per averlo notato perché a volte mi sento vecchia. In determinate circostanze, vengono trattata con grande rispetto e ovviamente mi fa piacere, non è sempre stato così. Mi fanno sentire una veterana ma, cavolo, ho 25 anni e devo ancora fare un bel po’ di cose, ho ancora tanto da imparare.
Questo è un momento ciclico della tua carriera cinematografica perché ritorni sul luogo del delitto: sul set di Il sol dell’avvenire con Nanni Moretti a quasi due decenni di distanza da Caos calmo.
Bravo a definirlo luogo del delitto: è esattamente quello! È un po’ magico e significativo anche per me. Non avevo mai lavorato con Nanni alla regia e poco prima di girare ha voluto aggiungere una scena più importante per il mio personaggio, un personaggio ricorrente ma di cui io stessa so poco! O, meglio, non posso dire niente. Mi ha chiamato spesso per dei provini in passato e finivamo per chiacchierare tantissimo senza che però venissi poi scelta. Ho sostenuto anche questa volta il provino, è andato tutto bene ma ricordo che scherzando gli ho detto: “Sono anni che vengo a fare i provini per te: non è che mi chiami solo per chiacchierare?”.
La figura e il personaggio di Nanni sono stati mistificati nel tempo, si è creato intorno a lui il mito della persona burbera. In realtà, io lo vedo come uno dei pochi autori che ama veramente quello che fa e che ha ancora voglia di sperimentare. È bello vedere qualcuno che, con un certo percorso alle spalle anche a livello internazionale, si emoziona ancora quando chiude una scena o corre al monitor per rivedere il girato insieme a te. Emoziona anche me vedere un regista del suo calibro emozionarsi.
Nanni Moretti è un’istituzione da preservare. Spesso noi italiani tendiamo a non dare il giusto valore e peso ai nostri autori. Siamo sempre ipercritici senza un vero perché di fondo.
Ci manca la tendenza a sostenere il nostro cinema. Ho molti amici, miei coetanei, appassionati di arte, cultura e cinema. Spesso, però, mi dicono di non amare particolarmente il cinema italiano. Mi dicono che non vanno a vedere i film italiani in sala mentre per me vale l’esatto opposto: corro a vedere un film italiano, soprattutto se è un’opera prima. Mi sento quasi emozionata nel far parte di un mondo ancora puro come può essere quello di un esordiente.
E infatti hai recitato anche in diverse opere prime.
Da attrice, mi sento onorata di prender parte a un’opera prima. Un film è come un figlio e quello di debutto è al pari di un primogenito: è un onore avere il mio nome sulla locandina di qualcosa di così grande. La cosa bella è che in Italia abbiamo anche un cinema indipendente molto interessante per cui mi piacerebbe che si creasse un circuito più ampio. Penso a opere come A Chiara, Maternal, Piccolo corpo… tutti prodotti stupendi e di qualità altissima. Sarebbe giusto e necessario proteggerli e sostenerli. Fa male sapere che la gente non va a vederli in sala. Ho recitato in film come Piuma o Likemeback, apprezzati nei festival di Venezia e Locarno: eppure, hanno fatto fatica a trovare pubblico in sala.
A proposito di nuovi autori, cosa deve avere una sceneggiatura per convincerti?
Considero innanzitutto una pluralità di cose: se già la sceneggiatura sulla carta non funziona, non ha senso trasformarla in film. Personalmente, prediligo i personaggi contraddittori. Spesso i personaggi femminili sono piatti e non hanno le sfaccettature che noi donne abbiamo nella realtà. È lo stesso problema che oggi sta affrontando la comunità lgbtqia+ che si batte per personaggi un po’ più completi e meno macchiette. Non si tratta di una questione di etichette o di categorie: l’essere umano in genere è complesso e non monocorde. Un autore ha il dovere di osservare la realtà e di restituirla, un fondo di verità deve esserci sempre, anche nella fantascienza. L’osservazione deve essere molto consapevole, molto viva: non sono solo i personaggi maschili a essere complessi. Finiamola di legare le donne, anche quando sfaccettate, alla figura degli uomini o di metterle in contrapposizione a loro.
Eppure, abbiamo avuto un cinema che era in grado di regalare grandi figure femminili. Penso agli anni Cinquanta e Sessanta, quando le nostre grandi dive portavano veramente sulle loro spalle le storie interpretate. Probabilmente, gli autori del dopoguerra si erano resi conto della forza delle donne, aspetto che noi tutti e tutte abbiamo oggi dimenticato. Occorre accettare che anche le donne cambiano, che possono essere indipendenti ma anche carnefici e non solo vittime.
Blu Yoshimi è il tuo vero nome?
Sì, da carta di identità: Blu Yoshimi di Martino. Sono nata in una famiglia buddista e Yoshimi è il nome che mi è stato dato dal leader spirituale Daisaku Ikeda. Ho solo levato il cognome per evitare che il mio nome fosse lunghissimo. Ma è una scelta che ho fatto son da piccola e di cui sono sempre stata sicura. Volevo sentirmi un po’ unica: non sarebbero stati in tante a chiamarsi come me! Al di là di ciò, Yoshimi mi è stato affidato alla nascita e ho voluto portarlo sempre con me, in ogni cosa che facevo.
Quanto è ancora forte in te la spiritualità?
È molto forte e molto viva. Da esseri umani, abbiamo sempre cercato grandi risposte: mi riconosco a pieno in questa facoltà. Credo che sia giusto che ognuno coltivi la propria spiritualità nel modo che ritiene più proprio, non per forza attraverso la religione. Io, ad esempio, sento forte la spiritualità in mezzo alla natura, un elemento di cui non potrei fare a meno. Costantemente e quotidianamente mi dedico alla pratica buddista, la porto avanti con enorme gioia. La porto anche nel lavoro: per forma mentis, ho sempre sentito che il mio lavoro avesse una certa sacralità. Occorre sempre dare peso e importanza a ciò che si dice e che si fa. La spiritualità diventa un po’ uno stile di vita, dà valore a ogni cosa che fai.
Hai mai sentito il peso di essere la figlia di un’attrice?
No. La mia è stata una scelta sicuramente influenzata in modo positivo da mia madre: è un esempio per me. È stato bello poter vedere da vicino la sua professione ma anche vederla combattere nei momenti in cui non tutto filava liscio. È sempre stata di grande ispirazione. Io e lei abbiamo percorsi completamente indipendenti e questo ci permette di giocare molto insieme. Mi ha anche diretto in un suo cortometraggio, Tra fratelli, ed è stato bellissimo. Adesso insiste affinché sia io la protagonista del lungometraggio che ha scritto e che vorrebbe dirigere. Sarebbe un onore. Un po’ come Margaret Qualley e la madre Andie McDowell, che hanno lavorato insieme nella serie Netflix The Maid. Entrambe sono attrici ma hanno avuto due tipi di percorsi e carriere differenti.
A proposito di Netflix, nel tuo percorso artistico manca un bel progetto pop. Di te si dice spesso che sei un’attrice impegnata.
Impegnata a lavare i piatti o a lavorare al bar quando non recito per pagare le bollette o altro. A me piacerebbe cimentarmi nel musical o nelle commedie romantiche. Amo il mio lavoro proprio perché mi dà la possibilità di sperimentare cose che probabilmente non potrei fare mai nella vita. Il mio modo di essere e l’interesse per l’essere umano mi hanno portata a scegliere finora personaggi e storie complesse ma se dovesse arrivare qualcosa di leggero ma ben scritto non direi di no. Fosse per me, lavorerei anche di più: non ho il pregiudizio per cui posso fare una cosa e un’altra no.
Ricorderò sempre cosa mi disse Vinicio Marchioni sul set di Socialmente pericolosi: per i prossimi anni colleziona ore di volo. Ed è per questo che non sto mai ferma: anche quando non sono sul set continuo a tenermi impegnata e a sperimentare, anche fuori dall’Italia. Durante le riprese di Sigaro al miele, ho scoperto la passione per la regia: per la prima volta sono stata dietro la macchina da presa girando il teaser di un corto che ho scritto: Soul Singer, è stato tutto molto emozionante. Ma non vorrei mai che una cosa dominasse sull’altra, vorrei portare avanti in parallelo sia la recitazione sia la scrittura e la regia.
Hai, da piccolissima, portato a teatro Il mago di Oz.
E ora sono stata impegnata nella scrittura di un’opera teatrale che è la rilettura di Peter Pan, una favola che racconta tantissimo dell’universo femminile e del mondo dei giovani adulti. Amo Peter Pan e trovo la sua storia oscura, grave e pesante, meravigliosa. Parla di abbandono, di un’isola che non c’è, di bambini rapiti… Ho sempre voluto interpretate Peter nella mia vita e la sua fiaba mi permette di raccontare ben altro.
In Italia, la fascia young adult è poco riconosciuta. Eppure, è quella che in questo momento sta soffrendo tantissimo: è la più colpita dalla disoccupazione ed è la prima generazione che sta peggio di quella che l’ha preceduta. Ci sono una disillusione e una depressione dilaganti. Quelli della mia età non se la stanno passando benissimo psicologicamente. Come ti dicevo prima, mi divertono i personaggi drammatici: anche quelli comici hanno in fondo la loro parte di dramma. Prendete il cinema di Charlie Chaplin: è un dramma costante, non c’è mai niente che vada bene in realtà, anche se è comico.
La mia generazione è molto bella ma dimenticata. Sono stata studentessa universitaria e ho potuto constatare come non sia stata spesa una parola per gli studenti in questi ultimi due anni. Per non parlare poi degli studenti del liceo, delle scuole medie o delle elementari. Hanno dato per scontato che tutti sapessimo gestire da soli la situazione. Siamo poi quelli della generazione che non possono pianificare nulla, che non hanno certezze e che viviamo una costante precarietà.
Hai recitato nel 2013 in Arianna, dramma di Carlo Lavagna presentato al Festival di Venezia, un film che parlava di identità di genere in un momento in cui della tematica ancora non si parlava. Sarebbe più facile oggi proporre un film come quello?
Ora la chiamiamo tematica ma stiamo sempre parlando di esseri umani. In questo momento, c’è una discussione aperta al riguardo, sembra quasi che si sia costretti a parlare di certi argomenti. Ma perché prima non esistevano? Com’era il mondo prima? Parliamo di una realtà che è sempre esistita, è cambiato semmai il grado di osservazione e di ascolto da parte di tutti. Anche un attore ha la responsabilità di mettere sul piatto qualcosa di organico, di veritiero e di rispettoso.
Arianna non parlava di una tematica. Raccontava la storia di una ragazza ma non so se oggi siamo più aperti nell’accoglierla. Non ho ancora capito se c’è in atto veramente un processo di consapevolezza profonda o se stiamo continuando a regalarci dei contentini. Arianna non era di sicuro un contentino: la storia era raccontata in maniera anche cruda e non sempre piacevole ma mai nessuno si è seduto a tavolino per dirmi “questa è la tematica”. Amo quel film e tutto il processo di documentazione che ho portato avanti per entrarci dentro.
È giusto che oggi ci sia un focus sull’identità di genere, altrimenti ho come l’impressione che non se ne parlerebbe. Mi auguro che sia da spinta per approfondire la realtà e porsi delle domande. Che non sia solo una moda per sembrare tutti bravi e buoni: saremmo degli ipocriti. È un discorso che si può estendere a ogni ambito dell’inclusività, a ogni realtà considerata diversa. Più il cinema racconta le loro storie, più tutti noi abbiamo la possibilità di guadagnarci qualcosa e più si intavolano discussioni serie sui diritti.
Mi innervosisco nel dover parlare nel 2022 di alcune cose umanamente così ovvie. Se solo imparassimo ad ascoltare veramente, saremmo oltre. E mi riferisco anche alla politica: è impensabile, ad esempio, che a discutere di aborto siano quattro uomini che non ascoltano e non vanno oltre il loro io. Dovremmo imparare a fidarci del racconto di chi determinate situazioni le vive sulla propria pelle, a vivere le esperienze di un’altra persona… esperienze che probabilmente non conosceremo mai direttamente.
Viviamo in un mondo in cui un’attrice come Rebel Wilson ha bisogno di fare coming out perché un quotidiano “minaccia” di pubblicare le foto della sua compagna.
È una follia, una violenza vera e propria. Che ti frega di cosa fa nella sua vita privata? Facciamoci una domanda: perché a tutti interessa così tanto chi va a letto con chi? Ma che siamo diventati un mondo di gossippari? Tutto alla fine si riduce a questo. Ma di cosa stiamo parlando? Ma che c**zo ci frega? Avete mai visto qualcuno andare in giro e dire “Ciao ragazzi, comunque volevo dirvi che sono etero”?
Gli artisti che hanno fatto coming out, lo hanno fatto perché per loro aveva un senso farlo, oltre che un peso sociale: con il loro esempio, hanno liberato e messo a proprio agio tante persone. Ed è bellissimo che lo abbiano fatto quando ritenevano giusto farlo: hanno avuto veramente coraggio. Però, dall’altro lato è ingiusto che debba accadere una cosa del genere: la sessualità e l’identità riguardano un aspetto intimo che ognuno di noi deve vivere in piena libertà.
Ecco perché riconosco l’importanza di parlarne ad alta voce e di manifestare: è ancora necessario. Mi dispiace che i ragazzi e le ragazze debbano ancora combattere per una roba che invece dovrebbe essere intrinseca.